Il pulpito più spontaneamente praticato da mio padre per le sue simpatiche e colorite prediche era lo stadio. Ho cominciato a frequentare lo stadio (il Tardini in particolare), sotto lo sguardo benevolo ma intransigente di mio padre, all’età di appena cinque anni. Il bello non consisteva tanto nello spettacolo offerto in campo, molto spesso assai scarso per i risultati, quasi sempre insoddisfacenti se non mortificanti del Parma, la squadra del cuore, ma nelle lezioni che ne scaturivano: mio padre saliva in cattedra e sciorinava i suoi commenti che diventavano insegnamenti di vita. Proprio lì dove quasi tutti si lasciano andare a sfoghi smisurati se non indecenti, a comportamenti scorretti se non violenti, ad atteggiamenti trasgressivi se non provocatori, mio padre riusciva a tifare sdrammatizzando il tifo, a criticare rispettando chi gioca, chi arbitra e chi allena, a gioire senza irridere l’avversario, a soffrire senza esagerare. Non è poco e non è facile. Ma soprattutto il comportamento a livello di tifo calcistico diventava metafora del comportamento nella vita, le espressioni erano occasione per passare dal pallone al cervello e finanche al cuore.
Raramente la lezione veniva dai protagonisti sul campo o sugli spalti. Solo una volta ho assistito al caso in cui il messaggio positivo veniva dai tifosi. Durante una partita di serie A tra Parma e Sampdoria, la tensione in campo stava assumendo dimensioni pericolose, l’arbitro stentava a controllare la gara, i giocatori tra falli e reazioni stavano veramente esagerando. C’era di che preoccuparsi, ma entrarono in campo (si fa per dire) le due tifoserie che dalle curve contrapposte si scambiarono cori di incitamento e di simpatia reciproci (i sampdoriani gridavano: Parma! Parma e i parmensi rispondevano: Sampdoria! Sampdoria!). Tutto il pubblico capì ed applaudì intensamente. I giocatori furono contagiati da tanto fair play e la partita si incanalò sui binari dell’assoluta correttezza. Confesso di essere rimasto colpito ed emozionato dall’episodio.
Ebbene in questi giorni l’eccezione si è ripetuta e la lezione è venuta dai giocatori. La partita di Champions league tra il Paris Saint Germain e il Basaksehir Istanbul è stata sospesa per una frase razzista del quarto uomo all’indirizzo di un giocatore o di un vice-allenatore (non ho capito bene, ma poco importa): le due squadre hanno lasciato il campo in segno di protesta. Era ora che l’etica entrasse di diritto nello sport. La gravità è aumentata per il fatto che l’epiteto razzista non è partito dagli spalti, peraltro vuoti causa Covid, ma da uno degli arbitri (ce ne sono ormai tanti che ne ho perso il conto): chi dovrebbe garantire la correttezza dell’evento sportivo, lo ha sporcato in modo vergognoso. Si sono invertiti i ruoli e i calciatori, auto-espellendosi in toto, hanno in realtà espulso il “quarto uomo”.
C’è poco da fare e da dire: il razzismo è annidato ovunque e viene a galla in vari e imprevedibili modi. Se trova la sua principale espressione nei confronti delle persone di colore, purtroppo non si esaurisce lì. Sono tante le forme di razzismo, di intolleranza, di discriminazione: riguardano l’etnia, la religione, la condizione sociale, il sesso, etc. etc. È molto importante che la reazione a tutto ciò avvenga da parte di personaggi in grado di enfatizzare e pubblicizzare la protesta. Speriamo che l’episodio, tale da fare invidia a Edmondo De Amicis, non venga strumentalizzato e rovinato dalla speculazione politica. Al gesto dei calciatori non c’è da aggiungere niente, parla da sé, è di un’eloquenza straordinaria. Complimenti!
Mio padre sarebbe oltre modo soddisfatto. Lui riusciva a portare rispetto all’arbitro ed anche ai suoi colleghi segnalinee: all’epoca non esisteva ancora il quarto uomo, invenzione recente, di cui non ho ancora capito bene lo scopo se non quello di ammortizzare su quattro teste (anziché tre) gli immancabili improperi del pubblico. Quando frequentavo lo stadio assieme a mio padre anche gli arbitri erano un po’ meno divi, erano dilettanti più o meno allo sbaraglio, sbagliavano forse più di quelli di oggi, ma erano sicuramente più in buona fede. Ebbene, mio padre dell’arbitro non parlava mai, lo ignorava, lo riteneva un protagonista necessario ma ininfluente, un elemento esterno da prendere per quello che è (come la pioggia per i contadini, a volte come la grandine). Capiva perfettamente quando l’arbitro sbagliava, ma riteneva inutile, oltre che sconveniente, urlare contro di lui: è come abbaiare alla luna. C’era in questo atteggiamento un qualcosa di aristocratico: può fare quel che vuole e meno male che è così, altrimenti sarebbe una bolgia. Era solito dire: “S’al spéta ch’a sbraja mi, al spéta un pés, l’arbitro. Al pól fisciär anca dez rigór…”. Di fronte ad un arbitro razzista il discorso sarebbe cambiato e avrebbe escamato: “Bizòggna ésor stuppid bombén, a ne s’ pól miga där dil cozi compagni.”