L’azzardata sfida al gioco d’azzardo

Da tempo il cosiddetto quotidiano dei vescovi (sarebbe ora che non si lasciasse chiamare in questo modo), Avvenire, conduce una battaglia contro gli strumenti “infernali” del gioco d’azzardo, chiedendo a gran pagina interventi legislativi e amministrativi contro il dilagante fenomeno delle slot machine, reo di veri ed autentici attentati all’equilibrio psicologico ed economico di tante persone e relative famiglie, disastrosamente cadute in questa vera e propria forma di dipendenza.

Giocare a soldi, da che mondo è mondo, è stata una forte tentazione: l’illusione del guadagno facile, l’ebbrezza del rischio, il fascino della sfida alla propria sorte. L’uomo giocatore ha mantenuto questo istinto nel tempo, anche se sono cambiate le occasioni e gli strumenti per soddisfarlo.

È piuttosto ingenuo combattere strenuamente le slot machine, mettendone in discussione la   legittimità o contenendone la diffusione o controllandone la localizzazione o (tar)tassandone i proventi, pensando appunto che, rendendo difficile rintracciare lo strumento, si tolga di mezzo lo scopo. È pur vero che l’occasione fa l’uomo ladro, ma non è altrettanto vero che togliendogli l’occasione l’uomo ritorni miracolisticamente bravo.

C’è chi per rispondere alla crisi del settore degli apparecchi di intrattenimento e gioco, in conseguenza dei divieti, sta già progettando e costruendo macchinette sofisticate, di ultima generazione, studiate per amplificare l’esperienza di gioco, e chi punta sulla formula del divertimento abbinando le macchinette, o macchinone che siano, alla ricreazione comunitaria, all’incontro, alla socialità, al gioco d’azzardo famigliare.

Fatta la legge, fatto l’inganno; ciò che si fa uscire dalla porta rientra ancor più accattivante ed intrigante dalla finestra; la fantasia finalizzata alla trasgressione non manca ed è più forte di qualsiasi divieto imposto dall’alto.

Mio padre, spendendo qualche spicciolo della sua filosofia, sosteneva come per giocare a soldi, non fosse necessario il poker e bastasse la briscola. Un mio carissimo cugino da bambino giocava a soldi con i suoi coetanei, lanciando monetine contro un muretto, rimproverato e letteralmente trascinato via dalla nonna, che lo voleva difendere da queste precoci tentazioni. Divenuto adulto si lasciò andare al poker ed ai casinò e mio padre lo trascinò vigorosamente fuori da questo gorgo in cui stava per precipitare assieme alla sua incolpevole famiglia. Per fortuna e per merito soprattutto della moglie ne uscì definitivamente.

Il proibizionismo legislativo non è mai una soluzione, anzi costituisce il presupposto per rinfocolare i vizi e le peggiori abitudini. Continuo a giocare un attimo coi ricordi paterni. Mio padre, di indole quasi anarchica, tra il serio e il faceto, si lasciava talora tentare da una sorta di simpatica, infantile e provocatoria follia legalitaria. Sulla scorta della sua ironica verve, di fronte al fenomeno di evasione dalle carceri si illudeva (?) di risolvere il problema apponendo un cartello. Era solito borbottare: «Mi ag mettriss un cartél: “chi scappa sarà ucciso” e aggiungeva in tono ultimativo: «An scapä pu nisón».

Non capisco quindi l’insistente crociata di Avvenire contro le slot machine: ne ha fatto uno dei propri biglietti da visita in campo etico. Siamo d’accordo: tentar non nuoce, a meno che non finisca col fomentare anziché scoraggiare.

I divieti possono avere un significato a livello educativo, ed in tal senso possono rappresentare una relativa prevenzione,   un benefico dissuasore. Ma se ci spostiamo in campo politico e sociale, il discorso cambia di molto. Le buone intenzioni diventano cattivi consiglieri, i limiti diventano automaticamente incentivi, le misure contro servono solo a riverniciare la coscienza, non certo a disinfettarla in profondità.