La brutta pace e la bella guerra

Un mio simpatico e schietto parente, tra il serio e il faceto, trovava paradossale e ridicolo un abusato modo di dire, utilizzato a sintetico commento della scomparsa per malattia di una persona, vale a dire ”È morto di un brutto male…”. Si chiedeva infatti: «Sarei curioso di sapere chi è morto di un bel male?». La piccola gag formulata in dialetto ha un carattere ancora più incisivo e dissacrante.

Ebbene, quando cogliamo le manifestazioni più clamorosamente brutali e violente della guerra, ci auto-sorprendiamo ipocritamente ed esclamiamo singolarmente o comunitariamente: «Non è possibile arrivare a tanto!». Sta succedendo in questi giorni in concomitanza con il raid che ha colpito con armi chimiche una cittadina siriana ancora in mano ai ribelli, provocando la morte atroce di 58 persone di cui 11 bambini e danni gravissimi a trecento feriti prevalentemente civili.

La descrizione degli effetti di questo bombardamento è veramente choccante: soffocamenti, convulsioni o contrazioni, giramenti di testa, perdita di coscienza, spaesamento, pressione bassa, pupille ridotte, arrossamento agli occhi, allucinazioni, paralisi. Un vero e proprio sofisticato avvelenamento di massa.

È partito il solito pianto sul latte versato, il disgustoso gioco al rimbalzo delle colpe, la vergognosa corsa al pietismo del giorno dopo, l’insulsa recriminazione sulla mancanza di limiti all’uso delle armi. Della serie: com’è brutta questa guerra! Troppo brutta! E io rispondo rubando la battuta a mio cugino: «Trovatemi una guerra bella o almeno accettabile…».

Lasciamo a certa letteratura del passato la nobiltà e lealtà degli scontri cavallereschi. La guerra è guerra. Non si può essere in guerra solo un po’. Ogni arma è valida pur di vincere ed annientare il nemico. Non scandalizziamoci a valle, semmai impegniamoci a monte. Per me non fa molta differenza che queste armi chimiche le abbia usate il regime di Bashar al Assad o la Russia di Putin o i ribelli siriani o i Turchi o l’Isis o Al Nusra. La guerra è guerra. Quando si è deciso di annientare il Califfato non ci si poteva illudere di portare avanti una guerra chirurgicamente mirata ai soli militanti dell’Isis: gli effetti collaterali si mescolano a quelli principali in un inestricabile ginepraio di morte e distruzione. Figuriamoci in una situazione bellicosa dove amici e nemici si intersecano, dove ognuno ha i suoi nemici che non corrispondono a quelli dell’alleato, dove le coalizioni si mescolano in un putiferio di motivazioni strategiche e tattiche.

E che a soffrirne le conseguenze siano le persone incolpevoli e i soggetti più deboli è altrettanto inevitabile. Se questi ragionamenti vengono giudicati cinici, meglio il cinismo della verità all’ipocrisia della tardiva diplomazia internazionale. I Francesi e gli Inglesi, propensi a colpevolizzare il debordante intervento russo, chiedono una riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Loro, che non hanno mai esitato, anche in tempi recenti, a dichiarare frettolosamente guerre a destra e manca, guerre che si sono rivelate immotivate ed inutili. Federica Mogherini, al cui occhio do atto, come fa Andrea Chenier nei confronti di Maddalena di Coigny, di uno sguardo europeo di umana pietà, scarica la responsabilità sulla folle resistenza del regime siriano di Assad (è certamente solo una delle concause). Ma la più “bella” delle reazioni è quella di Donald Trump: è tutta colpa di Obama e dei suoi tentennamenti, della sua ingenua fiducia nei gruppi ribelli e della sua testardaggine a pretendere l’emarginazione di Assad. Del tipo se guerra doveva essere, tanto valeva farla subito e che la facessimo noi…Ci sapremo regolare per il futuro.

Qualcuno dirà che la guerra all’Isis era sacrosanta, è una guerra difensiva, non si poteva fare diversamente. Se è così, dobbiamo essere pronti a pagarne tutte le conseguenze, senza indulgere a falsi pietismi. Se non si riesce a regolamentare la vita pacifica, immaginiamoci se si potrà mai riuscire a regolamentare la guerra: anche le più banali tregue armate, saltano dopo poche ore in uno scontato e infantile ping-pong di responsabilità.

Personalmente agli inevitabili danni di una guerra, preferisco i possibili danni di una pace: sempre meglio una “ingiusta” e testarda pace di una “giusta” e arrendevole guerra, sempre meglio una inguardabile pace di una brutta guerra. È una delle poche radicalità politiche che mi sono rimaste in testa e nel cuore.