Ambasciator porta pena

La morte dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista Mustapha Milambo, uccisi in Congo in seguito ad un attentato, contiene molti elementi, che inducono a serie e profonde riflessioni al di là del dolore straziante per la perdita di vite umane sacrificate sull’altare del bene comune.

Innanzitutto usciamo da questa vicenda migliori o peggiori a seconda dei punti di osservazione. Ci possiamo sentire umanamente migliori, perché esistono persone che compiono il loro dovere con grande dedizione, senza fare baccano, ma sulla base di valori perseguiti anche a prezzo della propria vita. Un ambasciatore, personaggio che generalmente viene immaginato come un’appendice burocratica dello Stato e come un neutrale passacarte che non porta pena; un carabiniere, persona che collochiamo a metà strada tra il mito dell’ordine pubblico e l’ingenuo servizio della legge; un autista, opaco lavoratore che accompagna e scarrozza gli altri. Ebbene, dietro questi stereotipi, si celano persone in carne ed ossa che rischiano la vita più o meno convintamente, ma comunque esemplarmente.

Ci possiamo però sentire anche peggiori, nel senso che, quando si celebrano le esequie di queste persone, si osa dire che non sono morte invano: è vero solo se ci rendiamo conto che il loro sacrificio mette a nudo la nostra superficiale visione della vita, della società, della convivenza e della storia. Morire nell’ambito di una missione di pace in mezzo a tanti impulsi di guerra è cosa paradossalmente positiva e costruttiva.

L’occidente, quando interviene, anche con le migliori intenzioni, negli stati post-coloniali, si trascina una tragica eredità di violenza e oppressione perpetrata in passato: la storia non è una partita di calcio che termina al novantesimo minuto, ma assomiglia a un lungo campionato con partite di andata e ritorno e al ritorno anche chi stava dimenticando rischia di ricordare. Anche le missioni umanitarie finiscono con l’essere viste comunque come appendice pseudo-riparatrice delle potenze dominatrici di un tempo non del tutto passato: l’integrazione, che tuttavia trova ostacoli politici e socio-economici, non basta a placare sul nascere una memoria foriera di odio in libera uscita. La memoria storica non si può cancellare ed allora con essa bisogna farci i conti. Purtroppo a pagare questo conto sono spesso i missionari di pace.

Mio padre, quando gli capitava di ascoltare qualche notizia riguardante provocazioni fra nazioni, incidenti diplomatici, contrasti internazionali era solito commentare: “S’ag fis  Mussolini, al faris n’a guera subita. Al cominciaris subit a bombardar”. È una tentazione diabolicamente ed istintivamente sempre presente: la ritorsione. È inutile negare che la morte di persone impegnate in favore della pace grida doppiamente vendetta.

Chiedo scusa se, a questo punto ripiego inevitabilmente sul discorso religioso, ricordando le parole evangeliche: “Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano. A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica”. Oso aggiungere che bisogna innanzitutto sforzarsi di capire perché qualcuno ci maltratta, mettendo in conto che, preso dalla rabbia e dall’odio, possa sbagliare obiettivo. E allora le cose si complicano e non resta, a maggior ragione, che porgere l’altra guancia, in modo apparentemente scriteriato, ma sostanzialmente ragionato (?): il ragionamento, che hanno fatto, più o meno consapevolmente, Attanasio, Iacovacci e Milambo.