O partigiano portami via

Qual è il sentimento prevalente che suscita in me la festa del 25 aprile, la celebrazione della Resistenza al nazi-fascismo e della liberazione del Paese da questo lungo incubo? Non esito a rispondere: la vergogna! Sono passati tanti anni e abbiamo dissipato un’eredità democratica, dopo aver vissuto di rendita su di essa e senza essere stati capaci di investirla e rinnovarla.

La classe dirigente del Paese trovò nel lascito resistenziale le risorse umane e sociali per iniziare e proseguire il difficile ma entusiasmante cammino democratico. Strada facendo la spinta si è persa, le generazioni formatesi alla luce resistenziale si sono spremute senza trovare la continuità del discorso inaugurato con la Costituzione. Abbiamo sprecato la storia e ce ne dobbiamo vergognare: abbiamo una situazione politica penosamente avvitata su se stessa, senza luci e con troppe ombre; viviamo in un contesto sociale  lacerato, dilaniato da egoismi e cattiverie, che hanno preso il posto del confronto democratico aspro ma agganciato ai valori fondamentali; i partiti politici hanno perso la loro funzione di mediazione, non sono più in grado di “concorrere  con metodo democratico a determinare la politica nazionale” e vanno per la loro strada con l’ansia di garantirsi un impossibile e costruttivo consenso popolare; le forze sociali hanno perso credibilità e rappresentatività; le istituzioni si sono talmente indebolite da creare nei cittadini un senso di qualunquistico abbandono.

Forse sto esagerando, ma esagerava anche chi è morto per conquistarci la libertà e la democrazia. A volte mi chiedo: cosa direbbero se tornassero in vita e vedessero lo scempio che abbiamo fatto dei loro ideali e dei loro sacrifici? Forse avrebbero il coraggio di rimboccarsi le maniche e di ricominciare daccapo. Quello che noi stentiamo a fare preferendo crogiolarci nella delusione e nello scoraggiamento.

Per fare memoria viva del passato mi faccio, come spesso accade, aiutare da mio padre:  era figlio dell’Oltretorrente parmense, ne conosceva tutti gli abitanti, contava moltissimi amici nel quartiere, ne aveva frequentato le osterie (dove si osava parlar male del fascismo e di Mussolini), le barberie (luogo allora di ritrovo e del gossip più antico e leale), aveva cantato e discusso di musica nei covi popolari e verdiani, aveva respirato a pieni polmoni un’aria sana e democratica e quindi non poteva farsi intossicare dal fascismo. A proposito di osterie mi raccontava come esistesse un popolano del quartiere (più provocatore che matto) il quale era solito entrare nei locali pubblici ed urlare una propaganda contro corrente del tipo: “É morto il fascismo! La morte del Duce! Basta con le balle!”. Lo stesso popolano dell’Oltretorrente che aveva improvvisato un comizio ai piedi del monumento a Corridoni (ripiegato all’indietro in quanto colpito a morte in battaglia), interpretando provocatoriamente la postura nel senso che Corridoni non volesse vedere i misfatti del fascismo e di Mussolini, suo vecchio compagno di battaglie socialiste ed intervistate: quel semplice uomo del popolo, oltre che avere un coraggio da leone, conosceva la storia ed usava molto bene l’arte della polemica e della satira.  Ci voleva del fegato ad esprimersi in quel modo, in un mondo dove, mi diceva mio padre, non potevi fidarti di nessuno, perché anche i muri avevano le orecchie.

Cosa direbbe e farebbe oggi quell’eroico popolano: veniva regolarmente arrestato e pestato a sangue, dopo di che riprendeva i suoi comizi di protesta e di denuncia. Forse avrebbe il coraggio di gridare: “È morta la democrazia! Basta con le farse democratiche! Fermiamoci e torniamo indietro!”. D’altra parte il mio carissimo amico Valter Torelli, ex partigiano, di fronte al declino democratico reagiva di brutto con un secco e inesorabile invito ai politici: “Chi vàgon a ca tùtti!”. Lo diceva anche e soprattutto rivolto agli esponenti di quei partiti che dovevano essere i testimoni e gli interpreti dell’antifascismo.

Urge un esame di coscienza molto profondo alla luce della storia della Resistenza: fare un lungo passo indietro per prendere la rincorsa. Qualcuno osa osservare che in fin dei conti non è tutto oro quel che luccica e che quindi si può relegare nel dimenticatoio un periodo fatto anche di odi e vendette. Resistenza (nel cuore e nel cervello) e Costituzione (alla mano), impongono una scelta di campo imprescindibile e indiscutibile: sull’antifascismo non si può scherzare anche se qualcuno tra revisionismo, autocritiche, pacificazione, colpi di spugna, rischia grosso, finendo col promuovere il discorso di chi vuole voltare pagina, non capendo che coi vuoti di memoria occorre stare molto e poi molto attenti e che (come direbbe mio padre) “in do s’ ghé ste a s’ ghe pól tornär “.

Se dovesse prevalere un omertoso e delinquenziale revisionismo del passato a copertura del nulla del presente, non mi resterebbe che cantare a squarciagola:

“O partigiano portami via,
Bel partigiano portami via
Che mi sento di morir”