Non mi stupisce affatto che nelle battaglie politiche, soprattutto quelle relativi ai diritti civili, venga adottato lo strumento di pressione dello sciopero della fame: dovrebbe essere l’estremo tentativo non violento per ottenere attenzione da parte dei pubblici poteri. Lasciamo stare il fatto che a questa iniziativa pacifica sia stato fatto eccessivo ricorso: i radicali, maestri in queste forme di lotta, hanno talvolta esagerato, ma sempre meglio esagerare nella protesta non violenta che (s)cadere nelle iniziative violente o nel silenzio qualunquistico.
Niente da ridire quindi che il digiuno sia entrato nell’acceso dibattito sulla concessione del diritto di cittadinanza per nascita in Italia da genitori di origine straniera, ma radicati nel nostro Paese, e per assimilazione oggettivamente comprovata della nostra cultura.
Ciò che stupisce è che lo sciopero della fame venga adottato anche da membri del Parlamento per ottenere che questo argomento venga posto in discussione e votato. Viene cioè in un certo senso capovolto il discorso: non è più solo la società civile che chiede al potere politico, ma è il potere politico che chiede a se stesso. Qualcosa non và.
È vero che nelle aule parlamentari si è visto e si vede di tutto: si mangiava a si beveva per festeggiare la caduta del governo Prodi e quindi non c’è assolutamente nulla di scandaloso se qualcuno non mangia per richiamare il parlamento ai propri compiti. La preoccupazione però si sposta a monte. Un Parlamento che non riesce ad affrontare temi riguardanti i diritti fondamentali dei cittadini , meglio dire nel caso specifico un Parlamento che non riesce a decidere chi sono i cittadini italiani, suscita non poche perplessità. In teoria potrebbe essere un motivo di scioglimento anticipato delle Camere da parte del Presidente della Repubblica: non sarebbero in grado di svolgere il loro ruolo costituzionale, imprigionate nei veti reciproci e nelle strumentalizzazioni partitiche. Anche i Presidenti dei due rami del Parlamento non ci fanno una gran bella figura.
Non si può pretendere che questa legge venga approvata, si può però pretendere che venga discussa e votata: ognuno si prenderà le proprie responsabilità, senza nascondersi dietro motivazioni risibili o addirittura (quasi) razziste. Il vero sciopero è quello in atto da tempo con il tentativo ostruzionistico di giubilare un discorso imprescindibile di civiltà. Quindi si rischia di non capire chi fa sciopero: forse più che di sciopero si dovrebbe parlare di “crumiraggio della fame”.
È inutile e scorretto legare questo provvedimento di legge alla tenuta del governo e della maggioranza che lo sostiene: tutto è politica, ma in questo caso c’è ben più della politica.
Per cominciare quindi bisognerebbe garantire che il governo possa continuare la sua azione a prescindere dall’esito dell’esame parlamentare sul cosiddetto ius soli.
Mi sembra che questa vicenda oltre la cecità riguardante il merito dimostri la inadeguatezza di metodo e soprattutto una grave carenza a livello istituzionale. I tatticismi non dovrebbero prevalere sulla sostanza di tale questione. Chi non condivide l’allargamento del diritto di cittadinanza esca dall’equivoco della inopportunità legata al momento storico e/o la smetta di fare confusione tra diritto di cittadinanza e incoraggiamento all’immigrazione. Chi condivide questo provvedimento non lo agiti come una clava polemica verso il governo e il Pd, ma lo appoggi convintamente senza farlo rientrare nella gara per verificare chi è più o meno di sinistra.
Attenzione quindi. Se lo sciopero della fame potesse servire a sgombrare il campo dagli equivoci, sarebbe il benvenuto; se invece serve solo a fare propaganda e finisce col dare alla controparte pretesti per irridere alla battaglia politica o, ancor peggio, per “svaccare” indirettamente il problema, meglio lasciar perdere.