Mia sorella andava profondamente in crisi di fronte alle immagini dei bimbi denutriti o morenti: si commuoveva, pronunciava parole dolcissime di compassione e spesso si allontanava dal video non reggendo al rammarico dell’impotenza di fronte a tanta innocente sofferenza. Sì, perché il cuore viene prima della mente, la sofferenza altrui deve essere interiorizzata prima di essere affrontata sul piano della concreta solidarietà e della risposta politica.
Probabilmente è quel tratto di percorso che non stiamo facendo di fronte alla tragica pandemia che ci colpisce. Saltiamo un passaggio, quello appunto della pietà, per andare immediatamente al discorso politico, spesso dimenticandoci anche della fase solidale che dovrebbe coinvolgerci. L’ho capito l’altra sera, rivivendo l’imbarazzato e tormentato atteggiamento di mia sorella, guardando le immagini ed ascoltando le parole dei parenti delle persone ricoverate in ospedale in quanto affette da Covid, ammucchiate in reparti collassati, costrette a stendersi su barelle appoggiate in terra o a rimanere in ambulanza per ore in attesa di un (im)possibile ricovero, soli come cani, rifiutati dal sistema sanitario incapace di farsene carico. Non ho retto, ho cambiato canale, ho provato un senso paralizzante di impotenza.
Ho accantonato le forbite e contraddittorie analisi degli scienziati, ho dimenticato le carenti, per non dire insufficienti, disposizioni approntate dai governanti, ho criminalizzato i negazionisti che giocano a fare i furbi sulla pelle degli altri, ho solo sfiorato tutto gli errori commessi dalla nostra società del finto benessere, ho imprecato contro la irresponsabilità di quanti faticano persino a rispettare le minime regole per una convivenza adeguata al momento drammatico che stiamo vivendo.
Mio padre di ritorno dalla toccante visita al sacrario di Redipuglia si illudeva di convertire tutti al pacifismo, portando in quel luogo soprattutto quanti osavano scherzare con nuovi impulsi bellicosi o bellicisti, come dir di voglia. «A chi gh’à vója ‘d fär dil guéri, bizògnariss portärol a Redipuglia: agh va via la vója sùbbit…». Pensava che ne sarebbero usciti purificati per sempre. Così come di fronte alla umana cattiveria auspicava, per le persone fuorviate e condizionate dall’egoismo più incallito, un giretto tra le corsie degli ospedali: si illudeva che sarebbero scesi definitivamente a più miti consigli. Sante e ammirevoli illusioni.
Non mi illudo, ma se pensassimo un poco al dramma di chi soffre e magari muore in solitudine a causa del coronavirus, di chi non riesce nemmeno ad essere assistito, di chi non può nemmeno vedere un suo congiunto isolato e inchiodato ad un letto di terapia più o meno intensiva, qualcosa potrebbe cambiare e migliorare: ognuno, col suo piccolo o grande bagaglio di responsabilità, potrebbe fare di più, senza scaricare indirettamente tutto sulle spalle di chi si trova in prima linea a fronteggiare l’emergenza. Non mettiamoci a posto la coscienza con la retorica dell’eroismo dei tanti operatori sanitari, con la critica spietata ai governanti che brancolano nel buio, con la graduatoria delle colpe altrui, con il qualunquismo della sfiducia nei pubblici poteri, con la speranza del miracolistico vaccino.
Almeno proviamoci anche perché non abbiamo altro modo per cercare di uscire dal tunnel. Più postazioni di terapia intensiva, ma anche e soprattutto più cuore nel petto di tutti. Tempo fa mi raccontarono un triste episodio, che sembrava uscito dalla parabola evangelica del ricco epulone. Un povero diavolo, che non riusciva a pagare un debito verso una persona molto ricca, chiese timidamente un po’ di comprensione al suo intransigente creditore: «Cal s’mètta ‘na man in-t-al côr…». La risposta fulminante fu: «E lu cal s’la mètta in-t-al portafoj…». Mettiamoci tutti una mano al cuore e poi potremo anche pensare al portafoglio anti-pandemia italiano ed europeo. A ben pensarci, tra l’altro, le due cose sono anche molto collegate.