Dignità a prova di mafia

Non si possono buttare i pronunciamenti della Corte di Cassazione in pasto all’antimafia, alla politica, ai parenti delle vittime, agli esperti del fenomeno mafioso, ai giornalisti. Viviamo o no in uno Stato di diritto? Ci sono o no delle regole, delle leggi da rispettare e applicare? Siamo o no tutti uguali di fronte alla legge?

La sentenza di Cassazione a cui mi riferisco è quella che ha rinviato al tribunale di sorveglianza, per difetto di motivazione,   il diniego del differimento della pena o degli arresti domiciliari per gravi motivi di salute nei confronti di Salvatore Riina detenuto a Parma in regime di 41 bis. Ne ho sentite e lette di tutti i colori. Al termine credo di avere capito che la Suprema Corte abbia fatto un ragionamento giuridico e si sia chiesta: lo stato di detenzione comporta per Riina una sofferenza ed un’afflizione di tale intensità da andare oltre la legittime esecuzione di una pena? Per poi aggiungere: il diritto ad una morte dignitosa non può essere negato a nessuno, anche al più bestiale dei criminali!

Il tribunale di sorveglianza dovrà tornare su questa materia e sinceramente non invidio i giudici che dovranno decidere al riguardo. Dovranno partire dallo stato di malattia del carcerato: è tale da essere incompatibile con la detenzione, peraltro in un regime particolarmente duro? La malattia è tale da scongiurare ogni e qualsiasi possibilità di reiterare delitti o comportamenti mafiosi?

Ricordiamo la scena dei Promessi Sposi, quando Fra Cristoforo conduce Renzo a vedere don Rodrigo che sta morendo di peste, spegnendone le velleità vendicative contro l’uomo che lo aveva direttamente o indirettamente perseguitato. Prendiamone il significato laico. Non si tratta infatti (solo) di perdono cristiano, nel caso di Riina si tratta del suo paradossale, ma reale, diritto a morire dignitosamente, a chiudere i suoi giorni terreni in una dimora adeguata al suo stato di salute. Gli altri argomenti sono comprensibili ma devianti: il male che lui ha fatto non deve rilevare; i precedenti trattamenti riservati ad altri detenuti, vuoi di manica larga o stretta, non devono fare testo; il pensiero delle vittime, in questo caso, non ci deve condizionare. La giustizia non è vendetta, non è gogna, non è annientamento della persona colpevole, è equa applicazione della legge. Punto e stop.

C’è un uomo e c’è un giudice che deve decidere se sia nelle condizioni di rimanere in carcere o no, nel rispetto dei diritti costituzionali garantiti a tutte le persone. Lasciamo che il giudice faccia con coscienza il proprio mestiere, non abbiamo alcun diritto di parlargli nella mano. Lasciamo che un ergastolano sconti la sua pena fin dove è possibile scontarla e, persino se lo giudichiamo irrecuperabile, lo dobbiamo considerare un soggetto titolare di certi diritti imprescindibili.

Don Luigi Ciotti ha lanciato un appello: «C’è un diritto del singolo, che va salvaguardato. Ma anche una più ampia logica di giustizia che non possiamo dimenticare». Mi permetto di non essere d’accordo. A mio giudizio vale solo la prima parte del suo discorso. La logica di giustizia non può essere in contrasto con il diritto del singolo. Guai se fosse così, non vivremmo in uno Stato di diritto.

La presidente della commissione antimafia Rosi Bindi dice: «Riina in carcere è curato. Non è necessario trasferirlo. Bisogna scongiurare il rischio di trasformare la sua casa in un santuario». Rosi Bindi non è giudice di Cassazione e soprattutto non può misconoscere un diritto in base ad un fantomatico pericolo sociale. Lo dicevo all’inizio e lo ripeto: lasciamo in pace i giudici, facciamo silenzio. Preferisco un giudice che sbaglia facendosi guidare dalla legge e dalla propria coscienza ad un giudice che si piega alla ragion di Stato.