Quando osservavo dall’esterno frotte di ragazze frequentanti la facoltà di psicologia, mi chiedevo: quali prospettive serie di lavoro hanno queste giovani affascinate dall’invadente ruolo di questa disciplina negli assetti della società moderna? È vero che stiamo diventando tutti matti e che dello psicologo avremo sempre più bisogno, ma non al punto da assumerne uno per ogni famiglia o per ogni condominio o per ogni impresa o ente e via dicendo.
Nelle scelte dell’indirizzo scolastico c’è qualcosa che non va. Domina ancora un malcelato senso di rivincita dei genitori, i quali tendono a spingere i propri figli su percorsi più di riscatto sociale che di preparazione professionale. Prevale nei giovani la smania di omologarsi più alla società mediatica che a quella reale, inseguendo profili culturali e figure professionali campati in aria o inflazionati. Prosegue nell’impostazione scolastica lo storico privilegio assegnato all’indirizzo classico: la cultura viene di lì, siamo d’accordo, però fin dalla più tenera età bisogna sapere che cultura non vuol dire solo erudizione, ma anche modo di porsi di fronte alla realtà e quindi coniugare la formazione umanistica con il respiro tecnico-scientifico che prepara e alimenta gran parte degli sbocchi professionali.
«Non abbiamo bisogno solo di computer, ma di braccia. Ci mancano periti industriali, siamo in strutturale difetto di offerta», così afferma l’amministratore delegato di Philip Morris Italia, che ha appena investito mezzo miliardo per costruire una nuova fabbrica a Crespellano in quel di Bologna.
Gli industriali di questa zona prendono dolorosamente atto che dagli istituti tecnici bolognesi escono 280 diplomati l’anno, mentre le aziende del territorio ne cercano almeno 1.500: un dato sconvolgente a fronte del quale bisogna riflettere seriamente, perché se la crisi economica comporta disoccupazione giovanile, forse alla disoccupazione contribuiscono anche scelte sbagliate di altro livello.
Ho letto in questi giorni il parere del preside di un importante istituto tecnico e l’accorato appello della responsabile risorse umane di un importante azienda che sta crescendo, facendo investimenti, cerca personale tecnico e non lo trova.
Emergono alcuni interessanti rilievi critici. Innanzitutto viene stigmatizzata la spinta alla liceizzazione dell’istruzione superiore, l’indebolimento degli istituti professionali e dei programmi degli istituti tecnici, il non puntare sull’istruzione tecnica con più ore di laboratorio, più inglese, più informatica e più matematica. Il discorso dell’alternanza scuola-lavoro può essere di aiuto, ma solo se a monte riacquista piena e crescente dignità la scuola tecnico-professionale.
Conseguentemente non funziona a dovere l’orientamento scolastico e la programmazione si adagia sulle richieste delle famiglie, invece di insistere confortando le scelte e rendendole consapevoli, offrendo percorsi formativi forti a fronte di importanti domande di lavoro. Si rincorre invece un mondo virtuale di cui si rischia di rimanere prigionieri per tutta la vita.
Poi rimane ancora una differenza abissale tra quello che i ragazzi studiano e quello che serve alle aziende, per cui la formazione si trasferisce in azienda con investimenti sui giovani che vengono inseriti.
Non penso si debba programmare il futuro dei propri figli prendendo per oro colato le tabelle occupazionali dell’industria e dei servizi, ma nemmeno aprendo e leggendo il libro dei sogni.
Mi viene spontaneo rispolverare la concretezza ed il buon senso con cui mi orientarono i miei genitori. Ascoltarono con deferenza il consiglio degli insegnanti, ma seppero tenere conto, oltre che delle mie propensioni, anche delle loro limitate disponibilità economiche e della valenza professionale della scelta. A volte un sacrificio ed un ripiegamento possono tarpare le ali, più spesso imprimono concretezza e possibilità di lavoro. La scuola è un fondamentale preludio, ma se l’opera rischia di fermarsi al pur entusiasmante preludio, non si va avanti.