Un obiettore sui generis per (non) celebrare il quattro novembre

Il quattro novembre finisce purtroppo per essere la stucchevole festa delle Forze Armate e l’anacronistico sfogo delle residue nostalgie militaresche. Ritengo opportuno fare riferimento in materia all’esperienza culturale e concreta di mio padre: a lui cedo volentieri la scena.

Aveva fatto il servizio militare con spirito molto utilitaristico ed un po’ goliardico (per mangiare perché a casa sua si faceva fatica), cercando di evitare il più possibile tutto ciò che aveva a che fare con le armi (esercitazioni, guardie, tiri etc…) a costo di scegliere la “carriera” da attendente, valorizzando i rapporti umani con i commilitoni e con i superiori, mettendo a frutto le sue doti di comicità e simpatia, rispettando e pretendendo rispetto aldilà del signorsì   o del signornò. Aveva vissuto quel periodo come una parentesi nella sua vita e come tale l’aveva accettato,   seppure con una certa fatica.

Nonostante fosse un antimilitarista, partire per il servizio militare nel lontano maggio del 1924, il giorno successivo a quello dei funerali di Padre Lino, non fu un dramma, considerata la miseria in cui si viveva e i disordini sociali in cui si era immersi. Sotto le armi fece una scelta dettata dal desiderio di evitare assurde esercitazioni ed inutili sacrifici: diventò attendente di un ufficiale piemontese piuttosto scorbutico, ma, tutto sommato, accettabile.

Raccontava parecchi buffi episodi. Questo tenente si lamentava spesso perché mio padre non gli faceva bene il letto e durante la notte si trovava con i piedi scoperti. «A ca mèjja al lét a m’al fa mè mädra…» così si discolpava provocatoriamente questo strano attendente.

Il tenente si vendicava: spesso si faceva portare una borraccia d’acqua, ne beveva un goccio e il resto lo scaricava in faccia a mio padre con le risate dei soldati presenti alla scena, ai quali magari diceva: «Guardate che faccia da stupido ha il mio attendente…». E loro giù a ridere. Mio padre diceva fra sé: «A pasarà ánca chi méz chì…».

Le cose peggiorarono quando il tenente si sposò e a mio padre vennero richiesti certi servigi da vera e propria donna di servizio: era in chiara difficoltà psicologica, soprattutto nei rapporti con questa moglie autoritaria. «Va bén soportär al tenént, mo ànca so mojéra, no…» così spiegava le situazioni incontrate. Fu richiamato all’ordine a più alto livello, spiegò apertamente il motivo delle difficoltà subentrate e trovò comprensione assieme all’invito a non sgarrare. Il tenente gli aveva affibbiato il soprannome di “rospo” e mio padre dovette mandar giù parecchi rospi.

Raccontava della vicenda del pane che al reggimento arrivava fresco di giornata ma, chissà perché, ai soldati veniva somministrato raffermo. Mio padre osservò questa faccenda e fece una cosa molto semplice: azzerò il quantitativo in dispensa andandolo a vendere, in modo che il vivandiere fu costretto a distribuire il pane fresco. Qualcuno vide e riferì al colonnello, davanti al quale mio padre fu chiamato a rapporto. Conosceva il temperamento di questo superiore e si presentò pertanto con molta franchezza e sincerità, spiegando per filo e per segno tutto l’accaduto. Il colonnello, dopo averlo squadrato da capo a piedi, non lo punì, anzi gli diede apertamente ragione.

Venne Natale e, avendo usufruito di una licenza poco tempo prima, rischiava di doverlo passare in caserma. Natale a casa, un chiodo fisso nella mentalità di mio padre. Non si rassegnava all’idea, si mise a rapporto dal colonnello, entrò si mise sull’attenti e con voce franca e senza tentennamenti espose il suo caso spiegando anche le caratteristiche della sua famiglia. La richiesta fu accolta a condizione che non pregiudicasse i diritti degli altri militari. Riuscì a passare Natale in famiglia: arrivò la sera della Vigilia quando i suoi si erano appena seduti a tavola. Grande festa!

Il suo servizio militare si può riassumere così: della disciplina accettava le regole igieniche e comunitarie; non poteva sopportare le umiliazioni e le angherie: «An m’interesäva miga se ne s’ podäva miga andär fora ‘d sìra, mo al lavàg’ dal sarvel no, il stupidàgini no, i schèrs stùppid gnanca».

Se la cavò anche se continuò per tutta la sua vita ad essere estraneo alla mentalità militare: ne rifiutava la rigida disciplina, era allergico a tutte le divise, non sopportava le sfilate, le parate etc., era visceralmente contrario ai conflitti armati.

Di ritorno dalla toccante visita al sacrario di Redipuglia si illudeva di convertire tutti al pacifismo, portando in quel luogo soprattutto quanti osavano scherzare con nuovi impulsi bellicisti. «A chi gh’à vója ‘d fär dil guéri, bizògnariss portärol a Redipuglia: agh va via la vója sùbbit…». Pensava che ne sarebbero usciti purificati per sempre.

Ogni volta che sentiva notizie sullo scoppio di qualche focolaio di guerra reagiva auspicando una obiezione di coscienza totalizzante: «Mo s’ pól där ch’a gh’sia ancòrra quälchidón ch’a pärla äd fär dil guèri?».

E con questo interrogativo molto più profondo di quanto possa sembrare avrei terminato la mia irriverente e originale celebrazione della festa del quattro novembre.