Centotrenta morti per un’altra strage annunciata. Tutte le autorità europee sapevano da due giorni che nel Canale di Sicilia c’erano 3 barconi messi in mare dai trafficanti libici. Eppure nessuno ha inviato navi per soccorrere i migranti in balia del mare grosso.
Sono durissime le parole, il giorno dopo la tragedia, della portavoce dell’Oim, l’organizzazione dell’Onu per i migranti, Safa Mshli: “Gli Stati si sono opposti e si sono rifiutati di agire per salvare la vita di oltre 100 persone. Hanno supplicato e inviato richieste di soccorso per due giorni prima di annegare nel cimitero del Mediterraneo. È questa l’eredità dell’Europa?”.
Ho letto con sdegno e pena sul quotidiano Avvenire la ricostruzione ora per ora, di come sono andate le cose tra silenzi, omissioni e scaricabarile. Una vicenda che aggiunge l’ennesima ciliegina sulla torta bestiale cucinata con indifferenza, irresponsabilità e incapacità in materia di immigrazione.
L’Europa non è riuscita in tanti anni a varare un piano di salvataggio e accoglienza per gli immigrati, giocando al rimpallo di responsabilità tra i Paesi membri, preferendo foraggiare i “dittatori” al fine di fermare l’emorragia dei disperati ributtati nelle discariche-lager, non riuscendo a programmare nulla di serio sulla base di un atteggiamento umanamente accettabile, socialmente agibile ed economicamente compatibile.
L’Italia, geograficamente assai esposta al fenomeno, per parecchio tempo ha oscillato orrendamente e sadicamente tra le lamentazioni verso l’Unione Europea e le velleitarie disumane volontà di chiudere porti e confini ai disperati del mare. Ad un certo punto è stato fatto un tentativo teoricamente serio di regolare il flusso, coinvolgendo i Paesi di origine e di primo transito, ma tutto si è rivelato inutile ed inadeguato da ogni punto di vista.
Nel frattempo tutti si sono pretestuosamente “distratti”, alle prese con la pandemia ed ai poveracci, che ballano sui barconi della morte, nessuno presta alcuna attenzione. È fin troppo vergognoso doverlo ammettere, ma è così. Abbiamo fatto finta che il problema non esistesse, poi abbiamo cominciato a sgravarci la coscienza affermando lapalissianamente che l’alluvione va fermata a monte salvo essersene altamente fregati per decenni, lasciando questi Paesi nell’isolamento economico-sociale e nel rifiuto politico. Quando l’acqua è arrivata alle porte di casa ci siamo illusi di poter alzare qualche sbrigativa diga protettiva o di ributtarla addosso a qualcun altro. Morale della favola, l’unica arma di gestione del fenomeno è lasciare bollire la pentola, cuocendo a fuoco lento i disperati, e scolmandola con qualche naufragio più o meno inevitabile (?).
Adesso siamo stretti nella morsa biblica tra gli esodi e le pestilenze di massa: il modo peggiore per riequilibrare popolazione e risorse. Se aggiungiamo il fatto di essere impegnati nella masochistica distruzione progressiva delle risorse, la mega-frittata è fatta. Mi chiedo cosa si possa fare individualmente al di là della doverosa denuncia di queste inequità sistemiche e sistematiche. Politicamente parlando faccio fatica ad individuare il meno peggio esistente sul mercato. A livello internazionale non vedo sbocchi di risveglio umanitario. A livello culturale sento e vedo prevalere l’indirizzo egoistico: parlando di immigrati in questo momento si rischia di essere guardati come persone fuori dalla realtà, inutili sognatori in cerca di grane.
Sarà forse per questo che una mia acuta conoscente mi definisce, in senso buono ma con una punta di ironia, come un poeta che declama poesie in un mondo prosaico. Io cerco di contenermi, però sono fatto così, salvo poi parlare bene e razzolare male. Ma quando penso ai naufraghi lasciati sprofondare nel mare non mi sento affatto tranquillo in coscienza.