L’art. 49 della Costituzione Italiana dice che “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Nel nostro Paese, quindi, lo strumento politico per eccellenza è costituito dai partiti, altre scorciatoie non sono previste e consentite.
Alcuni commentatori affermano drasticamente che il nascente governo Draghi certifica un vero e proprio default del sistema partitico. Sarei cauto per il suddetto motivo risalente al dettato costituzionale, ma anche perché abbiamo vissuto altri momenti in cui la politica ha sofferto gravi crisi di credibilità (si pensi a tangentopoli: sembrava che tutto dovesse crollare all’infuori della Magistratura e della Chiesa).
La politica sta vivendo un periodo di grave carenza a livello di classe dirigente: la fine della cosiddetta prima Repubblica ha segnato il tramonto della classe dirigente sostanzialmente nata dalla Resistenza e formata nonché selezionata dalle due scuole fondamentali, vale a dire la Chiesa cattolica (l’Azione cattolica in particolare) e il partito comunista. Da allora, eravamo all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, non si è riusciti ad effettuare un vero e proprio ricambio: l’avvocato Gianni Agnelli disse che sarebbero occorsi trent’anni per rifare una classe dirigente. I trent’anni sono passati, ma la politica è tuttora orfana di dirigenza all’altezza del compito. Ci sono stati alcuni tentativi miseramente falliti. Mi riferisco ai fenomeni personalistici e leaderistici di berlusconismo, dipietrismo, leghismo, renzismo e grillismo. Non hanno portato a niente di conclusivo e definitivo. La situazione è addirittura progressivamente peggiorata, accentuando il senso di inadeguatezza dei politici di fronte alle reiterate crisi economico-sociali fino ad arrivare all’esplosione dell’emergenza pandemica.
Il nascituro governo ideato da Sergio Mattarella e presieduto da Mario Draghi, si basa sull’ultimo dei giusti della scuola buona della prima Repubblica e sul migliore esponente dell’attuale dirigenza a livello civile. Da una parte, in un certo senso, viviamo dei migliori ricordi, dall’altra andiamo a prestito dalla scuola viva proposta dalla società. Il presidente della Repubblica appare come l’ultimo baluardo istituzionale, l’ex governatore della Bce rappresenta la premessa per il futuro europeista del Paese. Meno male che i due personaggi si sono incontrati e ci stanno aiutando a rimetterci in sesto.
Se non è default partitico, è certamente crisi grave e profonda del sistema politico. E i partiti? Hanno due strade davanti: quella della ricerca o del recupero di una identità valoriale, dell’avvio di un processo di formazione e selezione della loro classe dirigente, dell’elaborazione di risposte compiute ai problemi della società in grave sofferenza; in alternativa c’è la strada del tirare a campare, facendo i pesci in barile, convertendosi strumentalmente al nuovo che avanza, vivacchiando sul niente o rifiutando tutto. Le prime avvisaglie non sono molto confortanti: i partiti hanno nei confronti del governo Draghi un atteggiamento superficiale, difensivo, rinunciatario, attendista. Lo vivono come una sorta di breve pausa alla fine della quale si potrà tornare a fare i propri comodi: guai se tutto finisse con la salita al Quirinale di Draghi, con la ripresa della bassa politica, col ritorno ad occupare gli spazi momentaneamente ricoperti dai migliori esponenti della società civile costretti a rientrare frettolosamente nei ranghi.
Si è visto però qualcosa di peggio, vale a dire strumentali, opportunistiche e sorprendenti “capriole” ideologiche e politiche, un circo del peggior trasformismo buttato in faccia alla gente tanto per sopravvivere e stare al passo coi tempi: chi più (vedi l’europeismo d’accatto della Lega), chi meno (vedi i valzer degli accordi politici fatti dal M5S), chi in chiave dorotea del mantenimento del potere (vedi il PD in ascolto perenne dei richiami provenienti dalla propria disastrata foresta), chi in chiave meramente elettoralistica (vedi l’isolazionismo patriottico dei Fratelli d’Italia). Sono alcuni impietosi esempi di una classe politica appiattita su se stessa in posizione ostruzionisticamente difensiva. Tutti guardano e giudicano le pagliuzze negli occhi degli altri e trascurano le proprie grosse travi.
Al di là dei ministeri ricoperti da tecnici puri e duri, da tecnici di area, da politici di primo piano, da politici più o meno esperti, resta la necessità che la politica faccia un passo indietro, piuttosto deciso e lungo (per il tempo necessario a revisionare la macchina se non a sostituirla), non per uscire dal campo (mancherebbe altro…), ma per prendere la rincorsa verso un rientro riveduto e corretto. Una bella pausa di riflessione, coperta degnamente da chi non fa politica per mestiere, ma è capace di fare il proprio mestiere.