Quando la liturgia diventa parodia…

Il ridondante cerimoniale quirinalizio, come tutte le liturgie religiose e laiche, ha un senso? Solo se contiene un significato sostanziale al di là della stucchevole spettacolarizzazione formale. Dovrebbe cioè conferire una certa solennità ai gesti, alle formule, ai comportamenti. Durante i giorni della crisi di governo, gli occhi si sono spostati dai palazzi della politica al Quirinale e qui le procedure hanno una scansione rituale che dovrebbe imporre a tutti i protagonisti una particolare serietà di atteggiamenti: non è stato proprio così, perché purtroppo gli incontri delle delegazioni partitico-parlamentari con il presidente della Repubblica si sono trasformati in una passerella assai poco dignitosa ed attraente.

Tutti hanno timbrato il cartellino emergenziale bagnandolo con le lacrime del doveroso dispiacere, poi hanno fatto i loro “comizietti o comizioni”, che, stando alle indiscrezioni ed ai retroscena, spesso non avevano riscontro con le dichiarazioni rese al capo dello Stato. Si parte cioè subito col piede sbagliato, pagando un tributo formale alla situazione drammatica del Paese per fare un po’ di propaganda elettorale e scadere nel più bieco dei tatticismi. L’andirivieni nei sontuosi corridoi sembrava una recita messa in scena con attori più o meno bravi, ma comunque inadeguati alla parte.

Alla fine del primo atto è uscito il Presidente, che fortunatamente ha riportato il discorso alla realtà, evitando il rischio che la liturgia diventasse parodia, assumendo un tono decisamente preoccupato al limite del contrariato e lasciando intendere la volontà di non svolgere un ruolo di asettico regista, ma di protagonista ligio alle proprie prerogative istituzionali. Mi è parso di sentire un richiamo forte al clima difficile in campo sanitario, economico e sociale, una sorta di recepimento del grido di aiuto che sale dalla società civile, abbinato alla richiesta di una presa di reale responsabilità da parte dei partiti e dei loro esponenti, con, in filigrana, il lancio di un silenzioso ultimatum oltre il quale si può intravedere un intervento presidenziale atto a sbloccare la situazione di vergognoso stallo venutasi a creare.

Con poche calibrate, equilibrate e mirate parole Sergio Mattarella ha riportato il rito alla sostanza: una sorta di campanella che segna la fine della ricreazione. Fuor di metafora il presidente, secondo me, ha voluto avvertire la politica che, qualora non sia in grado di affrontare seriamente i problemi del Paese, non potrà scaricare le difficoltà sulle spalle dei cittadini-elettori, ma dovrà fare i conti con un’iniziativa governativa pilotata dal presidente stesso.

Non mi permetto di suggerire niente al Capo dello Stato. Chi sono io per farlo! Mi prendo solo la libertà di pensare che, se fossi al suo posto, sarei già passato alle estreme conseguenze varando un governo formato da persone capaci e inviandolo alle Camere, dopo averne spiegato il senso ai cittadini. Sarei curioso di vedere chi avrebbe il coraggio di votare contro un simile governo… Forse Mattarella prima di arrivare a tanto, le vuole provare tutte in tempi stretti da arbitro della politica e, se sarà necessario, diventerà protagonista così come la Costituzione gli consente.

Staremo a vedere se dall’albero di Fico cadranno i frutti sperati o se il Presidente sarà costretto a incollare i politici al muro come “pelle di fico”. Nel comportamento di certi personaggi ho notato una vera e propria presa per i fondelli del Presidente, uno scaricare su di lui le tensioni politiche: solo la sua pazienza e la sua saggezza consentono di andare avanti in una situazione sempre più paradossale. Continuo a sperare in lui, capace di garantire il rispetto del Paese finanche a chi non lo meriterebbe.