G7 di Taormina: sotto il vestito niente

La complessità e la difficoltà dei problemi mondiali è tale da non lasciare spazio a troppe speranze, tuttavia quando si riuniscono i cosiddetti grandi della terra che, bene o male rappresentano o dovrebbero rappresentare democraticamente gran parte delle popolazioni del pianeta, mi si apre ingenuamente il cuore: non siamo in mano a nessuno, qualcuno, pur con tutti i limiti e i difetti, si fa carico del nostro futuro, soprattutto di quello delle future generazioni.

Il recente G7 di Taormina purtroppo non è stato deludente solo sul piano delle soluzioni concrete alle questioni, terrorismo, clima, immigrazione, scambi commerciali, ma su quello delle visioni e delle prospettive di carattere generale. I protagonisti, chi più chi meno, hanno mostrato tutta la loro inadeguatezza a guardare avanti, a farsi carico dei problemi globali e sono rimasti prigionieri degli interessi delle loro nazioni.

La politica, a livello internazionale, al di là di tutto, soffre di questa miseria culturale e intellettuale dei capi di Stato e di governo (probabilmente specchio della vacuità delle società moderne), che si traduce in una escalation di conflitti senza vie d’uscita, in un rissoso bailamme di contrasti senza capo né coda. Donald Trump pensa ai petrolieri, agli operai, alla gente a cui ha fatto scriteriate e anacronistiche promesse elettorali e non si schioda da esse: è vero che la Germania si è egoisticamente accomodata sul proprio surplus commerciale, ma non se ne esce con un generalizzato liberi tutti di fare i propri comodi; è vero che il peso economico della Nato grava, forse da sempre, sulle spalle degli Usa, ma, anche volendo prescindere da considerazioni etiche, non se ne esce chiedendo drasticamente a tutti di alzare l’impegno militare in una progressione impossibile da sostenere   di fronte alla crisi economica immanente; è vero che la globalizzazione ha creato enormi disuguaglianze, ma non se ne esce tornando al protezionismo e chiudendosi a riccio nella difesa delle proprie traballanti economie; è vero che l’Europa parla bene e razzola male, ma non se ne esce lasciando che tutti si sfoghino a parlar male e a razzolare ancor peggio; è vero che la questione ambientale non deve diventare una camicia di forza, ma non se ne esce proseguendo imperterriti verso il baratro dell’inquinamento e degli squilibri naturali; è vero che l’immigrazione sta diventando un’emergenza ordinaria, ma non se ne esce alzando muri e chiudendo le porte.

La grande responsabilità trumpiana sta proprio nel ributtare il mondo in una visione egoistica e affaristica, infondendo l’illusione che dietro un’articolata, complessa, concordata e graduale soluzione dei problemi ci stiano l’inettitudine degli establishment e gli interessi dei poteri forti. Il ragionamento pericolosissimo è il seguente: se nel mondo dominano certi assetti e certi equilibri, tanto vale buttare tutto in malora, consentendo ad ogni Stato di comportarsi a misura dei propri interessi. Una sorta di tutti contro tutti da cui si spera possa emergere un nuovo ordine mondiale.

L’Europa, divisa e balbettante com’è, non riesce ad opporsi a questa tendenza, a volte sembra quasi che la condivida e quanto meno non è in grado di rinserrare le proprie fila in una linea di ulteriore integrazione politica ed economica. La Gran Bretagna è sul piede di partenza e si preoccupa solo di ritrovare un suo spazio sullo scacchiere mondiale; la Francia ha appena iniziato la terapia Macron ed è lontana dall’assumere una convincente leadership a livello europeo; la Germania non si scolla dal suo rigorismo imperante e non capisce che, come diceva mio padre (traduco in italiano per fare prima), “se non apri i pugni chiusi, non ti caga in mano nemmeno una mosca”; l’Italia, tutto sommato, è la meno peggio, ma ha troppi scheletri nell’armadio per ergersi a guida credibile. Non proseguo la rassegna, perché sarebbe inutile e sconfortante. Il concetto di fondo mi sembra chiaro.

Qualcuno recrimina sulle spese eccessive sostenute nell’organizzazione, peraltro impeccabile, del G7 di Taormina. Mi permetto di osservare come non siano le cene di gala, le pompose scenografie, le passerelle cinematografiche delle mogli (ammetto, nel vuoto politico emergente dal summit, di essermi rifugiato nelle cronache mondane alla disperata ricerca di uno sguardo dolce e femminile sulle miserie del mondo: tutto sommato le mogli si sono comportate assai meglio dei loro mariti) a distrarre i potenti e a disturbare i deboli: sono i contenuti che contano, è la loro carenza   che deve spaventarci. Il resto ci può anche stare a livello di bella immagine che l’Italia può offrire ed ha offerto di sé.