C’è un proverbio dialettale parmigiano che recita: “Al primm cavagn al vôl bruzä”. Forse rischiamo invece di bruciare non il primo, ma l’ultimo cesto in cui riporre le residue speranze di un serio futuro per la società italiana. Perché scrivo questo? Perché a mio modestissimo parere in pochi giorni Mario Draghi è purtroppo riuscito a commettere o a dare l’idea di commettere tutti gli errori possibili e immaginabili in materia politica. Forse, considerando la politica stessa una malattia, l’ha voluta provare fino in fondo, per poi magari sentirsene guarito e immunizzato. Pensavamo di evitare le complicanze di una cronica infezione partitocratica, invece da cronica l’infezione è diventata ancor più aggressiva e debilitante. Ma vado con ordine e con la “morte nel cuore”, consapevole di fare un provocatorio processo alle intenzioni, dettato dalla paura che possa fallire sostanzialmente un tentativo molto importante e ammirevole di cavarci le castagne dal fuoco.
Doveva essere un governo al di fuori della mischia: doveva solo presentarsi, con un serio programma e una altrettanto seria compagine ministeriale, davanti alle Camere per ottenerne o meno la fiducia. Il presidente della Repubblica aveva dato due indicazioni: un governo di alto profilo e un pressante invito ai gruppi parlamentari per sostenerlo. Il cerino acceso doveva quindi essere posto nelle mani parlamentari, invece il presidente incaricato si è tuffato nella palude, rischiando di rimanere prigioniero delle sabbie mobili. Si è lasciato trascinare nel tritacarne delle trattative fra i partiti, dove è successo di tutto, tra finti irrigidimenti e opportunistici, quanto repentini e paradossali, cambiamenti di opinione, tra generici paraventi programmatici e conclamati appetiti ministeriali, tra panegirici e dissacrazioni smentite nel giro di pochi minuti: si è detto tutto e il contrario di tutto. Il problema non è saltarne fuori: in un modo o nell’altro Draghi ci riuscirà. Il dramma è come uscire da questo bailamme in cui lo hanno incastrato: comunque ci sarà la spada di Damocle dei partiti, pronti a far saltare il banco alla prima occasione. “Draghi, stai sereno”, sembrano dire tutti i partiti, mentre si riservano di farlo cadere se non righerà diritto. Si dirà: l’Italia è una repubblica parlamentare…D’accordo: una cosa è però fare i conti col dibattito parlamentare, un conto è invischiarsi nella più bieca logica partitocratica. La litigiosità si scaricherà sul governo e, per evitarla, occorrerà striminzire il programma ai pochi punti in comune, commissariare i ministri depotenziando l’azione di governo, sventolare lo spauracchio delle elezioni anticipate, ricattare i partiti minacciandone lo sputtanamento ulteriore, evitare accuratamente la tagliola parlamentare violando la Costituzione ben più di quanto abbia fatto il tanto vituperato Giuseppe Conte.
Sul fronte mediatico, tramite un silenzio più altezzoso e presuntuoso che rispettoso, il presidente incaricato ha lasciato campo ad un teatro letteralmente impazzito. È pur vero che “il più bel tacer non fu mai scritto”, ma non si può accettare di andare a teatro per poi rifugiarsi in un retropalco. O si sta a casa e allora il silenzio ha un senso, oppure se si va allo spettacolo bisogna vederlo, ascoltarlo, criticarlo, fischiarlo e finanche rifiutarlo. Abbiamo assistito ad una kermesse mediatica da cui Mario Draghi non esce affatto bene: dopo tutto, le poche-grandi certezze nutrite sul suo conto escono ridimensionate se non addirittura azzerate.
Sul fronte emergenziale, è stato sprecato parecchio tempo nonostante il ritornello recitato universalmente sulla gravità e urgenza della situazione. Ne è uscita l’immagine non di un agognato decisionista, ma di un abile temporeggiatore. E il fattore tempo non riguarderà solo la costituzione del governo, ma anche la sua azione, inevitabilmente condizionata dalla natura compromissoria del governo stesso: il compromesso in politica è normale, ma deve essere portato ai livelli più alti, mentre invece ci accontentiamo di un pateracchio coordinato e continuativo.
Sul piano istituzionale il governo potrebbe finire col ributtare, seppure involontariamente, le proprie bollenti castagne nelle mani di un Mattarella depotenziato e screditato. Il capolavoro intravisto si sta trasformando in un quadretto di pessima scuola. Oltre tutto, dopo un eventuale sciagurato fallimento dell’operazione, c’è il diluvio e temo che Mattarella abbia terminato il suo armamentario difensivo. Noè è rimasto senza arca.
Per scappare dal labirinto partitocratico, Mattarella costruì delle ali con delle penne e le attaccò al corpo suo e del figlio adottivo Draghi, con la cera della capacità tecnica. Malgrado gli avvertimenti del padre di non volare troppo alto, Draghi si fece prendere dall’ebbrezza del volo e si avvicinò troppo ai partiti: il calore della politica politicante fuse la cera della tecnica, facendolo cadere nel mare dell’inconcludenza, dove morì. Il padre arrivò sano e salvo alla fine del mandato presidenziale e costruì un tempio dedicato a Grillo e Berlusconi, in memoria dell’Italia. All’ingresso una scritta in grande evidenza: “Errare draghianum est”.