Ha suscitato impressione e sgomento la morte di Luana D’Orazio, l’operaia 22enne risucchiata da un macchinario di un’azienda tessile in provincia di Prato. Se l’episodio colpisce per la straziante modalità dell’infortunio, per la giovane età della vittima e per la sua situazione personale e famigliare, dovrebbe angosciarci ancor di più il numero delle vittime sul lavoro: si parla di due/tre morti in media al giorno. Un’autentica carneficina davanti alla quale rimaniamo stupiti, ma, alla fine, anche indifferenti. Sono morti silenziose il cui effetto dura l’espace d’un matin, vale a dire il poco tempo che registra l’apertura di indagini da parte della magistratura, la protesta dei sindacati, la brevissima e scandalistica eco dei media, l’indignazione di facciata di molti, l’omertoso fatalismo di troppi.
Siamo tutti portati, di fronte a certi eventi apparentemente al di fuori della nostra portata, a invocare l’alibi del “caso”. Il teologo Alberto Maggi, affrontando il discorso dal punto di vista esistenziale, afferma: «Eh, sì, il caso…Ma che cos’è il caso? Tutti conoscono il celebre aforismo coniato da Anatole France, lo scrittore francese premio Nobel della letteratura: “Il caso è lo pseudonimo di Dio quando non vuole firmare”. Credo che il caso sia il contrario di un termine affine, caos, e potrei filosofeggiare dicendo che è il caso a mettere ordine nel caos…».
Probabilmente sto forzando il pensiero del suddetto teologo allargandolo a livello sociale, tuttavia dobbiamo uscire da questo irresponsabile atteggiamento del subire come inevitabili queste disgrazie più o meno annunciate. Possibile che la tecnologia ci consenta l’adozione dei più sofisticati marchingegni e non ci aiuti a proteggerci da simili incidenti? Se da una parte dobbiamo riconoscere i limiti del nostro agire, dall’altra non dobbiamo fuggire dalle nostre responsabilità individuali e collettive. I comportamenti ex post lasciano il tempo che trovano ed hanno tutto il sapore della chiusura della stalla dopo che i buoi sono scappati. L’azione della magistratura tende a cercare l’ago dei colpevoli nel pagliaio di un sistema farraginoso e burocratico di norme e adempimenti che finiscono più col complicare che difendere la vita.
“Sul posto si è subito recato anche il magistrato di turno, i carabinieri della tenenza di Montemurlo e il personale Asl per la sicurezza nei luoghi di lavoro. Il macchinario presso il quale è avvenuto l’incidente è stato posto sotto sequestro per consentire di effettuare tutti i necessari accertamenti. Le indagini sono condotte dagli ispettori della sicurezza sul lavoro della Asl che devono chiarire, sulla base dei quesiti indicati dal magistrato, alcuni elementi sulle circostanze della tragedia. C’è da capire ad esempio se esistevano dei meccanismi di sicurezza che avrebbero dovuto bloccare il macchinario, quali sono i piani di sicurezza previsti dall’azienda e le circostanze sulle presenze dei colleghi al momento dell’incidente”. Non voglio essere brutalmente pessimista, ma intravedo la solita solfa che non porta da nessuna parte.
“Ancor oggi — è l’amara considerazione dei sindacalisti pratesi — si muore per le stesse ragioni e allo stesso modo di cinquant’anni fa: per lo schiacciamento in un macchinario, per la caduta da un tetto. Non sembra cambiato niente, nonostante lo sviluppo tecnologico dei macchinari e dei sistemi di sicurezza”. “Una morte inaccettabile che addolora e indigna profondamente”, hanno dichiarato in una nota congiunta Paolo Capone, segretario generale dell’Ugl, e Giuseppe Dominici, segretario regionale Ugl Toscana che concludono: “Chiediamo alle forze dell’ordine di fare piena luce sulle cause di tale tragedia. In occasione del Primo maggio abbiamo chiesto di implementare le tutele e le garanzie per i lavoratori rafforzando i controlli, la formazione e la cultura della sicurezza soprattutto nei settori dove il rischio infortunio è maggiore. Per onorare la memoria di Luana e di tutte le vittime sul lavoro, l’Ugl continuerà a battersi sensibilizzando le istituzioni e l’opinione pubblica sul triste fenomeno delle morti bianche e ribadendo ancora una volta: basta stragi”. Non voglio essere scetticamente qualunquista, ma sento odore delle solite rituali e sterili proteste.
Che fare allora? Bisogna ripartire da una fortissima presa di coscienza della centralità del lavoro nel nostro sistema economico-sociale. “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”: così inizia la nostra Costituzione. Dobbiamo ripartire di lì e rifare l’intero percorso che ci ha portati a costruire una società basata sul profitto a tutti i costi. Ognuno faccia la sua parte prima che succedano questi eventi tragici e non limitiamoci a piangere coccodrillescamente dopo avere inghiottito le vittime di un sistema sbagliato. Il legislatore sostiene spesso che le norme in materia esistono e sono fin troppo severe. Gli imprenditori annotano che le norme sono spesso inutili e inapplicabili: una montagna di carte sotto la quale seppellire i morti. Gli organi di controllo intervengono spesso solo a babbo morto. I giudici sembrano più cercare qualche capro espiatorio che fare veramente verità e giustizia.
Proviamo a rileggere ancora la cronaca già sopra riportata (repetita iuvant?): “Il macchinario presso il quale è avvenuto l’incidente è stato posto sotto sequestro per consentire di effettuare tutti i necessari accertamenti. Le indagini sono condotte dagli ispettori della sicurezza sul lavoro della Asl che devono chiarire, sulla base dei quesiti indicati dal magistrato, alcuni elementi sulle circostanze della tragedia. C’è da capire ad esempio se esistevano dei meccanismi di sicurezza che avrebbero dovuto bloccare il macchinario, quali sono i piani di sicurezza previsti dall’azienda e le circostanze sulle presenze dei colleghi al momento dell’incidente. La salma della giovane invece è stata trasferita all’obitorio di Pistoia per l’autopsia disposta dal sostituto procuratore di Prato Carolina Dini”. Non voglio esagerare, ma tiro la sarcastica morale della tragedia: il morto giace e il vivo fa finta di non darsi pace.