Sociologia tra ovvietà e mistificazione

Come ho più volte confessato, nutro poca stima nei confronti di tre categorie di esperti, studiosi (no scienziati): psicologi, sociologi ed economisti. Spero di non offendere o irritare nessuno perché di paradossi si tratta. Gli psicologi hanno sempre ragione in quanto, per il dritto o per il rovescio, in un modo o nell’altro, in un senso o nel suo contrario, trovano sempre una spiegazione, piuttosto campata in aria, e nessuno è in grado di confutarla. I sociologi, come detto più autorevolmente da altri, si dedicano abilmente alla elaborazione sistematica dell’ovvio, fanno cioè una fotografia, più o meno nitida, della situazione. Gli economisti elaborano teorie che si rivelano sempre e sistematicamente sbagliate: in parole povere non ci pigliano mai.

Lasciamo perdere l’economia al cui studio mi sono dedicato ed al cui servizio ho lavorato: ciò non mi esime dal riconoscere i limiti di una disciplina assai precaria ed improbabile. Non voglio infierire sugli psicologi, comodamente assisi negli studi televisivi a spiegare come Gesù Cristo sia morto per il freddo nei piedi.   Punto dritto sui sociologi anche perché, nonostante la fragilità scientifica, sono sempre stato affascinato dallo stretto collegamento che questa disciplina dovrebbe avere con la realtà, evitando fughe culturali fra le nuvole del pensiero teorico: basti dire che sono andato ad una spanna dal frequentare la facoltà universitaria di sociologia a Trento, negli anni sessanta. Forse ne sarei uscito brigatista rosso: a volte basta poco per cambiare radicalmente la vita di un individuo.

Questa lunga e sconclusionata premessa mi porta ad una questione: mi sembra che la sociologia, nei confronti della realtà, stia abbandonando l’intento meramente descrittivo per approdare alla mistificazione. Se la realtà è ovvia, vediamo di renderla più interessante ed appetibile falsificandola, adulterandola,cambiandola, distorcendola.

In questi giorni ho ascoltato, con un certo stupore, un autorevole sociologo, Luca Ricolfi, dividere la realtà sociale italiana in tre fasce: i protetti (gli imboscati), i soggetti a rischio economico (quelli che si battono sul mercato), gli esclusi (gli sfigati). Ognuna di questa categorie avrebbe peraltro il suo protettore politico di riferimento: per i protetti ci sarebbe la sinistra; chi si fa su le maniche si affiderebbe alla destra; chi è fuori gioco sbatterebbe la testa contro i grillini. Quanto a queste elaborazioni, probabilmente estratte dal suo ultimo libro, che mi guarderò bene dal leggere, non siamo nell’ordine di una paradossale semplificazione socio-politica, siamo alle prese con un inganno bello e buono (in buona fede, si intende).

Innanzitutto le tre categorie suddette, se mai esistessero, si intersecano e si scambiano continuamente: un lavoratore dipendente da un momento all’altro può perdere il posto di lavoro e ricade automaticamente nel campo degli esclusi; ad un pensionato di piccolo calibro basta poco per finire sul lastrico; un piccolo imprenditore confina spesso, al limite del suicidio, con i poveri diavoli; il povero diavolo vive di frequente alle spalle dei suoi familiari cosiddetti protetti e sindacalizzati. Potremmo continuare a far saltare i birilli di un giochino innocuo.

Che poi le categorie politiche combacino con questi bacini elettorali fa sinceramente sorridere: ci sono professionisti affermati che votano Beppe Grillo per puro sfizio, esistono dipendenti pubblici che corporativamente si rivolgono alle destre populiste, ci sono poveri diavoli che continuano imperterriti a votare a sinistra. Potremmo continuare a buttare all’aria queste equazioni dove le incognite sono troppe e mutevoli.

La morale della favola sulla sociologia, che vuole insegnare ai politici il da farsi, lascio che la tiri mio padre: «I pàron coi che all’ostaria con un pcon ad gess in sima la tavla i metton a post tutt; po set ve a vedor a ca’ sova i n’en gnan bon ed far un o con un bicer…».