L’Olandese volante e il Grillo sparlante

Se mettiamo insieme, in una ragionata ma fedele combinazione, quanto hanno recentemente dichiarato a la Repubblica due autorevoli personaggi, Marc Lazar, politologo francese, e Geert Mak, intellettuale olandese, arriviamo ad una nitida e inquietante fotografia del movimento pentastellato, che tiene banco nella politica italiana.

Da una parte i Cinquestelle vengono seccamente classificati tra i populisti e assimilati al partito olandese di Wilders e al francese Front National di Marine Le Pen; dall’altra il Pvv, l’ultradestra xenofoba olandese, viene considerato un partito a membro unico, l’indiscusso leader Geert Wilders, il quale, senza una base alle spalle, è vocato all’implosione, vittima di se stesso, della sua autoreferenzialità, della aridità politica del suo messaggio.

Il parallelo fra Wilder e Grillo viene quindi spontaneo. Proviamo a prendere una per una le caratteristiche dell’Olandese volante per applicarle all’Italiano sparlante.

Membro unico: anche il nostro comico prestato alla politica o politico prestato alla comicità (fate vobis) è certamente il dominus carismatico e reale del M5S. Non so se nel frattempo abbia cambiato parere, ma comunque Massimo Cacciari, con la sua solita e simpatica verve tranchant, ha ripetutamente affermato che i cinquestelle sono Grillo e che dietro di lui non c’è niente. Ogni giorno si nota come tutto ruoti attorno a lui: non è solamente l’ispiratore e il leader, ma il padrone indiscusso, che promuove e boccia, rimanda e riammette, taglia e cuce, dice e disdice, sopporta o distrugge, e via discorrendo. L’ultima vicenda genovese, con la messa al bando della candidata a sindaco, una insegnante di geografia uscita sorprendentemente vittoriosa dalla votazione on line fra gli iscritti, e la sua sostituzione con il tenore del teatro Carlo Felice, evidentemente capace di cantare alla perfezione le arie grilline (tra uomini di teatro ci si intende…), non è che la ciliegina su una torta cucinata in progress. Questa volta la cosa è stata clamorosa, al punto da costringere Grillo a fare scopertamente appello al proprio carisma: “Qualcuno non capirà, fidatevi di me”. Brutto segno quando il carisma deve essere apertamente evocato: vuol dire che non è più così automaticamente riconosciuto. Più che del capo-banda dei ragazzini, il quale impone di ricominciare o cambiare il gioco quando prende per lui una brutta piega, dà l’idea del padrone di casa che sfratta l’inquilino perché ascolta musica sgradita a volume troppo alto.

Indiscusso leader: Grillo lo è, anche se con i suoi metodi ha perduto, strada facendo, decine di parlamentari, di consiglieri comunali e regionali, financo qualche europarlamentare. Dove vuoi che vadano? Senza di lui non sono nessuno. Certo. Però, sgretola oggi, sgretola domani…, gli sgretolanti cominciano a collegarsi fra di loro, a fare gruppo e a dare fastidio. Considero molto eloquente la vicenda del comune di Parma. Federico Pizzarotti, il primo sindaco, ma anche il primo dissidente della storia pentastellata, si ripresenta all’elettorato parmense. Una candidatura grillina ortodossa e alternativa non è stata ancora trovata e non so se verrà messa in campo col rischio di subire una sonora sconfitta, che potrebbe assestare un colpo ferale al movimento. Parma inizio e inizio della fine?

Senza base alle spalle: in effetti Grillo non ha alle spalle un movimento di gente convinta e schierata, ma l’armata brancaleone dei protestatari dell’anti-politica. Non ha gruppo dirigente: ogni volta che c’è da fare qualche scelta di candidature casca l’asino. Ha un blog e da questo blog sputa sentenze e suona la carica.

Vocato all’implosione: la progressiva contraddittorietà delle scelte tattiche, l’assenza di strategia, lo splendido isolamento, il tormentone anti-istituzionale, la cavalcata sempre più bolsa della protesta per la protesta, i toni e le parole sempre più volgari e violente, potrebbero effettivamente comportare seri rischi di implosione.

Vittima di se stesso e della sua autoreferenzialità: l’indiscutibile carisma sta scadendo in una sorta di autoritarismo padronale francamente insopportabile anche al più convinto dei sudditi. L’esagerazione è dietro l’angolo. Non sopportare al proprio interno interlocuzione alcuna, smerdare continuamente chi accenna a dire la sua,   fare e godere il vuoto attorno a sé, possono portare all’azzeramento totale dell’entusiasmo all’interno e all’annientamento del feeling esterno.

Succube dell’aridità politica del suo messaggio: al di là di pochi slogan, non emerge alcuna politica credibile; candidarsi alla guida del Paese mostra tutta la velleitaria corda; le squadre di governo ipotizzate fanno più tenerezza   che paura; il contropiede rispetto ai reiterati errori del sistema non potrà durare all’infinito; il gioco del “tanto peggio tanto meglio” prima o poi trova la buccia di banana; la evidente cecità protestataria col tempo guarisce; a stancarsi della DC gli Italiani hanno impiegato oltre quarant’anni, a svegliarsi dal sonno berlusconiano vent’anni, a scrollarsi di dosso la farsa grillina, a mio giudizio, potrebbero impiegare meno tempo.

Le vicende capitoline di Raggi e c., lo scompiglio periferico in vista delle prossime elezioni amministrative, lo schiacciamento sul populismo mondiale ed europeo, il vaneggiamento antieuro, il reiterato legamento dell’asino dove vuole il padrone, stanno mettendo a dura prova la credibilità e la votabilità del M5S.

A proposito di votabilità, Paolo Flores D’Arcais, non certo un difensore d’ufficio dell’establishment, su MicroMega, di cui è direttore, scrive: « Mi ero domandato fino a quando si sarebbe potuto votare ancora M5S: con rammarico, perché altri voti non di regime non se ne vedono. La misura era dunque già colma: l’ukase defenestratorio di Genova costituisce la goccia che fa traboccare il vaso: nemmeno il M5S è più votabile».