Se il Pil cala è un disastro; se inverte la tendenza, è solo un’illusione ottica; se aumenta appena un po’, non basta; se decolla, resta sempre al di sotto della media europea; se cresce più del previsto, non si traduce comunque in nuovo lavoro. Non è questione solo di faziosità politica, di gufaggine antigovernativa, di propaganda elettorale. Il problema è che non ci rendiamo conto come la ripresa economica non potrà avvenire senza una profonda reimpostazione della produzione: stanno cambiando i bisogni e la relativa domanda di beni e servizi; deve cambiare l’offerta e le relative modalità produttive.
Finora il consumismo aveva messo al centro del nostro (finto) benessere i beni: col tempo “la bestia” ha cominciato ad essere sazia, abbiamo continuato a darle da mangiare ed ha cominciato a vomitare. L’economia non è riuscita più a produrre e quindi si è rifugiata nelle chiacchiere della finanza: è come in una famiglia, quando non si sa come fare a sbarcare il lunario, si cercano di cambiare gli equilibri interni, ma le difficoltà anziché diminuire si accentuano.
O riusciamo a mettere al centro “l’uomo” o pestiamo l’acqua nel mortaio. La natura, la cultura, l’arte, l’ambiente, la salute sono i bisogni a cui fare riferimento. Vale per tutti e vale ancor più per il nostro Paese. La qualità della vita sarà il business del futuro. Questa inversione di tendenza consentirà oltre tutto di mettere al centro della produzione il fattore umano e quindi il lavoro. Nei settori suddetti il protagonista è l’uomo e non può essere sostituito dai robot. Nelle biblioteche, nelle pinacoteche, negli ospedali, nelle case di riposo, nelle scuole, nelle università, nelle aziende turistiche, nella difesa ambientale, nella salvaguardia della natura la persona umana è al centro, come fruitore e come operatore.
Saranno necessarie profonde e sofferte conversione produttive, dovrà aumentare la mobilità intersettoriale e a livello territoriale, il posto fisso sarà una chimera, la scala di valori verrà scombinata, i rapporti tra pubblico e privato dovranno essere ripensati e ricalibrati, la politica dovrà guardare avanti ben oltre le elezioni, il sindacalismo dovrà affrrancarsi dagli interessi categoriali, salteranno molti schemi culturali, cambieranno gli equilibri tra i Paesi e all’interno dei Paesi, salteranno molte sicurezze ma si apriranno molte prospettive nuove.
A ben pensarci qualcosa in tal senso si sta già muovendo. Siamo però tutti bloccati sulle mentalità pensionistica: chi ha maturato il suo vitalizio lo vuole difendere a tutti i costi pena il fallimento della propria vita lavorativa; chi rischia di non arrivare alla pensione soffre una vera a propria crisi di identità prospettica; chi non ha il lavoro dispera di riuscire a trovarlo; chi lo ha perso smette di cercarlo: una disperazione globale che sfocia nell’egoismo individuale e nazionale, un precariato esistenziale che mette in discussione la politica nei suoi valori democratici.
Sarà un percorso lungo e faticoso in cui tutti, più o meno, dovranno ritagliarsi un nuovo spazio di vita. Sarà dura e il Pil conterà sempre meno: rischierà di diventare la frenetica misurazione della febbre per un malato grave o addirittura terminale.