Il grande dittatore

Subito dopo il referendum sulla Brexit si cominciò a parlare di trumpismo: se ne discuteva in teoria, si pensava ad un fenomeno in gestazione, lo si vedeva però in lontananza avvertendone rischi e possibili conseguenze. Adesso ci siamo: la teoria è diventata pratica, il rischio è diventato certezza, le conseguenze cominciano a farsi sentire anche se il “bello” deve ancora venire.Il discorso spaventoso di insediamento, gridato, con egoistica cattiveria, in faccia al mondo, è stato una rozza dichiarazione populista, autoritaria, nazionalista, protezionista, isolazionista, divisiva, aggressiva, al limite dell’incredibile. Se il buon giorno, si vede dal mattino, stiamo freschi. Chi vuole capire cosa significhino i peggiori “ismi” della storia occidentale, se lo legga attentamente (è il Bignami per ripassare le derive del passato). Siamo di fronte ad una America in totale discontinuità con la storia: un salto nel buio che ha dell’incredibile.Trump ha però giurato in mezzo a tante manifestazioni a lui contrarie, in mezzo ai sindaci americani che intendono fargli resistenza, in mezzo alle donne che non lo possono digerire, in mezzo al mondo della cultura che lo detesta, in assenza di 50 deputati democratici. Mi chiedo alla fine chi l’abbia votato: una minoranza, d’accordo, ma pur sempre una enorme quantità di americani gli hanno dato fiducia.Negli Usa, forse da sempre, siamo stati abituati a vedere la politica ridotta a mero palcoscenico, ad un insopportabile susseguirsi di “americanate”, a una passerella di personaggi coinvolti in eventi in cui la fantasmagoria della scena è direttamente proporzionale alla debolezza dei contenuti. Abbiamo tutti imparato la lezione, adottando in lungo e in largo questo schema fuorviante della politica ridotta a spettacolo di bassa lega. Ma in passato, negli Usa, oltre le trombonate narcisistiche delle campagne elettorali, si coglieva, e si poteva percepire e financo gustare, un certo richiamo ai valori democratici e alla politica alta: siamo arrivati al nulla, cercato, dichiarato e (non) percepito. È vero che le promesse e le verità fasulle molto spesso funzionano da allucinogeni per distogliere la gente dai problemi reali, ma il trumpismo, che ha avuto sciagurati prodromi nel recente passato italiano e che trova inquietanti e disponibili interlocutori in tutto il mondo, somministra una terapia che è ben peggio del male: all’oppio di sistema sostituisce l’eroina di regime in una strabiliante escalation di tossicodipendenza culturale.Mi sono fatto una seconda domanda: cosa sta succedendo nel mondo? Gran parte della gente ha rinunciato a combattere per un’idea, perfino per un interesse e corre dietro a chi le propina vecchie ricette buone per tutti i mali, “legge e ordine”, ma quale legge e quale ordine… Penso a Robert Kennedy, a Martin Luther King, al mito kennediano della Nuova Frontiera, alle speranze della mia gioventù. Che sia tutto finito? Non ci posso e non ci voglio credere.Un uomo ha tentato di darsi fuoco davanti al Trump Hotel di Washington, l’albergo a due passi dalla Casa Bianca diventato il centro operativo del lobbysti pro-Trump. Prima di tentare questo gesto, che fortunatamente gli ha procurato solo ferite lievi, ha detto: «Abbiamo eletto un dittatore». Temo abbia detto tutta la verità.Lo scrittore nigeriano Wole Soyinka, africano, premio Nobel per la letteratura nel 1986, riparato negli Usa in quanto condannato a morte dal dittatore Sani Abacha, dopo trent’anni di protettivo esilio, se ne torna in Nigeria dove nel frattempo il dittatore è morto, stracciando i suoi documenti americani, come aveva promesso agli studenti della Oxford University in caso di vittoria di Trump. Ha spiegato così la sua partenza: «Il muro di Trump è già in costruzione: è un muro che si sta facendo spazio nella testa delle persone. Non solo in America, ma in tutto il mondo. Un personalissimo modo di protestare contro la retorica xenofoba di Trump. E anche la presa di posizione di un uomo che già in passato ha vissuto sulla sua pelle la terribile tendenza di una parte di umanità ad attaccare chi viene ritenuto diverso o inferiore a loro. Sono anziano, sono stanco. Queste cose non voglio vederle oltre».Barak Obama, presente all’Inauguration Day, aveva però detto in precedenza: «Voglio leggere, scrivere, smetterla di ascoltare me stesso che parlo, passare tempo prezioso con Michelle e le mie figlie. Ma parlerò, da cittadino, se i nostri valori fondamentali saranno minacciati: convivenza razziale, diritti degli immigrati, libertà di stampa e di espressione, diritti di voto per tutti, minoranze etniche incluse».Ho raccolto queste tre voci perché mi sembrano significative di uno smarrimento di fronte ad un vero e proprio ciclone politico. I brividi mi sono corsi lungo la schiena. In politica è utile fasciarsi la testa prima di cadere. Ora che siamo caduti è inutile fasciarsela. Sarà dura, diceva Nicolò Carosio prima dell’inizio di certe partite della nostra nazionale di calcio. Sì, sarà dura. Accetto il paterno suggerimento che Obama ha rivolto alle sue figlie, preparandole a vivere nell’America di Trump: «La fine del mondo è solo quando il mondo finisce davvero». Grazie a Dio, il tykoon, fatto presidente, questo potere non ce l’ha.