Grasso che cola

La legge elettorale è decisamente un cimento arduo per la politica italiana: tumulti nelle aule parlamentari, si grida la golpe, un partito lascia la maggioranza e scende in piazza così come un movimento di opposizione, il Presidente emerito della Repubblica prende le distanze, il Presidente del Senato si dimette dal gruppo parlamentare di appartenenza, si intravede una lunga coda di polemiche con eventuali ricorsi alla Corte Costituzionale.

Tutto ciò nonostante la legge sia stata approvata con larga maggioranza, sotto la spinta insistente anche se discreta del Quirinale e dopo un lungo e travagliato dibattito sfociato in un accordo che ha coinvolto importanti forze di opposizione.

Qualsiasi meccanismo elettorale è criticabile, la legge perfetta non esiste, era certamente meglio approvarla in un momento politico più tranquillo (quando?), era preferibile, come indica la Ue, parlarne a notevole distanza temporale rispetto alle scadenze elettorali (si sarebbe dovuto rinunciare alla legge per andare al voto con un sistema di regole raffazzonato e irrazionale), era più corretto consentire un dibattito parlamentare di largo respiro (ma la politica ha sempre tempi stretti). La situazione confusa e contraddittoria venutasi a creare sul piano legislativo imponeva comunque di arrivare ad una conclusione.

Credo che la riforma elettorale funzioni da sfogatoio per tutte le frustrazioni istituzionali e politiche (di maggioranza e di opposizione). Se devo essere sincero, penso che a nessuno di coloro che si strappano le vesti interessi più di tanto la rappresentatività, la governabilità, la funzionalità dei meccanismi elettorali: ognuno pensa alla strenua difesa del proprio consenso, cerca di trovare la migliore collocazione possibile in vista dell’imminente consultazione e sonda il terreno per mettere le mani avanti rispetto ad eventuali flop.

Tutto rientra, più o meno, nel gioco politico che rischia di turbare il gioco democratico. Mi metto nei panni dell’elettore medio: un simile casino non lo invoglierà certamente a votare, tutti faranno a gara per confondergli le idee portandolo ben oltre la già inevitabile incertezza dovuta ai meccanismi farraginosi.

La cosa che non mi aspettavo riguarda invece la presa ufficiale di distanza dal gruppo parlamentare Pd operata dal Presidente del Senato Pietro Grasso per dissensi di metodo e di merito sulla legge elettorale: era cioè contrario all’uso dei voti di fiducia per sveltire la manovra e non condivideva i contenuti fondamentali della legge stessa (così almeno si dice).

Non mi permetto di giudicare le idee del Presidente del Senato: è libero di cambiare gruppo, anche se ormai in Parlamento si cambia partito con la stessa facilità con cui si cambia la camicia; come esponente politico è libero di dissentire dalle linee adottate dal suo gruppo di riferimento; come magistrato si sarà fatto un concetto critico del dettato normativo ritenendolo magari incostituzionale e/o in contrasto con i principi di una democrazia parlamentare; avrà visto comportamenti politicamente censurabili da parte del governo e considererà la legge troppo calata dall’alto dei partiti senza lo spazio necessario per il dibattito parlamentare.

Mi permetto però di osservare come Pietro Grasso sia stato eletto alla seconda carica dello Stato per iniziativa di un gruppo politico da cui adesso egli prende nettamente le distanze. Non sarebbe il caso di dimettersi anche da Presidente del Senato, visto il venir meno del rapporto di fiducia con chi lo ha eletto? Sul piano istituzionale le dimissioni non sono dovute, ma dal punto di vista politico… Anche perché non vorrei che questa sua scelta finisse involontariamente per portare acqua al mulino dei dissidenti interni ed esterni al Pd e magari trovarmi Pietro Grasso candidato alle prossime elezioni in qualche lista di partito, candidatura preparata dall’alto scranno di Palazzo Madama ottenuto cinque anni prima grazie all’iniziativa essenziale di un altro partito. In parole povere, senza voler mancare di rispetto, non vorrei che Grasso si fosse ingrassato con i voti del Pd per poi mettersi a tavola con qualcun altro contrario al Pd.