Il referendum delle beffe

Il No al referendum sulla riforma costituzionale aveva motivazioni politiche espresse, ma soprattutto carsiche, il cui collegamento con il merito delle nuove norme rimesse al giudizio dei cittadini era ed è non proprio fondato.In realtà, lo si è respirato durante la campagna elettorale e ancor più a risultato acquisito, si voleva soprattutto e innanzitutto mandare a casa Renzi. Ebbene, dopo un’ora e trenta minuti dall’inizio dello spoglio il premier prendeva atto onestamente e gagliardamente della sconfitta e ne tirava le conseguenze annunciando le sue dimissioni. Lasciamo stare se questa mossa sia stato un po’ avventata e imprudente: poteva almeno riservarsi di concordare modalità e tempi con il Presidente della Repubblica, ma bisogna anche capire la sua condizionante delusione e il suo carattere impulsivo. Reazione immediata e successiva dei politologi? La pretesa che fosse lo sconfitto a proporre soluzioni per il dopo: della serie “adesso però tocca a lui togliere le castagne dal fuoco”, dopo che gli altri ce le avevano buttate a più non posso. La prima assurdità, forse la più importante, dell’immediato dopo referendum. Sì, perché essendo lui anche il segretario del maggior partito italiano (questa la canonica giustificazione dei grilloparlanti), gli spetta comunque l’obbligo di proporre una via d’uscita al labirinto in cui ci siamo infilati. A mio modesto avviso sarebbe compito dei vincitori, di tutti quei signori che brindavano, indicare una strada nuova. È comodo distruggere per poi aspettare un nuovo progetto di costruzione. Fatto sta che Renzi è ancora al centro della scena politica, il pallino, anche dopo la formalizzazione delle dimissioni, è nelle sue mani, alla faccia di chi voleva mandarlo a casa in quattro e quattr’otto.Una seconda paradossale conseguenza, una vera e propria beffa, riguarda la vecchia politica, quella fatta di alchimie, di equilibrismi, di patti sotterranei, di tatticismi etc. Questo vecchiume andava spazzato via in nome dell’antipolitica, uno dei cavalli di battaglia del fronte del No (almeno di una parte non secondaria). Siamo ripiombati al contrario in una fase di incredibile e immemorabile confusione politico-istituzionale in cui ci vuole solo la freddezza e la razionalità di Mattarella per non soccombere. Si sovrappongono le ipotesi più disparate di governi, maggioranze, equilibri provvisori, combinazioni politiche le più strane. Tutto ciò la dice lunga sul velleitarismo semplificatorio a furor di popolo. Sciocchezze!La terza beffa: si voleva dare una sberla ai partiti, metterli in secondo piano, relegarli nel limbo se non all’inferno, ed essi ritornano “più belli, inconcludenti, litigiosi e superbi che pria”.La palma del migliore in assoluto va assegnata al Pd: era quasi scontato che in esso si scatenassero le correnti tenute faticosamente a bada dal leader-segretario. Non è parso vero a capi e capetti di tornare in gioco. Sembra che, come scrive Tommaso Ciriaco, “si aggirino in Transatlantico con l’elenco dei deputati da blindare. Fanno tutti così, perché non è più una guerra tra correnti, piuttosto un risiko tra fazioni”. Non mi scandalizzo, ne ho viste e sentite di peggio. Penso solo a chi ha votato No con la pancia e adesso si trova a fare i conti con la diarrea. Qualche esponente Pd (in vena di scherzare?) sembra che cerchi addirittura di strizzare l’occhio a Berlusconi: dopo tanta ostilità verso Verdini e Alfano si preferirebbe addirittura affogarsi nel mar grande. Il discorso ha coinvolto anche la base del partito scombussolata non poco dal referendum e dalle divisioni interne che lo hanno caratterizzato e condizionato (probabilmente anche nella dimensione dello scarto del Sì). Scrive Giovanna Casadio: «Davanti al Nazareno piovono insulti all’indirizzo dei dirigenti della minoranza del partito. È lo specchio della guerra civile che da domenica notte attraversa tutto il Pd, nelle piazze, in tv, sui social. Circola un volantino con le facce dei leader dem del No – D’Alema, Bersani, Speranza, Gotor, Emiliano – e la scritta: “Espulsione”». Capisco che queste manifestazioni politiche assomiglino al tifo da stadio, ma confesso che, per gli insulsi bastian contrari della cosiddetta sinistra Pd, sotto sotto ci godo, anche perché, come ha ricordato Renzi alla direzione del partito “nel Pd qualcuno ha festeggiato in modo prorompente e non elegantissimo la vittoria del No. Lo stile è come il coraggio di don Abbondio…” (sembra che qualcuno volesse proiettare durante la direzione del partito un video tv, quello in cui D’Alema e Speranza brindano alla sconfitta del premier e loro segretario politico nel corso della nottata referendaria). Dopo il capolavoro cucinato dalla sinistra dem, l’ex segretario Pierluigi Bersani, l’ex capo-gruppo della Camera Roberto Speranza, l’altro ex-segretario Guglielmo Epifani sono entrati in direzione dalla porta carraia, in auto, per evitare le contestazioni. Qualcuno, preso dal panico, ha addirittura chiesto ai vertici del partito una sorta di protezione per poter partecipare ai lavori della direzione senza rischiare insulti e financo percosse. Non sono un violento, ma questa volta confesso che due pattone ben date a questi signorNo non mi dispiacerebbero. Ho vissuto in prima persona la battaglia correntizia all’interno della DC dalle fila della sinistra interna di allora: fare la sinistra nella Democrazia Cristiana era un compito ben più arduo che non farla nel Partito democratico, infatti era una cosa seria, molto diversa dalle esercitazioni retoriche di chi magari viene dal Pci e non ha fatto in tempo ad esercitarsi sulla democrazia interna laddove vigeva un regime di centralismo burocratico.Anche gli altri partiti, magari un po’ più sotto traccia, stanno litigando. Forza Italia parla dieci o dodici lingue con i suoi diversi esponenti (non mi fanno rabbia, mi ispirano compassione e tenerezza, perché si sa che non contano un cazzo e la berranno dalla botte Fininvest o finiranno nelle grinfie di Salvini), mentre Berlusconi (sempre più pitturato nella testa e nel cuore: auguri sinceri, comunque) ne parla già tre o quattro per conto suo e delle sue aziende.Nella Lega sembra che tutto viaggi sulle ali di Salvini, ma Umberto Bossi, per quanto gli riesce, scalpita, Roberto Maroni spesso indossa il doppiopetto e anche la base tradizionale credo non sia tutta entusiasta della deriva nazionalista del segretario.Il nuovo-centro destra (nuovo soprattutto perché in continua evoluzione o involuzione) sta perdendo voti, colpi e pezzi davanti alle difficili prospettive elettorali o governative: tutti preoccupati di accasarsi al meglio senza rischiare di incespicare sulle soglie.I grillini litigano sulla tattica (tra la precipitosa e strumentale conversione all’Italicum e la tramontata opzione per il proporzionale), sulle candidature a premier (forse stanno precorrendo i tempi: porta sfortuna), sui provvedimenti da adottare nei confronti dei falsificatori di firme (c’è che rischia di salvarsi e chi no), sul giudizio verso la sindaca Raggi (chi non la sopporta e chi la supporta), sulla faccia che qualcuno teme di cominciare a perdere (sul web o in piazza). Beppe Grillo, il gran furbacchione se ne sta accorgendo e se ne tiene in disparte. Forse si accontenta degli endorsement populisti d’oltre confine (prima o poi dovrà risponderne, soprattutto su Euro e migranti).La sinistra extra Pd, messa a soqquadro anche dalla provocatoria iniziativa pisapiana di rassemblare l’area progressista in collegamento col Pd renziano, si spacca ancor più di quanto non sia già spaccata (Sel, SI, sindaci irrequieti). Come scrive Michele Serra “in base ai requisiti cari alla sinistra-sinistra più tipica, che sono il settarismo e l’insensatezza, i vari partitelli e clubbini che annaspano alla sinistra del Pd, spartendosi non si capisce bene quale eredità ideologica, se la cavano soprattutto con alzate di spalle e con qualche insolenza”. Loro sono contro Renzi (hanno trovato il nemico), il resto non conta nulla. Mantengono intatta la loro vocazione rigidamente minoritaria. Molti di essi giudicano le proposte riaggreganti e dialoganti di Pisapia fuori dal mondo: in quell’area politica è una gara dura capire chi lo è di più.La beffa dulcis in fundo: ai tortuosi percorsi istituzionali ed alle confuse tattiche di partito rischia di sovrapporsi, come scrive Alberto D’Argenio, “una guerra generazionale che attraversa il Palazzo. Giovani contro vecchi. Anche se questa volta i ruoli si rovesciano e a difendere il privilegio sono i giovani. Che meditano, ne parlano nei classici capannelli nei corridoi di Camera e Senato. E studiano il blitz. Con un solo obiettivo: mettere le mani sulla pensione. Urgenza che potrebbe anche mandare all’aria i piani dei leader che aspirano a chiudere subito con questa legislatura e giocarsi tutto al voto”. Il parlamentare infatti matura il diritto al pensione, da incassare al compimento del 65esimo compleanno, dopo 4 anni, sei mesi e un giorno e per i deputati attuali di primo pelo il giorno fatidico è il 15 settembre 2016. È possibile, azzarda D’Argenio, “che il trasversalissimo partito dei giovani cerchi un escamotage per arrivare alla pensione senza clamori e senza tradire i propri partiti: una delibera di Presidenza di Camera e Senato che cambi le regole (di soppiatto, senza passare dall’aula) e anticipi a quattro gli anni per arrivare alla pensione”. Si tratterebbe di traccheggiare fino al 15 marzo, poi tutti salvi.Sarebbe la ciliegina sulla torta referendaria. Auguri! È la nuova politica del dopo referendum, stupido! Ammetto che davanti a questi scenari le dissertazioni accademiche dei professori (Stefano Rodotà) su quanto conti la voce dei cittadini dopo il referendum assumono un carattere patetico, quasi commovente. Qualcuno sostiene che i professori dovrebbero restare in cattedra e non immischiarsi con la politica: auspicio forte, ingeneroso, ma …Non incespichiamo sulla Scala…L’inaugurazione della stagione lirica alla Scala di Milano ha avuto il solito contorno esterno di proteste sociali a fare da contraltare al lusso ed alla mondanità del contorno interno. In un certo senso due facce della stessa anacronistica medaglia.Quando capiremo che l’importanza di un evento culturale non dipende dalla cornice vip, che per andare a teatro, come sosteneva mio padre, non occorre l’abito di gala ma il biglietto? Certo, anche la cultura ha la sua ritualità esteriore, ma un po’ di sobrietà non farebbe male alla cultura, alla musica lirica, alla Scala di Milano e a Milano (questa città ha enormi potenzialità, grandi capacità realizzative, ma poco stile…).Quando capiremo che l’attenzione ai problemi sociali non passa dalla contestazione degli eventi di alto livello artistico-mondano (entro cui e dietro cui oltretutto si muovono tanto lavoro, tante imprese, tanto turismo, tante possibilità di sviluppo): l’arte e lo spettacolo sono infatti, per l’Italia in particolare, una miniera da sfruttare per la crescita culturale, ma anche per quella economica. Capisco la rabbia di chi combatte a denti stretti per difendere il suo posto di lavoro o di chi addirittura l’ha perso e quindi non condanno le proteste, che tuttavia non servono a nulla, rischiano addirittura di essere controproducenti. Altro discorso è valutare l’impatto del teatro lirico sulle casse nazionali, fare il bilancio costi-benefici, non sprecare danaro pubblico e non difendere i privilegi, gli sprechi, i corporativismi, le sovrastrutture e il sottobosco teatrali.Quest’anno la Rai ha pensato (bene) di offrire al suo vasto pubblico la diretta dell’inaugurazione scaligera con una ripresa della partitura originale di Butterfly. Un successo inevitabile ed eloquente per una proposta interessante e accurata da parte della Scala di Milano (resta il più grande teatro lirico del mondo). La Rai però potrebbe fare qualcosa di meglio: non farsi condizionare troppo dall’arido riscontro dei dati audience (non siamo al festival di San Remo); smetterla di rincorrere l’aspetto mondano della manifestazione puntando sui contenuti culturali, dando magari in mano il microfono a qualche musicologo ed esperto (togliendolo alle Carlucci, alle Scorzoni, ai Di Bella che c’entrano come i cavoli a merenda), che, senza esagerare, sappia rendere al grande pubblico il servizio di presentare i contenuti dell’opera e guidarlo ad un più consapevole ascolto; collocare con più rigore e buongusto i messaggi pubblicitari (vedere al riguardo il concerto di Capodanno da Vienna); rispettare e trasmettere anche i momenti di breve ma intensa attesa, le entrate del direttore, gli applausi finali: il teatro è fatto anche di queste cose e bisogna consegnarle intatte allo spettatore televisivo senza privarlo dell’atmosfera teatrale che è qualcosa di meraviglioso. Chissà perché al pubblico televisivo non è stato proposta la lettura del messaggio inviato dal presidente della Repubblica e letto al proscenio dal sovrintendente, nel quale il capo dello Stato giustificava la sua assenza per problemi istituzionali molto importanti. Sarebbe stato un modo per collocare l’evento nel contesto nazionale senza paura di disturbarne l’appeal squisitamente culturale o di rovinare la serata deconcentrando il pubblico; ne avrebbe oltretutto guadagnato anche l’esecuzione dell’inno nazionale, sempre emozionante, ma che trovava poca rispondenza emotiva nel basso profilo della prima fila delle autorità in palco reale.