Sono nettamente e convintamente contrario alla pena di morte, per motivi umanitari, etici, costituzionali, sociali e politici. Sono addirittura favorevole all’abolizione dell’ergastolo, che giudico una sorta di ipocrita surrogato della pena capitale, così come interpreto la pena carceraria in senso rieducativo e non in senso afflittivo.
Tutto ciò doverosamente premesso, ammetto che di fronte al fenomeno degli incendi boschivi scatenati dalla furia dell’uomo ho pensato, paradossalmente e istintivamente, alla pena capitale per i colpevoli di questi atti dolosamente vandalici e distruttivi (mandanti ed esecutori). Sì, perché in fin dei conti si tratta di una vera e propria guerra, che queste persone, per ignobili motivi, fanno contro la società e l’ambiente. La società ha il diritto/dovere di difendersi da queste follie, anche con le maniere forti: è peggio dello sciacallaggio post-cataclismi, si tratta di una volontà distruttiva perversa (credo poco al piromane puro, se non usato da chi ha ben altre manie).
Mio padre, uomo mite e pacifico, era piuttosto intransigente contro la criminalità e non era pregiudizialmente contrario alla pena di morte, ritenendo potesse avere un effetto dissuasivo e frenante. Mi permetto di rivalutarne il discorso almeno con un occhio rivolto al fenomeno “mafioso” della distruzione del patrimonio ambientale.
Detto questo, fatto questo sfogo, bisogna ragionare e capire che, al di là dei comportamenti criminosi, esistono responsabilità, incuria, ritardi, distrazioni, insensibilità, egoismi, che stanno alla basa dei danni incendiari. Se non capiamo che la difesa e la cura dell’ambiente dovrebbero essere il primo obiettivo socio-economico da perseguire, continueremo a mettere pezze ad un abito sempre più malconcio e inutilizzabile. Aria, acqua, coltivazioni, allevamenti, vegetazione, bellezze naturali sono il paradiso terrestre, che non esitiamo a rovinare scegliendo “la mela” del guadagno, del vantaggio immediato, del tornaconto, del profitto.
Quando, ad esempio, ci si pone il problema se sia prioritario salvare i posti di lavoro di un’azienda inquinante rispetto alla chiusura o alla ristrutturazione della stessa, si opera una tremenda mistificazione: è come accontentarsi di avere un posto assicurato al cimitero piuttosto che preoccuparsi di vivere a lungo e nel miglior modo possibile.
Forse dobbiamo imparare, con umiltà, a ripartire dalla terra in cui viviamo e da cui traiamo i beni per vivere. Uso spesso questa similitudine: siamo in una stanza chiusa, dove si fa sempre più fatica a respirare e noi ci illudiamo di risolvere il problema facendo uscire qualcuno da quella stanza o respirando meno a fondo. Mi è venuta in mente questa metafora quando, di fronte all’emergenza siccità, si è disposta l’interruzione dei prelevamenti di acqua dal lago di Bracciano e si è cominciato a prevedere il razionamento nell’uso dell’acqua.
Chi governa, a tutti i livelli, ha il dovere di invertire la tendenza, partendo, costi quel che costi, dal governo del territorio; chi è governato ha il dovere di ripulire la propria coscienza, rispettando l’ambiente in cui vive; tutti abbiamo il dovere di aprire quella finestra della stanza chiusa di cui spora, altrimenti moriremo asfissiati dopo una patetica gara alla sopravvivenza impossibile.