“Apericasino” all’italiana

Sono il primo a ritenere assurda l’arlecchinata regionale anti-covid. C’è tuttavia un però: se la memoria non mi tradisce, questo meccanismo è stato introdotto alcuni mesi or sono con l’assenso, un po’ stiracchiato, ma comunque concesso, da parte delle Regioni, che oggi si strappano le vesti assieme alle associazioni di categoria interessate.

In partenza l’idea di suddividere il territorio nazionale in zone rispondeva all’esigenza di non generalizzare inutilmente i sacrifici, ma di graduarli a seconda delle necessità emergenti dai territori, evitando così di procurare danni a tutti indistintamente e consentendo laddove possibile una vita più vicina alla normalità.

Gli scienziati hanno escogitato alcuni indici significativi atti a misurare il livello di rischio, applicabili territorialmente e periodicamente, rendendo quindi oggettive e inattaccabili le misure restrittive da adottare.

Fin dall’inizio ero piuttosto scettico sulla funzionalità e l’efficacia di questa regionalizzazione a zig zag, ma si diceva che poteva evitare chiusure globali e drastiche troppo incidenti sul tessuto economico-sociale del Paese. In teoria poteva essere una buona idea, in pratica si è rivelata molto discutibile da tutti i punti di vista.

Premetto che non accetto il regionalismo di governo e di lotta, vale a dire quello dei cosiddetti governatori regionali il cui atteggiamento ondivago e poco coerente rischia di aggiungere confusione a quella già esistente: collaborativi al tavolo di confronto con il governo centrale, conflittuale verso il ministero della Salute, quando si ritorna a casa e si deve fare i conti con le proteste delle categorie economiche.

Se il ministero ha peccato e sta peccando di grave incertezza, di eccessiva delega alla scienza e di pericolosa navigazione a vista (sono, al di là di tutto, i difetti del governo Conte alle prese con la pandemia), le regioni ostentano un decisionismo ed un “primadonnismo” di facciata che non porta da nessuna parte.  Ognuno dovrebbe fare il proprio mestiere con grande senso di responsabilità, invece ognuno tira l’acqua al proprio mulino. Se l’arlecchinata non dà buoni risultati e comporta assurde complicazioni applicative, si abbia il coraggio di cambiare linea concordandola seriamente e definitivamente con le Regioni e magari anche con le forze economiche e sociali.

Da tempo mi frulla in testa un ragionamento riguardo al funzionamento delle attività commerciali a contatto diretto col pubblico. Il grido di dolore che sorge dalle categorie economiche non mi lascia infatti indifferente, ma vorrei metterlo alla prova coinvolgendole pienamente nel discorso. Perché non stipulare degli accordi con le associazioni di categoria, che prevedano la scrupolosa osservanza delle regole anti-covid, eventualmente anche meglio precisate e rese ancor più severe. Poi forse si potrebbe anche consentire l’apertura, con il preciso impegno ad effettuare controlli molto pressanti e rigidi e con la previsione di sanzioni pesantissime a carico dei trasgressori.

Ricordo che in concomitanza con l’entrata in vigore degli orari anti-movide serali con tanto di apericena, alcuni bar si precipitarono a organizzare e favorire le movide mattutine con tanto di “aperipranzo”. I pianti successivi dei ristoratori e dei gestori di bar risultavano quanto meno poco credibili. Così facendo rischiamo una sceneggiata totale. Ah, dimenticavo, come al solito gli scienziati sono divisi e divisivi: alcuni ritengono sufficienti le misure adottabili, altri esorcizzano bar e ristoranti, ritenendoli comunque veicoli di quasi sicuro contagio.

In conclusione mi sembra che si stia adottando la tattica inversa a quella di cui sopra, da me modestamente ipotizzata: un esplosivo mix tra il “tira e molla” delle chiusure e aperture e il “vivi e lascia vivere” a favore di chi fa il furbo. Insomma, l’anti-covid all’italiana.