La patologia dell’ipertatticismo piddino

Nel bel mezzo dei più aspri conflitti a volte viene adottata una tattica, peraltro vecchia come il cucco, ma che spesso funziona: mentre tutti spingono per sfondare la porta, la si apre improvvisamente e le spallate dei rivoltosi finiscono in una rovinosa caduta con tutto quel che ne segue. Potrebbe assomigliare a quanto sta succedendo con le improvvise dimissioni annunciate da Nicola Zingaretti, segretario del PD, nel quale si è aperto un contrasto piuttosto aspro ma altrettanto opaco sull’identità e la leadership del partito.

Parto da una nozione schematica proveniente da un corso di organizzazione aziendale, frequentato durante il mio ormai lontano percorso universitario. Qual è la differenza fra strategia e tattica? La strategia consiste negli scopi, generalmente di medio e lungo periodo, che si vogliono perseguire e per il cui raggiungimento occorre anche mettere in campo tattiche di più breve respiro comunque finalizzate all’obbiettivo di fondo. In parole povere dove ci sta il più ci sta anche il meno e quindi è la strategia che dà un senso alla tattica, diversamente, se la tattica è fine a se stessa, lascia il tempo che trova.

Temo che il partito democratico consista in un susseguirsi di tattiche senza alcuna strategia: detto in politichese, è un partito alla ricerca disperata di una identità perduta, senza un’autorevole guida e quindi avvitato su scelte di mera sopravvivenza assai poco lungimiranti.

Tattica l’alleanza con il M5S per la formazione del governo Conte 2, tattica la sopportazione dell’ondivago alleato col quale si aveva in comune proprio e solo la mancanza di strategia e di leadership, tattica la difesa ad oltranza della premiership contiana con la messa in campo di paradossali mezzucci parlamentari durati l’espace d’un matin, tattica l’adesione assai poco convinta all’operazione Mattarella-Draghi, tattico il rilancio a tutti i costi ed in extremis di un patto politico con i grillini (magari con una battuta di sacrificio a favore di Giuseppe Conte pronto a tornare in pista).

Il governo Draghi ha messo in crisi tutte le tattiche partitiche (o meglio ne ha accelerato e proclamato la caduta), soprattutto però quelle delle formazioni politiche collocabili in una non meglio definita area di sinistra.  È comprensibile che la sinistra, per le scorie ideologiche che fatica a scrollarsi di dosso, soffra più di altri di fronte alla prospettiva di equilibri di governo basati principalmente sulla concretezza e sulla competenza.   Quindi tutti alla spasmodica ricerca di un immediato riciclaggio col rischio, oltre tutto, di buttare il bambino assieme all’acqua sporca.

Il partito democratico appare prigioniero dei propri tatticismi, i contrasti interni si sfogano in fastidiose schermaglie correntizie ed in stucchevoli contrapposizioni personali. Il vero problema di questo partito è quello di non essere riuscito a fondere nella realtà ciò che esisteva nella storia: il patrimonio valoriale comunista con l’ispirazione ideale del cattolicesimo democratico. Si è fatta partire un’avventura politica che, strada facendo, ha mutuato gli aspetti negativi delle esperienze storiche di riferimento, vale a dire da una parte il tatticismo (di piazza e di governo) egemonico-burocratico dei comunisti, dall’altra parte la diaspora perpetua dei cattolici oscillanti fra sinistra e centro, tra potere e contropotere, ma soprattutto fra spinta propulsiva e moderazione. La vita politica italiana del dopo-Moro è tuttora prigioniera di questi equivoci e vedova di una esperienza (il compromesso storico) soffocata sul nascere. Occorrerebbe un secondo Aldo Moro per riprendere un discorso interrotto 45 anni or sono con tutto quel che è successo nel frattempo.

Manca cioè un minimo di leadership credibile che non sia il pur furbesco rimasuglio dell’esperienza comunista e il pur apprezzabile perbenismo dei cattolici progressisti. Non esiste cioè una strategia, non ci sono i personaggi capaci di elaborarla e portarla avanti, si vive di mera tattica. Gira e rigira anche le dimissioni di Zingaretti rientrano in questo giochino, sia che preludano ad un suo reincarico rafforzato, sia che lascino campo libero alle seconde file. Tra le due possibilità sarei, tutto sommato, pragmaticamente portato a scegliere l’apertura di uno spazio seppure al buio. Forse è meglio brancolare nel buio alla ricerca di una strada relativamente nuova piuttosto che perseverare facendosi guidare dalle luci intermittenti e fasulle del tirare a campare.