Qui si fa l’Europa o si muore

Chi diceva che la Brexit avrebbe aperto inesorabilmente la strada al tentativo di disintegrare l’Europa, aveva visto giusto. Si sta profilando un uscita totale, contrattata a suon di ricatti da una Gran Bretagna in retromarcia dalla globalizzazione: di questo assetto punterebbe a salvare, per ora solo a livello di minaccia (un attrattivo paradiso tributario ai confini della Ue), il difetto più grave, il privilegio feudale-fiscale del turbo capitalismo, causa primaria di disuguaglianze e impoverimento del ceto medio. Siamo ben oltre il tatcherismo, si intravede una sorta di guerra fredda non più tra Usa e Russia, ma tra Gran Bretagna (appoggiata da Trump) ed Europa (divisa, litigiosa, zavorrata).Questo approccio duro alla Brexit da una parte sta dando un ulteriore “la” a tutti i movimenti e gli Stati populisticamente euroscettici rafforzandone il consenso e rendendo legittime le loro aspirazioni; dall’altra sta dando a Trump, sul piatto d’argento anglosassone, una occasione e una sponda cavalcabili fino al punto da spingerlo a lavorare per la fine dell’Europa, offrendo a Londra, in quanto secessionista, un rapporto privilegiato a condizioni di favore, auspicando che gli altri Stati europei seguano il virtuoso esempio inglese, rimettendo financo in discussione la Nato e chiedendo di conseguenza ai partner europei di provvedere progressivamente, nella maggior autonomia possibile, all’autodifesa e alla sicurezza. Le due conseguenze suddette (euroscetticismo e asse GB-USA) si sostengono reciprocamente in un inquietante connubio antieuropeo condito dall’antiglobalizzazione, dal populismo, dal nazionalismo e dal protezionismo. Come acutamente sostiene Corrado Augias, “la desinenza in ‘ismo’ indica l’esasperazione di un fenomeno o un’ideologia che portata al suo estremo genera disastri.E l’Europa? Non trova di meglio che litigare al suo interno. Il punto dolente, a cui tutte le schermaglie sono riconducibili, può essere individuato nel trattato del 2012 che imprigiona l’eurozona in una trappola mortifera, costringendo gli Stati membri alla cosiddetta politica dell’austerità, vale a dire una politica restrittivamente volta alle esigenze di quadratura dei bilanci e di riduzione del debito pubblico, che impedisce di investire sul futuro e di imprimere le giuste spinte alla sviluppo dell’economia e dell’occupazione. Il fiscal compact rischia di essere la cura che ammazza l’ammalato, costringendolo a dimagrire, indebolendo il suo organismo e finendo col rendere letale l’intervento sanitario: l’operazione è riuscita, ma l’ammalato è morto.L’Italia è sotto stretta osservazione da parte dei “sanitari europei”, viene pressata affinché rientri nei parametri: questi signori (sappiamo bene a quale area geografica appartengono) continuano imperterriti a chiedere sacrifici a chi non li può fare, pena un progressivo ristagno dell’economia con tutte le conseguenze del caso. Non c’è verso di ragionare: bisogna osservare le regole che vengono prima dell’Europa, degli Stati e dei cittadini. Una mentalità tipicamente tedesca, che, se fosse stata applicata con simile severità alla Germania del dopoguerra, l’avrebbe relegata per secoli nel sottoscala del mondo. Ma sono passati più di settant’anni e chi ha avuto ha avuto…Tutta la vita politica europea gira attorno a questo nodo, senza alcun impegno serio di affrontarlo e scioglierlo. Anche il rinnovo della Presidenza del Parlamento di Strasburgo poteva essere l’occasione per segnare la contrapposizione fra due diverse impostazioni finora nascoste sotto la finta copertura della grande coalizione tra le due principali famiglie europee, i socialisti e i popolari, in nome della resistenza verso l’antieuropeismo, senza capire che l’equivoco accordo, che lascia irrisolto il problema di fondo “austerità-sviluppo”, finisce proprio col fare il gioco del populismo antieuropeista. Si è preferito volare basso con accordicchi spartitori: presidenze, vicepresidenze, commissioni etc. etc. Vizi, che, portati in sede Ue, suonano ancor più beffardamente a squalifica della politica intesa in senso lato.Angela Merkel fa la voce grossa con Trump affermando che”noi europei siamo padroni del nostro destino”, salvo cedere regolarmente il pallino ai suoi connazionali e colleghi di partito più inflessibili in materia di fiscal compact con tutto quel che segue, disposta a sacrificare tatticamente la grande coalizione in Germania ed in Europa (ma forse tutto il mal non vien per nuocere, come diremo fra poco).In Francia non si ha il coraggio di reagire alle imposizioni nord-europee e si preferisce fare un penoso balletto di contorno alla Germania. Anche le prossime elezioni presidenziali si profilano nel senso di una difesa acritica dei meccanismi europei, rischiando un perfetto assist ai populisti della Le Pen.In Italia l’uscita, seppur momentanea (?), di scena di Matteo Renzi – non certo compensata dalla salita alla presidenza del Parlamento dell’italiano e popolare (nel senso di partito) Antonio Tajani, un berlusconiano camuffato, che nel suo sito web personale non cita Forza Italia e non fa alcun cenno al Cavaliere a cui tutto deve – ha significato un passo indietro rispetto alle spinte impresse alla politica italiana in ambito europeo volte ad ottenere flessibilità (in materia di conti), sostegno (in materia di immigrazione) e rispetto (in materia di classe dirigente). Non è un caso che all’indomani della sconfitta renziana al referendum (è stata concessa solo una pausa natalizia) dalla Commissione europea siano arrivati all’Italia degli out-out in materia di deficit con decise richieste di ridimensionamento della politica di bilancio recentemente approvata. Persino sul presunto inquinamento delle auto Fca è scoppiata una vera guerra diplomatica tra Germania (scottata dallo scandalo dieselgate della Ww) e Italia, nella quale si è inserita la Commissione di Bruxelles schierandosi di fatto con i tedeschi. Cosa può fare una superficiale croce su uno strumentale No…E i socialisti europei? Un giorno sembrano capire (Sigmar Gabriel, leader della Spd) che l’intransigenza tedesca sulla linea del rigorismo contabile rischia di avere effetti disgreganti sui Paesi dell’Unione perché favorisce il successo elettorale di quei movimenti che puntano al collasso della costruzione continentale: sembrerebbe farsi cioè strada l’orientamento di accantonare le grandi coalizioni in Germania e in sede Europea, reagendo politicamente all’insopportabile arroganza dei tolemaici dell’austerità. Il giorno successivo, forse dopo aver fatto i conti con una debolezza elettorale notevole, i socialisti si ricredono e ripiombano nella logica del compromesso, cercando magari di spostarlo più a loro favore in termini di poltrone. I democratici italiani, facenti parte della famiglia socialista, hanno giocato un ruolo di spinta, seppure talora in stile “gianburraschesco”, ma ora il Pd ha perso peso e considerazione.Chi ha la forza morale, il coraggio istituzionale e l’equilibrio esperienziale per affrontare il nodo rigore/sviluppo è il Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, il quale riesce a dipanare la matassa ingarbugliata, prospettando candidamente che Bruxelles sia rigorosa a trecentosessanta gradi: «Il rigore non può valere solo per i conti pubblici, ma anche sugli altri parametri che la stessa Unione si è data, a cominciare dalle misure per la ripresa economica, il rilancio dell’occupazione e l’accoglienza dei rifugiati». Ci sono altre infrazioni infatti che a Bruxelles passano sotto silenzio: il surplus commerciale della Germania, il rifiuto dell’ala dura della Ue di farsi carico delle quote di immigrati, il piano Juncker per il rilancio economico che non trova i necessari e reali finanziamenti.A livello mondiale, come scrive Federico Rampini, assistiamo ad un capovolgimento senza precedenti: i cinesi sono liberisti mentre gli occidentali, capeggiati dal pokerista Donald, denunciano la globalizzazione.Allora paradossalmente non rimane che sperare in Trump, ma esattamente in senso opposto alle sue imminenti direttive presidenziali: forse farà (ri)nascere per reazione un po’ di orgoglio europeo.”E non finirà qui” gongolava Donald Trump dalle dune della Scozia dove ha aspettato giocando a golf l’esito del referendum britannico, assaporando l’euro-harakiri britannico come l’auspicio del proprio possibile trionfo in America dopo sei mesi». Ed è stato un facile auto-profeta. Sulle ali del successo continuerà a tendere trappole mortali all’Europa? Sembra proprio di sì.Alle sciocche dichiarazioni trumpiane dell’immediato dopo-Brexit ci fu la “gustosa”reazione di base degli scozzesi, i quali non sopportarono le parole demagogiche e le strumentalizzazioni di Trump. Nel pub di John Muir a Edimburgo, quando Trump è apparso in tv, tutti i clienti si avvicinarono allo schermo. Poi, tutti assieme, cominciarono a urlargli insulti di ogni genere, il cui meno offensivo fu senz’altro pig, porco. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere… Consiglierei a Juncker di riunire la Commissione europea in quel pub di Edimburgo. Chissà che gli scozzesi, interessati ad entrare nella Ue, non sappiano darle una benefica sferzata.