Fate come dico e non come faccio

In questi giorni, si capirà dopo il perché, mi sovviene un’esperienza fatta durante la mia vita professionale. Andai a rappresentare le cooperative parmensi (quelle sociali in particolare) aderenti all’associazione in cui prestavo il mio servizio. Dove? In Prefettura! A Parma si intende. Era stata convocata una riunione dei rappresentanti delle forze economiche e sociali in occasione dell’emergenza creatasi in Italia, ed anche a Parma, per la fuga in massa degli Albanesi dal loro Stato in piena bagarre post-comunista. Eravamo alla fine degli anni ottanta, se non erro. Era un afoso pomeriggio estivo: arrivai senza giacca e cravatta e con un po’ di ritardo (fatto strano ed eccezionale per la mia quasi maniacale puntualità) alla riunione che si teneva in un’ampia sala della prefettura, ricca di stucchi ed affreschi. L’incontro si svolgeva attorno ad un grande e lungo tavolo. Non era in funzione l’impianto microfonico e quindi non si capiva nulla. Il collega a cui era seduto vicino, ad un certo punto mi chiese perché tutti parlassero a così bassa voce. Me la cavai con una stupida battuta: «Probabilmente, bisbigliai, non si può parlare ad alta voce per il pericolo che gli stucchi possano deteriorarsi in conseguenza delle onde sonore?!». Chi riuscì a sentirmi mi guardò scandalizzato: ero arrivato in ritardo, senza giacca e cravatta ed ora osavo fare lo spiritoso in Prefettura? Il dibattito si trascinò stancamente e francamente non ricordo granché dei contenuti: se gli Albanesi arrivati a Parma si fossero aspettati qualcosa di concreto da quell’incontro… Ad un certo punto il Prefetto (non ricordo il nome) fece un attacco nei confronti delle associazioni di volontariato e del privato-sociale in genere, sostenendo che, a suo giudizio, l’impegno non era all’altezza della situazione emergenziale. Non seppi tacere, non sopportai un simile “becco di ferro”. Non ricordo le testuali parole, ma dissi sostanzialmente: «Da uno Stato incapace di affrontare le difficoltà, non sono accettabili critiche a coloro che si stanno comunque impegnando. C’era solo da dire grazie e tacere…». Non ebbi molte solidarietà. Mettersi contro il Prefetto non è tatticamente il massimo dell’opportunismo, ma …

Ebbene, a mio giudizio, sta succedendo così nei rapporti tra l’Europa, gli Stati membri e le Ong impegnate nel soccorso in mare ai disperati in fuga. Può darsi ci sia qualche comportamento ai limiti della legalità nei rapporti con gli scafisti, può darsi che certe regole non vengano perfettamente rispettate, può darsi persino che non ci sia perfetta trasparenza nei fondi utilizzati. Di qui a mettere i bastoni fra le ruote a chi si fa il mazzo per salvare migliaia di persone che rischiano di affogare, ci passa una bella differenza. Oltre tutto la predica viene da un pulpito menefreghista e/o assenteista. Mentre folle di disgraziati ci tendono la mano, noi non troviamo di meglio che cavillare sui protocolli da siglare e sulle regole da osservare. È come se dentro una piscina un bagnante stesse affogando e i bagnini si mettessero a discutere fra di loro se tuffarsi, se gettargli una ciambella di salvataggio, a litigare su chi dovesse intervenire, etc.

Ho grande stima per Minniti, ministro degli Interni italiano attivo e capace, ma, per cortesia, non mi scivoli sulla buccia di banana della burocrazia trasferita in   mare aperto. Ogni vita salvata val bene una regola trasgredita o un comportamento disinvolto da parte delle Ong. Pensiamo un attimo se non ci fossero queste organizzazioni: quanta gente in più sarebbe affogata in mare, quanta sporca coscienza in più avremmo. Sì, ma la coscienza non è nei protocolli e negli accordi. Già, me ne stavo scordando…