Non ho mai capito e continuo a non capire l’insistenza pseudo-dottrinale della Chiesa Cattolica sul tema del celibato sacerdotale. La recente storia del parroco e della catechista ad Orvieto hanno riproposto la questione, fortunatamente in termini più sereni e costruttivi rispetto a quanto avveniva un tempo non lontano.
Detto in estrema sintesi sentimentale: un parroco lascia perché innamorato di una catechista, il vescovo spiega: «Rispetto per la libertà di ciascuno, ma l’impegno non può essere sottoposto al dominio del sentimento» (faccio riferimento cronachistico al quotidiano Avvenire anche di seguito).
Bisogna ammettere come sia stato compiuto un bel passo avanti. Infatti per annunciare che don Riccardo Ceccobelli, innamorato di Laura, una catechista della parrocchia, avrebbe chiesto la dispensa al Papa per lasciare lo stato clericale, il vescovo di Orvieto-Todi, Gualtiero Sigismondi, ha voluto essere presente nella chiesa di Massa Martana (provincia di Perugia). E, accanto al suo sacerdote in crisi, ha dato l’annuncio ai parrocchiani. Nessun commento, soprattutto preghiere per accompagnare quella svolta certamente costata mesi di riflessioni e di sofferenze al prete e alla ragazza. Almeno sul piano del metodo si è scelta la franchezza e la sincerità senza scandalismi e senza falsi pudori.
Nel merito però siamo alle solite. Il vescovo ha preferito affidare a un comunicato meglio dettagliato il senso della vicenda. «La Chiesa – si legge nella nota della Curia – chiede ai preti di vivere il celibato con maturità, letizia e dedizione, quale testimonianza del primato del Regno di Dio e, soprattutto, come segno e condizione di una vita pienamente donata: senza misura. Si diventa preti dopo almeno sette anni di discernimento e, attualmente, sempre più in età adulta, quando si ha maggiore coscienza e capacità di fare scelte definitive. Una delle affermazioni che, in questa circostanza, va per la maggiore – prosegue la Curia – è la seguente: “Al cuore non si comanda”. Tale opinione è indice di quanto, in un tempo segnato dal relativismo, la ragione sia sottoposta al dominio del sentimento. Si è parlato di eroismo davanti ad un prete che decide di mollare tutto perché si è innamorato di una ragazza; certamente occorre rispetto per la libertà di chi, pur avendo promesso solennemente di consacrare tutto se stesso a Cristo Gesù per il servizio alla Chiesa, non ce la fa, ma parlare di eroismo risulta davvero fuori luogo. Gli eroi sono quelli che rimangono in trincea anche quando infuria la battaglia, come, ad esempio, i mariti e le mogli o i padri e le madri che non mollano nei momenti di difficoltà, perché si sono presi un impegno e l’amore li inchioda anche nel tempo in cui i sentimenti sembrano vacillare; come i sacerdoti che, senza limiti di disponibilità e con cuore libero e ardente, vivono la fedeltà di una dedizione totale».
Non nego l’importanza della scelta celibataria nella sua valenza di servizio totale e a tempo pieno verso la comunità e non come fuga dalla vita sessuale, vista come una palla al piede o come un ostacolo per la vita cristiana. Non troppo tempo fa, durante una celebrazione eucaristica nella chiesa di Santa Cristina in cui l’allora parroco don Luciano Scaccaglia non aveva timore ad affrontare i temi sessuali apertamente e cristianamente, un simpatico membro dell’assemblea mi si avvicinò e mi sussurrò all’orecchio: “È curioso il mondo: ormai le uniche categorie di persone che desiderano sposarsi sono i preti e gli omosessuali…”. E la Chiesa glielo vuole vietare a tutti i costi. Non capisco perché un prete non possa vivere il suo sacerdozio nel contesto esistenziale in cui sia presente il rapporto matrimoniale: si tratterà di tarare l’impegno fra queste due opzioni, che comunque non vedo assolutamente in contrasto fra di loro.
Cosa c’è di strano e di anti-evangelico se un cristiano decide ex nunc o ex tunc di fare il prete pur contraendo un vincolo matrimoniale? L’impegno non può essere sottoposto al dominio del sentimento? Ma cosa vuol dire? Sono un accanito romantico e quindi ritengo che sia necessario basare la propria vita sui sentimenti: solo in essi e partendo da essi, infatti, tutto trova un senso.
Quanto al sesso voglio ricordare quanto arditamente, ma con tanta simpatica e ironica delicatezza, affermava don Andrea Gallo: «Il sesso è anche un piacere. Fisico, intendo. E non me ne vergogno. Come prete non posso praticare la scelta del sesso, ma immaginarlo almeno un po’ praticato da altri, mi rende l’animo più gaudente e allegro». E perché aprioristicamente un prete non può praticare il sesso? Forse lo potrebbe aiutare ad essere più uomo. Forse gli eviterebbe qualche vomitevole tentazione. Forse potrebbe aiutare gli altri a superare i tabù di cui è lastricato il percorso comportamentale tracciato dalla Chiesa per i suoi fedeli. Forse sarebbe un po’ meno maschilista. Forse sarebbe un po’ meno clericale. Forse troverebbe più equilibrio nella sua vita. Lasciamo che decida lui e non imponiamogli un assurdo giogo preventivo e continuativo.
Sono perfettamente d’accordo a non scomodare il discorso dell’eroismo. Non è un eroe un sacerdote che promette di vivere in castità e non è tale il prete che sceglie di vivere l’esperienza matrimoniale. Tutti i giorni leggo i profili esistenziali dei santi celebrati canonicamente: è la Chiesa che ha accreditato nei secoli l’idea della santità maschile e femminile associata (quasi) necessariamente alla verginità.
E perché poi le scelte dovrebbero sempre e comunque riguardare tutta la vita: si può benissimo partire con le più serie intenzioni per poi accorgersi che la scelta iniziale può essere seriamente (non per capriccio) rimessa in discussione, certo senza creare impatti disastrosi sugli altri. Non ci devono essere riserve mentali, ma nemmeno assolutistiche scelte una tantum, imposte dall’alto o dall’esterno. No si tratta di relativismo, ma di onesto e leale aggiustamento di tiro in corso d’opera (vale per tutte le vocazioni).
Quanto al sentimento ed al suo impatto sull’esistenza, voglio fare riferimento a quanto scrive Ermanno Olmi nella sua stupenda “Lettera alla Chiesa” (Il testamento spirituale di un maestro visionario). Dopo avere provocatoriamente ma meravigliosamente ipotizzato un amore totale, in spirito e carne, fra Gesù e Maria Maddalena, così conclude: “Questa è una storia possibile della donna che ha amato Gesù. Il Figlio di Dio che si è fatto uomo? No: egli è il Figlio dell’uomo come tutti noi, nella sua interezza e fragilità, e non uomo ma anche un po’ dio. Cara Chiesa delle liturgie, tieni Dio sugli altari e lascia libero Gesù. Liberalo dal vincolo della paternità divina e lasciagli la paternità di uomo come lo siamo noi. Un uomo incarnato nella condizione umana, coi suoi vincoli che impone la natura terrena, dalla nascita alla morte. Perché è con questo sentimento che io sento Gesù vicino a me, come un fratello, nati dalla medesima carne, vissuti del medesimo pane. E mi riconosco in Lui. Prima ancora che nelle Sue virtù, nei Suoi cedimenti come lo siamo noi, comuni e smarriti esseri umani. Solo così, cara Chiesa, potrò per sempre misurare la grandezza di Gesù e del suo insegnamento, del suo esempio, del suo sacrificio. Come potrei mai dimenticarmi di Lui?”.