Un futuro di lavoro…diverso

Il diritto al lavoro è stato il canovaccio fondamentale delle battaglie e delle conquiste sociali. La storia va ripercorsa e celebrata, purché non diventi un compiaciuto freno di conservazione, ma una provocatoria spinta a nuovi e impegnativi passi avanti. È quindi demagogico e fuorviante cogliere l’occasione temporale del 1° maggio per imbastire discorsi sulla difesa astratta dello Statuto dei lavoratori con tanto di demoscopici sondaggi a supporto. Non stupisce affatto che il 70% degli italiani sia per il ripristino dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, vale a dire per ricuperare la massima difesa del posto di lavoro, stupisce che i politici e i commentatori non abbiano l’umiltà e l’obiettività di affrontare il discorso inserendolo nel contesto generale dei problemi occupazionali.

Sono necessarie al riguardo alcune riflessioni. Innanzitutto l’approccio fondamentale è quello dell’attenzione a chi il lavoro non ce l’ha, soprattutto i giovani: è l’assoluta priorità nell’analisi e nella ricerca delle soluzioni. Non è stato e non è sempre così, perché è certamente più facile difendere, magari a prescindere, chi è già occupato. Poi viene chi sta perdendo il posto di lavoro, non per sua inettitudine o indisciplina, ma per effetto di crisi settoriali o aziendali. E ancora la sicurezza sul lavoro: sono troppi e colpevoli le morti, gli infortuni, i danni irreparabili alla salute.

È importante anche sfatare l’idea che gli immigrati rubino il lavoro ai nostri connazionali. A parte il fatto che dovrebbero avere il diritto all’accoglienza con tutto quel che ne consegue, non è vero che esista una concorrenzialità, perché gli immigrati sono disposti a svolgere lavori che gli italiani scansano e senza di loro non riusciremmo a coprire certi fabbisogni essenziali. Oltretutto spesso vengono sfruttati, sottopagati e maltrattati. Con le tasse e i contributi che pagano coprono ampiamente i costi diretti e indiretti dell’accoglienza che offriamo loro. Chi teorizza il contrario è in mala fede e cerca di coprire con motivazioni populiste un vero e proprio razzismo.

L’economia oltre ad essere in crisi, sta cambiando faccia e quindi occorre rassegnarsi ad abbandonare la mentalità del posto fisso e l’oltranzistica pretesa del lavoro psicologicamente ottimale. Stanno cadendo come pere mature tutte le sicurezze di un tempo; l’innovazione tecnologica sconvolge gli assetti occupazionali imponendo formazione permanente, trasferimenti settoriali e geografici, flessibilità nei tempi e modi, trattamenti economici legati alla produttività; le ristrettezze erariali impongono un taglio ed una riqualificazione del pubblico impiego; i nuovi assetti strutturali a livello produttivo richiedono nuovi profili professionali con un occhio di riguardo ai settori all’ambiente, alla cultura , all’arte; la dimensione globale dell’economia richiede una notevole disponibilità al cambio di sede lavorativa.

Sono saltati molti schemi e tali salti ci cambiano la vita. Spesso la mentalità rimane ancorata ad un passato irrimediabilmente perduto. Forse non ci rendiamo conto di quanto ci sta succedendo intorno. Dobbiamo fare un bagno di sano realismo, non per adeguarci supinamente e fatalmente, ma per individuare i nuovi spazi di giustizia e uguaglianza e per combattere con le armi dello sviluppo aperto le tentazioni della chiusa conservazione.