Le certezze e i dubbi del vero ambientalismo

Ammetto di non avere una spiccata sensibilità verso le questioni ambientali. Ad esse ho sempre preferito, probabilmente sbagliando, quelle di carattere socio-economico. Mi sento portato a farmi carico della mancanza di lavoro per tanti soggetti, prima e più che del taglio di 211 alberi di ulivo. So benissimo che si tratta di un approccio manicheo alla realtà: contrapporre o anteporre gli interessi degli uomini a quelli dell’ambiente in cui vivono è certamente sbagliato e fuorviante. Ne stiamo forse facendo uno schema culturale: rischiamo di creare lo scontro tra il “cretinismo” ecologico e il “furbismo” economico.

No Tav (no al Treno ad Alta Velocità – Torino-Lione – per il suo forte impatto ambientale), no Tap (no all’approdo a Melendugno, in Puglia – provincia di Lecce, del gasdotto Trans Adriatic Pipeline che porterà in Europa il gas dell’Azerbaijan): qualsiasi opera infrastrutturale ha un impatto ambientale, si tratta evidentemente di ridurlo al minimo senza privarsi dei vantaggi che tali opere dovrebbero comportare a livello di sviluppo economico, di occupazione, di commerci, di traffici, di progresso.

Trovare il punto di equilibrio non è facile e anziché impegnarsi in questa problematica ricerca ho l’impressione che si tenda a radicalizzare le questioni rifiutando aprioristicamente ogni e qualsiasi ricaduta ambientale e/o enfatizzando pregiudizialmente i vantaggi della realizzazione di imponenti opere.

Ne soffre il dibattito, che resta in superficie e scade a livello di rissa ideologica a prescindere dai reali problemi. Non ho elementi scientifici e culturali sufficienti (colpa della mia ignoranza e della mia pigrizia) per schierarmi a favore o contro la Tav o la Tap: sarei favorevole a condizione che venisse salvaguardato al massimo l’ambiente interessato; sarei contrario a condizione che l’ambiente ne uscisse irrimediabilmente deturpato o danneggiato.

Non mi sento neanche di intromettermi nel secondario dibattito sulle forme di protesta. Nel Salento vengono schierati in prima linea persino i bambini per fermare i camion che trasportano gli ulivi sradicati ed è partito il solito contorno di dotte dissertazioni psicologiche ed educative. Se infatti il rischio di danno ambientale è molto significativo, si possono arrivare a giustificare forme ostruzionistiche di opposizione al di fuori della violenza, ma comunque forti e pesanti. Se al contrario il rischio è blando, diventano insopportabili proteste invasive, contestatrici e ribellistiche. Il problema non è tanto come si protesta, ma contro cosa si protesta. Se la Tap distruggerà l’ambiente è giusto che anche i bambini siano in prima linea a protestare, perché saranno loro i futuri danneggiati. Se, al contrario, il danno ambientale sarà compatibile e rimediabile la protesta dovrà assumere altri connotati, vale a dire puntare su determinate garanzie e controlli.

Le scelte si fanno ancor più drammatiche quando c’è di mezzo l’immediata difesa della salute pubblica a fronte della salvaguardia dei posti di lavoro. A parte che a volte i due interessi si sovrappongono, ma anche se non collimano bisognerebbe comunque dare la precedenza all’imprescindibile interesse generale alla salute rispetto al pur sacrosanto diritto ad avere un posto di lavoro.

Alla luce di questo inquietante dilemma ho letto le dichiarazioni dell’ex ministro del lavoro Enrico Giovannini alle prese col taglio della spesa pubblica con cui coprire la riduzione delle tasse e altri interventi a sostegno della ripresa economica. L’ex ministro propone un esempio: «Un rapporto assai poco notato del ministero dell’Ambiente quantifica in 16 miliardi l’anno i contributi ad attività dannose per l’ambiente. Ridurli consentirebbe di andare nella direzione degli accordi di Parigi e inoltre di diminuire i rischi di multe europee visto che l’Unione è sempre più attenta al proposito. Però ci si scontra con lobby potenti: ogni volta che viene solo ventilato il taglio dei contributi al gasolio, le città vengono invase dai Tir».

Sono sicuro che non sarà solo questione di lobby affaristiche e avide di utili, ma anche di lavoratori che vedranno messo in discussione il loro posto. Cosa fare? Occorre un’analisi dei costi-benefici anche se i costi rischiano di cadere su cittadini diversi rispetto a quelli che si avvantaggerebbero. Quindi bisogna trovare anche meccanismi di compensazione. Governare è molto difficile. È più facile scendere in piazza. Ma bisogna anche scendere in piazza, quando è ora e non solo per fare casino. Trovare quest’ultimo confine dovrebbe essere mestiere dei sindacati e della associazioni imprenditoriali e ambientalistiche.

Ricordo un politico di razza, a cui mi sentivo molto vicino per mentalità e cultura prima che per motivi politici: Mino Martinazzoli, allora segretario del Partito Polare nato sulle ceneri della Democrazia Cristiana. Ad una domanda secca su un problema complesso rispose con ammirevole equilibrio e grande onestà intellettuale, dicendo (riporto a senso): «Sento molti miei colleghi che ostentano certezze a tutto spiano, io rischio di esprimere solo forti dubbi, perché di certezze ne ho ben poche…». Sono sicuro che, dall’alto della sua intelligenza di pensiero, associata all’umiltà di proposta, direbbe così anche su Tav, Tap e per i contributi a certe attività pericolose per l’ambiente. Poi però bisogna scegliere. Non invidio chi deve farlo.