Contro le mafie due “sbirri” di razza

Parma: una tiepida serata di fine settembre 2014 che sembrava spingere i parmigiani a raccogliere penosamente gli avanzi della finta spensieratezza estiva; la quasi totale e vergognosa indifferenza dei media, preoccupati solo di non disturbare il manovratore; un centro storico pieno di rumore e di ansia giovanile volta alla distrazione del sabato sera; la sparuta presenza del clero parmense: non riusciva a darsi il coraggio che non ha (avevo contato ben due sacerdoti, avevo notato l’assenza del vescovo: non c’era che dire, un perfetto inizio di anno pastorale). In questo quasi ostile contesto si presentava nella nostra città don Luigi Ciotti a riprendere, dopo tanto tempo, gli incontri culturali nella chiesa di Santa Cristina: il parroco Luciano Scaccaglia lo accoglieva con l’orgoglio di aver ospitare in passato tanti personaggi dalla cultura scomoda e provocatoria e di offrire alla città e alla comunità cristiana una rara occasione di destarsi dal torpore. Ho avuto in quell’occasione la possibilità di incontrare brevemente don Ciotti: mi salutò, senza conoscermi, come un vecchio amico. Gli espressi tutta la mia ammirazione e la mia solidarietà, ma non potei esimermi dal chiedergli scusa per la sordina con cui Parma lo accoglieva. Mi tranquillizzò dicendomi: «Questo fatto non mi sorprende e non mi preoccupa…». «Lo so, infatti sono io ad essere preoccupato di vivere in questa indifferente città…» gli risposi, ma lui si tuffò nei suoi appunti. Lo vidi stanco e piuttosto provato, probabilmente stava ricaricando le pile. Santa Cristina, nonostante il subdolo boicottaggio, era piena come un uovo: temevo di peggio.

Per scrivere su don Luigi Ciotti e della sua azione contro le mafie ho voluto prendere la rincorsa, partendo da quel settembre ormai lontano per arrivare ai nostri giorni. L’ndrangheta è ancora lì, più bella e più influente che pria. Ma qualcosa si muove, come hanno dimostrato le recenti manifestazioni nella Locride, alla presenza di due “sbirri” di razza: Sergio Mattarella e don Luigi Ciotti.

Non ho conoscenza diretta dell’ambiente calabrese, me ne parlò mia sorella dopo avervi fatto una breve ma significativa immersione in occasione della visita ad una famiglia di amici residenti nella zona calda a livello di ‘ndrangheta. Era rimasta impressionata dalla disinvoltura   con cui sentiva parlare del fenomeno a loro fisicamente così vicino, dalla conoscenza precisa che dimostravano di avere su fatti e persone coinvolte, ma soprattutto dalla fatalistica e quasi ammirata contemplazione del “bene” (sic) che questi “personaggi” facevano alla gente.

Credo che il punto dolente da smantellare sia proprio questa assurda e paradossale capacità di convivenza, in un certo senso positiva, tra le persone comuni e la insinuata e radicata struttura mafiosa. Una sorta di choccante pre-omertà diffusa.

Mia sorella mi raccontava come questi amici, peraltro bravissime persone per nulla coinvolte in faccende ed in rapporti poco puliti, le facessero da “ciceroni” nell’indicarle i santuari della criminalità organizzata e come le avessero tessuto gli elogi per le iniziative “benefiche” portate avanti: posti di lavoro, alloggi, protezioni, difese, etc. etc.

Per i Calabresi, mi riferisco a quarant’anni fa, l’ndrangheta era l’istituzione di riferimento, non subita quale corpo estraneo e opprimente, ma come opportunità da sfruttare.

Da quanto leggo la situazione è cambiata, ma non troppo. Chi combatte apertamente l’ndrangheta è visto come un fastidioso “sbirro” da sbeffeggiare sui muri della città: la mafia è la struttura, l’antimafia la sovrastruttura.

È importante tuttavia che, a livello istituzionale, lo Stato, nella persona credibile del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e la Chiesa, schierata con il suo capo-fila don Luigi Ciotti, fortunatamente ben collegato al papato di Francesco ed in sintonia con i nuovi indirizzi episcopali, si facciano prossimi alle genti calabresi ed ai loro drammi.

È l’unica, paziente e coerente battaglia che riesca a togliere la terra sotto i piedi al potere mafioso. Le perfide reazioni “blasfeme” degli imbrattamenti murali lo stanno a dimostrare. Irridono, ma soffrono. È un buon segno. Don Ciotti è l’interprete autentico di questa coraggiosa e fattiva riscossa esistenziale e culturale. Qualcuno dice che parla poco di Dio, in compenso lo testimonia molto rischiando la propria vita. Che Dio lo benedica!