Uccidere per non uccidere

Byron Black, 69 anni, è morto mercoledì alle 10.43 (ora locale) nel carcere di Nashville dove è stata eseguita la sua condanna a morte. L’iniezione letale disposta dalla Corte Suprema del Tennessee è stata eseguita senza l’accorgimento invano chiesto dai suoi avvocati: la disattivazione del pacemaker che gli era stato impiantato nel cuore e che, ancora funzionante, si temeva potesse interferire nell’esecuzione provocandogli dolorose scosse elettriche. L’uomo, condannato per triplice omicidio, è spirato mentre riferiva al suo assistente spirituale di provare forte sofferenza. Secondo i testimoni avrebbe detto: «Fa molto male».

Black aveva trascorso più di 35 anni nel braccio della morte per aver ucciso nel 1988 la fidanzata Angela Clay, 29 anni, e le figlie di quest’ultima: Latoya, 9 anni, e Lakeisha, 6 anni. L’omicidio sarebbe maturato per gelosia mentre l’uomo si trovava in regime di semi-libertà. In passato, aveva sparato all’ex marito della sua compagna.

Il suo caso è venuto a galla quando i suoi legali, accertata l’irrevocabilità della condanna a morte, hanno chiesto al tribunale di disattivare il suo defibrillatore impiantabile, con funzione anche di pacemaker, per risparmiargli per lo meno l’inutile dolore provocato da eventuali scosse provocate dalla somministrazione del farmaco letale, il pentobarbital. Lunedì scorso, la Corte Suprema ha respinto l’ultimo ricorso spiegando che l’iniezione non avrebbe provocato scariche elettriche e che, in caso contrario, l’uomo non le avrebbe comunque percepite.

Il governatore del Tennessee, il repubblicano Bill Lee, si è poi rifiutato di fermare l’esecuzione. Black, che usava una sedia a rotelle e soffriva di demenza, danni cerebrali e insufficienza renale, è stato il secondo americano ucciso nel braccio della morte del carcere di Nashville dal mese di maggio.

Secondo il Death Penalty Information Center, un’associazione che monitora le condanne a morte, nelle galere degli Stati Uniti non c’erano prigionieri con patologie assimilabili a quelle di Black. Sul suo caso grava anche una querelle tra l’ospedale locale e l’amministrazione penitenziaria personale sanitario che si sono rimbalzati la responsabilità di non aver organizzato per tempo l’intervento di rimozione del pacemaker.

Kelley Henry, legale dell’uomo da 25 anni, ha tuonato: «Oggi, lo Stato del Tennessee ha ucciso un uomo gentile, fragile e con disabilità intellettiva, violando le leggi del nostro Paese semplicemente perché poteva farlo. Nessuno in posizione di potere, nemmeno i tribunali, ha avuto il coraggio di fermarli». «Quello che è successo – ha aggiunto – è il risultato di pura, sfrenata sete di sangue e codardia. Un abuso brutale e incontrollato del potere governativo».

Sono 28 le condanne a morte eseguite negli Usa nel 2025, altre nove sono in programma entro la fine dell’anno. (Da “Avvenire” – Angela Napoletano)

Davanti a questo fatto avvenuto nel Tennessee c’è sicuramente chi se la caverà con un’alzata di spalle, c’è chi penserà che preoccuparsi della pena di morte per i delinquenti diventa paradossale di fronte alle migliaia di morti innocenti provocati dalle guerre, c’è chi spera che le esecuzioni capitali possano funzionare come deterrente rispetto alla criminalità, c’è chi chiuderà il discorso affermando che chi commette reati punibili con la pena di morte sa a cosa può andare incontro quindi…, c’è chi addirittura auspicherà la reintroduzione della pena di morte anche nel nostro Paese.

“Perché si uccidono le persone che hanno ucciso altre persone? Per dimostrare che le persone non si devono uccidere?” (Norman Mailer)

Questione di mentalità, pareri e principi diversi.

Io la penso, meglio dire cerco di pensarla e di agire di conseguenza – anche se è difficilissimo e troppo spesso non ci riesco – come di seguito: «La lotta per la giustizia e la libertà passa attraverso la croce, il sacrificio di sé, la denuncia aperta, la disubbidienza creativa, le varie obiezioni di coscienza, il coraggio della verità, il dialogo sincero, il perdono e l’amore ai nemici, il no alla guerra e alla pena di morte» (Comunità di S. Cristina).

Seguire queste linee di condotta non è una virtù cristiana, ma una necessità umana se vogliamo cambiare questo mondo, altrimenti…

Un ponte per giocattolo

Per Giorgia Meloni, siamo di fronte a «un’opera strategica per lo sviluppo di tutta la nazione. Non è un’opera facile» ha ammesso, aggiungendo che «ci piacciono le sfide difficili quando sono sensate». Quest’opera è dunque un motivo di orgoglio nazionale per alcuni e la madre di tutti gli scandali futuri per altri. Subito dopo l’annuncio del Mit, a conclusione del comitato interministeriale, Bonelli (Avs) l’ha definito «il più grande spreco di denaro pubblico mai visto in Italia: 14,6 miliardi di euro dei cittadini, senza un solo euro di investimenti privati» con una chiosa politicissima quanto velenosissima. «Nemmeno Berlusconi aveva osato tanto. È il capolavoro di Matteo Salvini». Poi, l’argomento principe degli ambientalisti: «L’approvazione arriva nonostante il parere negativo dell’ambiente e il rischio sismico, con un pilone che sorge su una faglia attiva. Il governo Salvini, in un atto di pura arroganza, ha ignorato gli enti tecnici competenti, come Anac, Ispra, Ingv e il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Un vero e proprio schiaffo alla trasparenza e alla legalità». Su quest’ultimo punto la battaglia sarà lunga e il Mit lo sa benissimo: una delle prime dichiarazioni del ministro Salvini è stata proprio sul fronte della sicurezza e del contrasto alle infiltrazioni mafiose, che vedrà il governo schierato h24. Per un’opera da 13,5 miliardi, «contrastare ogni qualsivoglia tentativo di infiltrazione sarà una nostra ragion d’essere. Con il Ministero dell’interno si stanno adottando tutti protocolli come già per expo e le Olimpiadi: bisogna attenzionare tutta la filiera, perché sia impermeabile ai malintenzionati. Se si dovesse non fare ponte perché ci sono mafia e ‘ndrangheta allora non facciamo più niente» ha commentato.

Naturalmente, l’opposizione ha già iniziato il fuoco di sbarramento, puramente verbale per adesso. «Il governo trova 13,5 miliardi per il Ponte sullo Stretto, da oggi ufficialmente autorizzato dal Cipess, mentre per l’Alta Velocità Salerno-Reggio Calabria mancano ancora 17,2 miliardi per evitare che dal “profondo Sud” ci si possa impiegare anche 20 ore di treno per raggiungere la capitale» recita una nota del senatore M5s Pietro Lorefice. «Altro che giornata storica: oggi è una giornata triste per il Mezzogiorno e per tutto il Paese» ha detto invece Anthony Barbagallo, capogruppo Pd in Commissione Trasporti alla Camera. Il ministro fa spallucce e conta di avere il via libera della Corte dei Conti per partire tra settembre e ottobre coi cantieri. (da “Avvenire” – Paolo Viana)

Durante un convegno in cui tenni una relazione in materia fiscale – di essa mi occupavo con riferimento alle problematiche delle società cooperative – ricordo di avere inventato di sana pianta il “ministero del buon senso” e di avervi fatto riferimento nelle risposte ai quesiti che mi venivano posti: operazione rischiosa, ma altrettanto proficua, in mezzo ad uno strabiliante ginepraio di norme, interpretazioni e sentenze.

Lasciatemi ricordare altresì come don Raffaele Dagnino, storico prete e punto di riferimento per i cattolici parmensi, fosse solito augurare alle mamme tanto buon senso per i loro figli.

Non è facile definire il buon senso: non si tratta certamente di un banale, comodo ed opportunistico adattamento alla realtà, ma piuttosto di un semplice e coraggioso modo di affrontarla e di cambiarla. Potrebbe essere la ricetta per tornare a governare, a tutti i livelli, in modo concreto ma lungimirante e soprattutto rispondente alle vere e primarie necessità.

Non sono un tecnico delle complesse materie riguardanti la realizzazione di mastodontiche opere infrastrutturali come il ponte sullo stretto di Messina e quindi, a maggior ragione, devo rifarmi alle modalità dettate dal buon senso.

Quando in una famiglia si fa molta fatica a condurre una dignitosa vita comunitaria, difficilmente a qualcuno verrebbe in mente di proporre una ristrutturazione dell’appartamento per dotarlo di un terrazzo per feste e ricevimenti con amici e conoscenti e, se a qualcuno balenasse l’idea, il capo-famiglia lo metterebbe subito a tacere, ricordandogli che il bilancio famigliare non può permettere questo investimento anche se piacevole, ma non certamente primario rispetto alle esigenze famigliari. Mi pare di sentire la mamma casalinga dire: “Io faccio i salti mortali per tirare avanti la baracca e non far mancare il necessario e tu mi proponi il superfluo? Mi prendi in giro? Datti una calmata! Ci sono cose più importanti a cui pensare…”.

Il figlio-ministro prodigo Matteo Salvini ha chiesto alla madre-premier misericordiosa nientepopodimeno che i fondi per costruire un ponte sullo stretto di Messina: richiesta esaudita con enfasi. Mi permetto di fare la parte del figlio maggiore che dà voce a tutto il parentado: “Da tempo chiediamo soldi per la sanità e l’istruzione e rispondete picche accampando scuse di bilancio e ora solo perché Salvini vuol conquistare voti al sud lo accontentate stanziando fondi spropositati al riguardo? Non ci siamo e non ci stiamo!”.

Naturalmente verranno accampati tanti argomenti socio-economici per dimostrare che si tratta di un investimento proficuo con ritorni benefici di vario genere. Tuttavia, quando non c’è il conquibus, si tratta semplicemente del libro dei sogni e di una fuga dalle responsabilità. Il resto è fuffa salviniana ingoiata a livello governativo e spacciata mediaticamente come una grande idea. Al bimbo Salvini viene consentito di giocare con un giocattolo che costa 13,5 miliardi di euro e ai bimbi, che vivono in miseria e/o che non vanno a scuola, viene promesso che col tempo arriveranno tanti giocattoli anche per loro.

 

 

 

Un ticket di inquietante successo

La presentazione dei palinsesti Mediaset si è trasformata, per molti osservatori, in un segnale politico. Pier Silvio Berlusconi ha lanciato messaggi che vanno oltre il mondo televisivo, lasciando intravedere ipotesi di futuro per il centrodestra e per Forza Italia.

Durante il suo intervento, Pier Silvio ha parlato di rinnovamento, di “volti e idee nuove”, frenando sullo ius scholae e lodando la premier Giorgia Meloni. Parole che molti hanno letto come una vera e propria investitura, accompagnate dalla prudente apertura all’idea di un futuro impegno politico, forse tra due anni, quando avrà 58 anni: la stessa età con cui il padre Silvio Berlusconi scese in campo nel 1994.

L’ipotesi di una “staffetta” nel centrodestra circola da settimane tra via della Scrofa e i palazzi romani. Secondo alcuni, potrebbe concretizzarsi uno scenario in cui Pier Silvio Berlusconi diventi premier e Giorgia Meloni punti al Quirinale nella partita per il Colle del 2029. Per ora sono solo suggestioni, ma la prospettiva divide: c’è chi sogna una nuova consacrazione del berlusconismo e chi teme una guerra di successione all’interno della coalizione.

All’interno di Forza Italia, l’ipotesi Pier Silvio come “federatore del centro” piace a chi sogna un’alleanza capace di riunire cattolici, moderati e delusi da altre forze come Azione o Italia Viva. Matteo Renzi ha reagito con durezza alle parole di Berlusconi jr, segnale di un possibile timore per un nuovo equilibrio politico.

Per ora si tratta solo di scenari. Ma la suggestione di una staffetta tra Palazzo Chigi e Quirinale ha già acceso il dibattito e alimentato le manovre di lungo periodo nel centrodestra. (msn.com – Baritalia News – Storia di Claudia De Napoli)

Da tempo ho la sensazione che la linea politica di Forza Italia sia dettata da Mediaset e dagli interessi editoriali del gruppo impersonificati in modo molto pragmatico da Pier Silvio Berlusconi. Finora ero però dell’idea che ai Berlusconi non interessasse più di tanto l’assetto politico del Paese, ma si accontentassero di avere sufficienti garanzie per lo svolgimento dei loro affari. Sembra invece che i rapporti attuali all’interno del centro-destra non siano sufficienti e che diventi sempre più necessario un diretto coinvolgimento a livello di governo.

Probabilmente la scarsissima qualità della inaffidabile classe dirigente di riferimento e la complessità della situazione politico-economica consigliano a Pier Silvio Berlusconi di fare una capatina nell’agone politico. Di qui l’ipotesi di una sua discesa in campo, non certo per ricoprire ruoli di contorno ma da protagonista principale.

L’ostacolo sarebbe la presenza piuttosto ingombrante di una Giorgia Meloni, che non sarebbe certamente disponibile a farsi da parte, ragion per cui ecco spuntare l’ipotesi di un ticket piuttosto fantasioso, ma, con le arie che tirano, non troppo. Un modo per fare ordine nel regime: ogni pedina reazionaria al suo posto, un posto per ogni pedina reazionaria.

Certo sarebbe la ciliegiona sulla torta della riforma anti-costituzionale del cosiddetto premierato abbinato ad una compiacente presidenza della Repubblica. Al solo pensarci mi vengono i brividi. Alcuni anni or sono pensavo che l’ipotesi di Meloni presidente del consiglio non avesse possibilità di concretizzarsi per l’ostilità europea: ostacolo ampiamente superato e bypassato con la collocazione meloniana a livello internazionale. Se è passata la Meloni, chi mi dice che non passerà l’abbinata Meloni-Berlusconi? Per Trump sarebbe oro colato, per la Ue sarebbe ancor più facile digerire una destra italiana ammorbidita in salsa neo-berlusconiana. Il Ppe avrebbe un interlocutore interessantissimo, il Parlamento europeo una semplificazione di schieramenti, la Commissione europea troverebbe la certezza di un fedele ed obbediente componente, il Consiglio d’Europa un’Italia perfettamente integrata negli schemi geopolitici correnti.

E gli italiani? Applaudiranno e/o taceranno. A meno che…non trovino il coraggio e la forza di resistere, resistere e resistere. Nel ’68 si gridava: viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse-Tung. Di fronte alla prospettiva di cui sopra si sentirebbe la maggioranza silenziosa “gridare a bassa voce”: viva Trump, viva Netanyahu, viva Berlusconi. Dio, come siamo caduti in basso!

 

I torti dei giudici e le ragioni di Netanyahu e Trump

L’annuncio arriva a sorpresa, a ridosso dei tg delle 20, a firma della stessa presidente del Consiglio. «Oggi mi è stato notificato il provvedimento dal Tribunale dei ministri per il caso Almasri – inizia Giorgia Meloni, in un messaggio postato sul suo canale social di X – dopo oltre sei mesi dal suo avvio, rispetto ai tre mesi previsti dalla legge, e dopo ingiustificabili fughe di notizie». Poi, la notizia vera e propria: «I giudici hanno archiviato la mia sola posizione», mentre «dal decreto desumo che verrà chiesta l’autorizzazione a procedere nei confronti dei ministri Piantedosi e Nordio e del sottosegretario Mantovano».

(…)
E ora, secondo quanto lascia intendere Meloni, la sua posizione sarebbe stata archiviata mentre per gli altri tre potrebbe aprirsi la prospettiva di un rinvio a giudizio, previa richiesta di autorizzazione a procedere. Meloni: io non informata? Assurdo, il governo è coeso
Perché le quattro posizioni sarebbero state differenziate dalle tre magistrate del Tribunale dei ministri? Secondo quanto annota la premier, «nel decreto si sostiene che io “non sia stata preventivamente informata e (non) abbia condiviso la decisione assunta”. In tal modo non avrei rafforzato “il programma criminoso”». Pertanto, prosegue, «si sostiene che due autorevoli Ministri e il sottosegretario da me delegato all’intelligence abbiano agito su una vicenda così seria senza aver condiviso con me le decisioni assunte». Meloni respinge una tale ricostruzione, perché è «una tesi palesemente assurda». A differenza «di qualche mio predecessore, che ha preso le distanze da un suo ministro in situazioni similari», la premier rivendica «che questo Governo agisce in modo coeso sotto la mia guida: ogni scelta, soprattutto così importante, è concordata» ed è «quindi assurdo chiedere che vadano a giudizio Piantedosi, Nordio e Mantovano, e non anche io, prima di loro».

(…)

A conclusione del messaggio, la presidente del Consiglio ribadisce «la correttezza dell’operato dell’intero Esecutivo, che ha avuto come sola bussola la tutela della sicurezza degli italiani». Meloni ricorda di averlo detto pubblicamente subito dopo aver avuto notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati. E anticipa che lo ribadirà «in Parlamento, sedendomi accanto a Piantedosi, Nordio e Mantovano al momento del voto sull’autorizzazione a procedere». (“Avvenire” – Vincenzo R. Spagnolo)

Mio padre sosteneva che quando nella vita di coppia non c’è accordo, qualsiasi parola o azione è sbagliata. Meglio tacere e non fare nulla?! È quanto, in fin dei conti, molti “falsi criticoni” desiderano ardentemente.

I giudici hanno sempre torto quando hanno a che fare con chi governa: se sottopongono qualcuno ad indagini si intromettono, se rinviano a giudizio lo fanno senza prove, se condannano vogliono far fuori i condannati, se assolvono fanno strani ragionamenti diversificati.

E se la piantassimo una buona volta di criticare le decisioni dei giudici e le rispettassimo almeno in nome della Costituzione e dell’autonomia dei poteri che essa prescrive. La sfiducia verso i magistrati, inoculata dai politici nel corpo sociale, è a dir poco deleteria, serve soltanto a creare quella confusione che è presupposto di qualunquismo e populismo.

Se Giorgia Meloni usasse la stessa lumacosa verve, che adotta nei confronti della magistratura, con Netanyahu e Trump non saremmo ingabbiati in quel vergognoso opportunistico gioco internazionale che ci propone il governo del nostro Paese.

Si vociferava che un mio ex-collega, prima di partecipare a riunioni di lavoro che si preannunciavano calde e imbarazzanti, facesse una capatina dalla suocera per sfogare i suoi istinti bellicosi e presentarsi quindi in modo più rilassato nelle sedi ufficiali.

Non vorrei che la nostra premier sfogasse le sue rabbie con i giudici per poter meglio ingoiare i rospi delle porcherie israeliane e statunitensi. Non è un caso che la polemica da cui siamo partiti, vale a dire quella contro le mosse del tribunale dei ministri sul caso Almasri, sia uscita proprio in concomitanza con la dichiarata intenzione israeliana di occupare la striscia di Gaza (quello che rimane) con il tacito assenso statunitense. A parte gli scherzi siamo a vere e proprie manovre di depistaggio dell’opinione pubblica.

A meno che i ministri e sottosegretari, coesi sotto l’autorevole guida di Giorgia Meloni, non stiano pensando di prenotare un posto vacanziero nello splendido resort turistico di Gaza ipotizzato da Trump e Netanyahu e temano che i giudici possano scompigliare i loro piani processando due ministri e un importante sottosegretario. Vacanze rovinate!

Contro la forza israeliana la ragion non vale

Sull’onda dell’annuncio di Emmanuel Macron, anche il primo ministro britannico Keir Starmer ha dichiarato che il Regno Unito nel corso della prossima Assemblea generale dell’Onu prevista per settembre riconoscerà lo Stato di Palestina. A differenza di quella francese, però, la posizione di Starmer è apparsa fin da subito più ambigua: il riconoscimento avverrà, ha detto, “a meno che Israele non compia passi concreti per migliorare la situazione a Gaza”. In altri termini, il riconoscimento dello Stato palestinese viene presentato come una merce di scambio da ritirare se Israele si mostra più “ragionevole”. Una formulazione che ne svuota radicalmente il significato politico e morale. Ma anche volendo prescindere dalle ambiguità di Starmer, che efficacia può avere oggi riconoscere la Palestina? Siamo infatti di fronte a due questioni che, seppur connesse, rimangono distinte. La prima, e più urgente, è lo sterminio quotidiano della popolazione palestinese in corso da mesi nella Striscia di Gaza. Una situazione che sempre più spesso viene definita da giuristi, studiosi e perfino da organizzazioni israeliane come genocidio. È in atto un’azione intenzionale e sistematica di annientamento di una popolazione, come dichiarato apertamente da numerosi esponenti del governo israeliano. È in corso una carestia indotta, provocata deliberatamente dal blocco degli aiuti umanitari e dalla riorganizzazione dei canali di distribuzione. Questi fatti, da soli, configurano crimini di guerra e crimini contro l’umanità che prescindono completamente dai torti e dalle ragioni di questa guerra. La seconda questione è quella, certamente più ampia e di lungo periodo, della soluzione politica al conflitto israelo-palestinese, indispensabile per creare una situazione di pace duratura e per la quale il riconoscimento dello Stato di Palestina potrebbe rivestire un valore politico importante. Ma oggi l’urgenza è la prima e risulta difficile capire in che modo il riconoscimento di uno Stato che non esiste possa concretamente incidere sullo sterminio in corso. È lecito domandarsi se e come questo atto formale possa esercitare una pressione su Israele tale da modificarne la strategia. Che tipo di minaccia costituirebbe, agli occhi di un governo che continua a operare in piena impunità, e che le potenze occidentali da un lato redarguiscono e dall’altro continuano a sostenere?
Se l’annuncio del riconoscimento dello Stato palestinese fosse accompagnato da misure concrete – l’interruzione delle forniture militari, la sospensione degli accordi commerciali, l’imposizione di sanzioni economiche – allora sì che si riempirebbe di significato. Esistono ormai appelli espliciti in questa direzione anche all’interno della società civile israeliana. E un significato ancora maggiore l’avrebbe se a questo riconoscimento fossero associate dichiarazioni circa l’intenzione di dare attuazione ai mandati di arresto internazionali nei confronti di Netanyahu e degli altri esponenti del governo israeliano accusati di crimini di guerra. Allora sì che saremmo di fronte a un cambio di rotta reale. Ma nulla di tutto questo è stato detto. È difficile, quindi, considerare questi annunci come qualcosa di più di un tentativo (peraltro tardivo) di rimediare in qualche modo alla disastrosa immagine internazionale che i paesi alleati di Israele stanno offrendo da mesi. Finché ci si limiterà a formule simboliche, prive di effetti concreti, il loro impatto sarà nullo. La strage quotidiana che si consuma a Gaza ha bisogno di risposte immediate, non di vibranti proteste né di promesse future. Ed è proprio questa distanza tra l’urgenza dei fatti e l’inconsistenza delle reazioni politiche a misurare, ancora una volta, il fallimento della comunità internazionale. (MicroMega – Cinzia Sciuto)

È curiosamente stucchevole in questo momento sollevare la questione del riconoscimento dello Stato di Palestina: non è bello fare il processo alle intenzioni, ma appare come il goffo tentativo di nascondere la vergognosa inettitudine occidentale dietro l’intempestivo dito del buonismo geopolitico.

D’altra parte da decenni i governi israeliani se ne fregano altamente dell’Onu e dei suoi reiterati inviti ad abbandonare i territori sempre più occupati. Non diversa sorte toccherà al riconoscimento dello Stato palestinese e al suo ingresso a pieno titolo tra i Paesi facenti parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.

Non voglio essere più realista del re, ma, se gli Usa non cambieranno atteggiamento verso Israele, niente e nessuno potrà condizionarlo decisamente e pesantemente. La lobby israeliana è fortissima negli Stati Uniti, è capace di influire addirittura sull’elezione presidenziale e sulle conseguenti scelte politico-programmatiche.

All’interno di Israele spadroneggia la casta religiosa ebraica in un vomitevole mix di potere religioso ed economico. Tutti lo sanno, nessuno lo ammette apertamente e chiede di laicizzare lo Stato (sarebbe comunque un processo pressoché impossibile).

Sul piano etico-culturale, è penoso doverlo ammettere, i perseguitati si sono trasformati in persecutori, nascondendosi dietro una storia di immani sofferenze patite in passato, che finisce col legittimare paradossalmente le attuali sofferenze inflitte ai palestinesi. Il cretinismo antisemitico fa da paraninfo. Il terrorismo islamico funziona da alibi.

L’Unione europea è, come sempre, ondivaga e inconcludente. I francesi dall’interno e gli inglesi dall’esterno giocano a fare i primi della classe, a fare la parte del poliziotto buono che, tutto sommato, è peggio di quello cattivo.

Sembra oltre tutto inarrestabile il flusso di armi atto a rendere lo Stato di Israele sempre più forte e intoccabile. Cosa serve riconoscere lo Stato di Palestina ed al contempo continuare imperterriti a rifornire di armi chi lo vuole asfaltare e cancellare prima ancora che nasca.

In questo desolante quadro è meglio puntare sulla mobilitazione delle opinioni pubbliche, quella israeliana in via di maturazione critica e quelle occidentali toccate nel cuore dall’autentico genocidio in atto: non basterà, ma sempre meglio e sempre più (restando in area occidentale) del cattivista Trump, del buonista Macron, dell’economicista Merz e dell’opportunista Meloni.

Meglio suonare le campane delle chiese e dei palazzi comunali, le sirene delle barche e i clacson delle auto, i fischietti e le pentole e qualunque altra cosa possa aiutarci a disertare il silenzio che avvolge il genocidio di Gaza.

Chissà che qualche governante non prenda paura, ma soprattutto chissà che non si rompa la cappa protettiva mediatico-diplomatica, che ricopre gli sporchi affaracci israeliani.

 

Un tiepido bagno giovanilista

Sarà perché non sopporto le radunate oceaniche, sarà perché ho un concetto troppo aristocratico della vita, sarà perché non accetto la spettacolarizzazione di tutto per coprire la disperazione del nulla, sarà perché la conversione religiosa la concepisco come un cammino interiore e non come una kermesse esteriore, sarà perché la mediatizzazione degli eventi porta con sé, sempre e comunque, il rischio di svuotarli di contenuto, sarà perché il cristianesimo non è fatto per le masse ma per il “piccolo gregge”, sarà perché il giovanilismo è una trappola per i giovani e un’illusione per gli anziani, sarà perché non esiste la Chiesa dei giovani ma la Chiesa dei poveri, sarà perché temo che il giubileo sia soltanto una mano di vernice sui muri screpolati delle inesistenti comunità cristiane, sarà perché la sfilata delle categorie sociali e generazionali è roba da regime, sarà perché ho poca fiducia nei giovani in quanto li vedo appiattiti sui falsi valori più che impegnati sui veri valori, sarà perché sono vecchio e guardo poeticamente al futuro con troppa nostalgia del passato, sarà perché concepisco la fede come attenzione alle piccole (grandi) cose e non come tensione  verso i grandi (piccoli) successi, sarà perché un milione di giovani mi dà più preoccupazione che soddisfazione, sarà perché l’aggiornamento della Chiesa non dovrebbe consistere nel somigliare di più al mondo ma nel cercare di cambiarlo, sarà perché nei giovani faccio fatica a cogliere la sacrosanta contestazione verso le ingiustizie e le contraddizioni della società, sarà perché non vedo alcun collegamento fra la politica e l’impegno giovanile, sarà perché intravedo nella Chiesa il tentativo di riciclarsi coi giovani anziché di rinnovarsi coi poveri, sarà per tutti questi motivi che resto piuttosto perplesso e scettico verso il tanto osannato recente giubileo dei giovani, celebrato a Roma in una esagerata sarabanda di spettacolari iniziative.

Ripiego sugli insegnamenti paterni. Mio padre, con la sua abituale verve ironica, così sintetizzava lo scontro fra generazioni: «Quand j’éra giovvon a säve i véc’, adésa ch’a són véc’ a sa i giovvon…». Intendeva sdrammatizzare gli insopportabili schemi sociologici, che ci assillano con le loro sistematiche elaborazioni dell’ovvio. D’altra parte è come nella vita di coppia. Quando non c’è accordo, qualsiasi parola o azione è sbagliata. Meglio tacere e non fare nulla. È quanto, in fin dei conti, molti “falsi criticoni” desiderano ardentemente. Concludeva rassegnato: Con chil bàli chi, mi an so mai…».

Aveva un suo modo di rapportarsi coi giovani, non era assolutamente implacabile nelle critiche verso di loro, ma non gliele risparmiava: intendeva ricondurli al senso di responsabilità, senza inutili accanimenti più o meno terapeutici. Tipico al riguardo l’atteggiamento nei confronti delle loro, anche piccole, trasgressioni, davanti alle quali reagiva non tanto con fastidio, ma con pragmatico spirito educativo. Esordiva dicendo: «Dónca, ragas, a són stè gióvvon anca mi…» e poi articolava i suoi eventuali e razionali rimproveri.

La politica vezzeggia i giovani fintanto che non si vede fortemente contestata: la contestazione scarseggia, ma meno contestazione c’è, più reazione repressiva sorge.

La religione vuole inglobare i giovani per irrobustire le ginocchia vacillanti delle Chiese: se e quando dovessero fare sul serio, scatterebbero le trappole del tradizionalismo e del clericalismo.

D’altra parte, per dirla con una frase fatta, il futuro è nelle mani dei giovani. Sarà poi vero? Preferisco metterlo nelle mani di Dio e in tutti coloro, giovani o vecchi, che si sforzano di impostare un rapporto sano con il futuro, che è fatto di anima, e quindi cercano di mettere un po’ di anima nel futuro! (padre Ermes Ronchi).

 

 

 

Le finte sicurezze del nazional-populismo

Con una recente sentenza la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che un “paese di origine sicuro” deve essere tale per tutti gli abitanti e su tutto il suo territorio. Ha detto anche che gli stati membri dell’Unione Europea possono decidere autonomamente quali paesi considerare “sicuri”, ma che i giudici nazionali devono avere la possibilità di contestare questa definizione, nel caso in cui ritengano che non sia in linea con le direttive europee.

Questa decisione era molto attesa in Italia: a chiedere alla Corte di pronunciarsi erano stati proprio dei giudici italiani, che negli scorsi mesi si erano opposti alla decisione del governo di Giorgia Meloni di ampliare la lista dei “paesi sicuri” includendo anche paesi come l’Egitto e il Bangladesh. Le domande di asilo presentate dai migranti che arrivano da questi paesi possono essere esaminate con una procedura accelerata, che si svolge in modo più rapido e sommario e soprattutto permette di detenere i migranti nei centri in Albania mentre aspettano l’esito. Inserire un paese nella lista di quelli considerati “sicuri” rende inoltre più facile respingere le richieste di asilo delle persone che provengono da quel paese, e quindi espellerle.

L’espressione “paese sicuro” fa riferimento a un concetto ben preciso, contenuto in una direttiva europea del 2013, che chiarisce le procedure da seguire per esaminare le domande di protezione internazionale presentate dai migranti che arrivano in un paese dell’Unione Europea. Riassumendo, secondo la direttiva un paese può essere considerato “sicuro” se rispetta le libertà e i diritti civili e ha un ordinamento democratico.

Ogni paese dell’Unione può decidere autonomamente quali paesi considerare “sicuri”, sulla base di alcuni criteri fondamentali. Nel tempo questo ha creato varie storture. Da anni, per esempio, il governo italiano considera “sicuri” paesi dove il rispetto dei diritti umani è quantomeno opinabile: come la Tunisia, governata da un regime illiberale che da anni porta avanti una campagna di discriminazione nei confronti delle persone che provengono dall’Africa subsahariana.

L’interpretazione data oggi dalla Commissione è quella che già usavano molti giudici. Nonostante questo il governo italiano aveva interpretato la norma in modo diverso, definendo come complessivamente “sicuri” anche paesi che non lo sono su tutto il loro territorio, o lo sono solo per alcune categorie di persone. La Corte ha dato torto a questa interpretazione, e ragione invece alle decisioni dei giudici che negli scorsi mesi hanno bloccato il trasferimento dei migranti nei centri in Albania.

Il diritto dell’Unione Europea ha preminenza su quello italiano, come sancito anche dalla Costituzione, e quindi il governo dovrà per il momento adattarsi a questa decisione.

La Corte però ha fatto anche presente che questa interpretazione varrà solo fino a giugno del 2026, quando entrerà in vigore il nuovo e discusso Regolamento sulla procedura d’asilo, che modifica le procedure per gestire i richiedenti asilo nel momento in cui si presentano alle frontiere dell’Unione. Fra le altre cose, il nuovo regolamento ridefinisce il concetto di paese sicuro nell’articolo 59 ed elimina proprio la necessità che un paese sia considerabile tale in tutte le sue regioni e per tutte le categorie di persone. Un migrante arrivato nell’Unione potrà inoltre essere detenuto e incanalato nella procedura accelerata anche se nel paese in cui è arrivato viene accolto meno del 20 per cento delle richieste d’asilo dei suoi connazionali.

Il governo italiano ha criticato la sentenza, sia la parte in cui stabilisce che un giudice nazionale possa esprimersi in merito alla lista dei “paesi sicuri” stilata dal governo, sia quella sull’interpretazione della definizione. In un comunicato ha detto che passerà i dieci mesi mancanti all’entrata in vigore del nuovo regolamento a «cercare ogni soluzione possibile, tecnica o normativa» per portare avanti la sua politica. (ilpost.it)

Mia madre, ingenuamente ma acutamente, metteva in discussione se ai migranti convenisse venire in Italia per essere trattati “cme i rosp al’ sasädi”. Gira e rigira infatti non li vuole nessuno, vengono considerati sostanzialmente come soggetti indesiderati da rimpatriare al più presto a costo di scatenare infiniti conflitti fra governo e magistratura, fra norme Ue e nazionali, fra sicurezza nei Paesi dove i diritti vengono praticamente calpestati e sicurezza nel nostro Paese patria (?) del diritto.

Ad una persona che fugge disperatamente dal proprio Paese affrontando rischi mortali non si risponde con il dettato costituzionale – il diritto di asilo in Italia è sancito dall’articolo 10 della Costituzione, che stabilisce che uno straniero, a cui sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge – si risponde con cavilli da azzeccagarbugli pur di mandarla a casa previa detenzione nei lager transitori.

C’è voluta la Corte di giustizia europea per chiarire principi lapalissiani ignorati e/o aggirati vergognosamente dal governo italiano.

Oltre dimostrare la mancanza di senso etico i nostri governanti ignorano o fanno finta di ignorare i principi giuridici elementari, non accettano la preminenza delle norme europee su quelle nazionali e non riconoscono la funzione dei giudici nell’applicazione della legge.

Non so quale di questi aspetti sia il più grave: sono tra di loro collegati e costituiscono i principi base del nazional-populismo sempre più imperante.

Non mi faccio illusioni, tra dieci mesi il nuovo regolamento comunitario salverà le capre egualitarie con i cavoli discriminatori. Nel frattempo il ministro della (in)giustizia italiano continuerà ad implementare una serie di cazzate da ex-magistrato opportunista, fazioso e rovinoso.

La gente continuerà a credere che l’immigrazione sia una piaga da combattere in quanto colpevole di tutti i nostri mali. Persino Lucia Annunziata usa un linguaggio equivoco al riguardo: “Non c’è molto da dire ma va detto. E nel più semplice dei modi: noi donne, noi donne europee, abbiamo bisogno di cominciare una discussione vera su quello che l’immigrazione sta portando nei nostri paesi; sul disagio, e sulle vere e proprie minacce alla nostra incolumità fisica che avvertiamo nelle strade, sui bus, nei quartieri delle nostre città. Una franca discussione su come evitare che la giustissima “accoglienza” di chi ha bisogno diventi la vittoria di Pirro della nostra sicurezza e indipendenza. Mi pare che qualcosa si muova in questo senso fra le donne tedesche. E se è così saremo con loro”.

Anche dovendo ammettere che l’immigrazione comporti problemi non si deve partire dalla paura di essere minacciati, ma semmai dalla solidarietà con chi soffre, dai reciproci vantaggi, dal rispetto dei diritti che non può e non deve mettere in competizione i poveri tra di loro.

Mentre la destra fa la sua demagogica battaglia securitaria, la sinistra non riesce a coniugare le sicurezze nostrane con quelle dei migranti e tenta di recuperare il tempo perduto e la propria incapacità politico-programmatica teorizzando “l’accoglienza sì ma non troppo”.

L’immigrazione, come la guerra, è un tema così divisivo da buttare all’aria gli schemi politici tradizionali. Per farla breve ammetterò di non riuscire a votare il partito democratico anche e soprattutto perché lo vedo a dir poco timido su questi temi che invece richiederebbero sensibilità umana e coraggio culturale prima e più che abilità politica.

Un governatore in confusione

“Ho deciso di dimettermi, ma ho deciso anche di ricandidarmi, ho deciso di dire ai calabresi: siate voi a scrivere il futuro della Calabria, siate voi a dire se la Calabria si deve fermare o se questo lavoro deve proseguire. Tra qualche settimana, quindi, si andrà a votare, e saranno i calabresi a decidere il futuro della Calabria, non altri”. È l’annuncio a sorpresa fatto sui social dal presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto. Nel corso della prossima settimana Occhiuto formalizzerà la decisione di dimettersi dall’incarico. Dopo la presa d’atto del Consiglio, sarà stabilita la data delle elezioni.

Occhiuto ha parlato in un video registrato nel cantiere della costruenda metropolitana di Catanzaro annunciando le sue dimissioni, ma anche la volontà di ricandidarsi, facendo riferimento alle tante opere in corso e all’inchiesta della procura di Catanzaro che lo vede indagato per corruzione. “Ma perché quando qualcuno cerca di fare qualcosa di buono in questa Regione, tanti altri – ha detto – che godono solo per il fallimento della Calabria – vorrebbero fermarlo? É quello che sta succedendo oggi in Calabria. Ho deciso di portarvi qui, di farvi vedere questo cantiere, il cantiere della metropolitana di Catanzaro. Ma avrei potuto portarvi in tanti altri luoghi della Calabria – a Sibari, nell’ospedale della Sibaritide; a Vibo, nell’ospedale di Vibo; a Palmi; nei cantieri degli aeroporti; in quelli della SS106 – per farvi vedere quante opere si stanno realizzando e quante opere oggi si vorrebbero fermare. Chi vorrebbe fermarle, la magistratura?”.

“No, io – ha continuato Occhiuto – non ce l’ho con la magistratura. Non cambio idea: ho sempre detto che in una Regione complicata come la Calabria i magistrati devono fare il loro lavoro serenamente. D’altra parte, io ho chiarito ogni cosa, non ho nulla da temere dall’inchiesta giudiziaria. Sapete con chi ce l’ho? Ce l’ho con tutti questi politici di secondo piano, tutti questi che in politica non hanno mai realizzato nulla per la Calabria in tanti anni. Ce l’ho con questi odiatori, con queste persone arrabbiate con la vita, che tifano per il fallimento della Calabria, che quasi sono contenti quando si parla male della Calabria. Ce l’ho con questi che utilizzano l’inchiesta giudiziaria – ha affermato Occhiuto – come una clava per indebolire o per uccidere politicamente il presidente della Regione: non sarà così. Però devo considerare anche quello che sta succedendo nella mia amministrazione. Guardate, io penso che in un Paese civile nessuno debba dimettersi perché riceve un avviso di garanzia, nessuno. Però nella mia amministrazione oggi sta succedendo che è tutto bloccato: nessuno si assume la responsabilità di firmare niente, tutti pensano che questa esperienza sia come quelle precedenti.

Negli ultimi 30 anni in Calabria – ha aggiunto – nell’ultimo anno o nell’ultimo anno e mezzo di legislatura i presidenti venivano coinvolti in un’inchiesta giudiziaria, poi magari venivano archiviati, finiva tutto quanto in niente, però venivano decapitati politicamente, e si fermava la legislatura. Anzi, per un anno si parlava soltanto di questo. La Calabria non se lo può consentire. La Calabria – conclude – ha avviato un percorso che finalmente la sta facendo diventare una Regione che non è più in ginocchio rispetto alle altre Regioni d’Italia”. (AGI – Alessandro De Virgilio)

La questione si può sintetizzare con una battutaccia: mi dimetto, anzi mi ricandido. Non mi sento di entrare nel merito delle inchieste della Magistratura a carico del presidente della Calabria e non ho elementi per giudicare politicamente il suo operato. Mi limito a sottolineare le sue sorprendenti contraddizioni.

Penso che le sue dimissioni abbiano o dovrebbero avere lo scopo di farsi da parte per lasciare che la giustizia faccia il suo corso, di poter meglio difendersi e di consentire alla regione Calabria di essere regolarmente amministrata senza spade di Damocle sulla testa degli amministratori.

Che senso ha quindi ricandidarsi immediatamente alle prossime imminenti elezioni senza che la questione giudiziaria sia stata minimamente chiarita?  Non vedo il nesso logico fra le due decisioni, se non maliziosamente pensare che faccia finta provocatoriamente di dimettersi, anche se il giochetto vittimistico mi sembra un po’ troppo scoperto.

C’è poi una contraddizione di carattere istituzionale grande come una casa: cosa vuol dire che decideranno i calabresi? Mi sembra fin troppo chiaro che siamo in piena deriva populista travolgente la funzione della Magistratura sull’onda del potere popolare.

Allora il buon Occhiuto ha fiducia o no nella Magistratura, si rimette o no alle sue decisioni. Se sì, vale a dire se le sue dimissioni hanno un senso di attesa fiduciosa, dovrebbe mantenersi fuori dalla battaglia politica, se no non avrebbe dovuto dimettersi e rimanere al suo posto fino al termine dell’iter giudiziario.

Due indizi fanno una prova, due contraddizioni fanno un gran casino!  Non so se Roberto Occhiuto abbia violato il codice penale e non so se abbia bene amministrato la regione Calabria, penso stia facendo parecchia confusione che non fa bene né a lui, né alla Calabria,  né alle istituzioni tutte.

Una sventagliata etica in faccia ai governanti in calore

Dell’intervento del presidente Mattarella alla tradizionale cerimonia del ventaglio, di cui consiglio una lettura integrale, vorrei cogliere una sorta di leitmotiv, come succede nelle migliori sinfonie.

Da una lettura frettolosa e superficiale di questo discorso si può trarre l’impressione sbagliata e strumentalizzante della benzina inopportunamente buttata sul fuoco dell’incendio mondiale: è la lettura del Cremlino, e non solo, con le scomposte conseguenti reazioni pseudo-diplomatiche.

Se ci limitiamo a osservare la situazione geopolitica con gli occhiali deformanti del realismo sgovernante, restiamo indubbiamente colpiti e finanche irritati. Se invece inforchiamo coraggiosamente gli occhiali della coesistenza pacifica dei popoli, non possiamo che trovarci in perfetta sintonia etico-politica col nostro presidente della Repubblica, il suo sforzo di leggere il passato e ipotizzare il futuro partendo dagli aneliti e dalle speranze popolari, il tentativo di riportare continuamente la politica e la diplomazia dal chiuso dei palazzi all’aria aperta delle piazze.

A mio giudizio Sergio Mattarella si sforza di leggere la storia distinguendo i governanti, i loro tragici errori e i loro comportamenti inaccettabili, dai sentimenti profondi dei popoli che anelano alla pace. Il criterio vale per tutte le drammatiche situazioni: Russia-Ucraina, Israele-Palestina, Usa-resto del mondo, Europa-Nato-Riarmo, Italia-europeismo scettico-occidentalismo di maniera.

Non vien forse spontaneo a tutti chiedersi come sia possibile che il popolo russo sopporti, dopo tutte le esperienze sofferte, un’autocrazia imperialista e bellicista; come sia possibile che il popolo ebreo accetti di trasformarsi da perseguitato a persecutore; come sia possibile che il popolo palestinese affidi il proprio riscatto ai terroristi di Hamas;  come sia possibile che il popolo americano consegni le chiavi del Paese più importante del mondo nelle mani  di un pazzo-delinquente; come sia possibile che gli europei accettino supinamente di acconciarsi a una politica di belligeranza continua; come sia possibile che gli italiani mettano una pietra sul passato resistenziale per accettare di essere guidati dal fascisteggiante nulla del cosiddetto centro-destra.

La Costituzione italiana in tutta la sua filosofia etica, culturale, politica, sociale ed istituzionale, è l’esempio di come si debba correttamente coniugare l’azione dei governanti con la volontà popolare tramite una rigorosa distinzione dei poteri e il presidente della Repubblica a garantirla per gli interessi democratici del popolo.

E allora fa benissimo il Capo dello Stato a dire le verità scomode in faccia al mondo, senza indulgere al catastrofismo, ma provocando scossoni di ritorno ai principi fondamentali da porre alla base della coesistenza pacifica.  Ce n’è per tutti!

Mi sembra opportuno riportare di seguito un passaggio del discorso di Mattarella, che ha suscitato, come già successo in passato, le ire del Cremlino.

“Nel settembre del 2021 questi saloni hanno ospitato l’annuale riunione tra i Presidenti di Repubblica dell’Unione Europea senza compiti di governo.

Nel corso delle discussioni, il Presidente di allora della Finlandia – Sauli Niinisto – comunicò a quanti eravamo presenti che, considerato che il 2025 – quest’anno – sarebbe stato il cinquantesimo dalla Conferenza di Helsinki del 1975 sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa, la Finlandia avrebbe promosso una nuova Conferenza per esaminare lo stato della cooperazione nel Continente e definirne criteri di sviluppo.

Alla base di questo annuncio vi era l’orgogliosa rivendicazione della possibilità per la Finlandia di svolgere, nuovamente, questo ruolo perché neutrale.

Dopo cinque mesi, la Finlandia ha chiesto, con determinazione, di entrare nella Nato, di cui oggi fa parte.

Perché l’aggressione della Russia all’Ucraina ha cambiato la storia d’Europa.

Quel grande Paese, che tale rimane, malgrado le gravi responsabilità che la sua attuale dirigenza si è assunta di fronte alla storia, e sulla cui collaborazione avevamo nutrito ampia fiducia nell’Unione Europea, ha assunto sempre più una sconcertante configurazione volta allo scontro di potenza militare”.

Se Putin si incazzerà, tanto meglio perché vuol dire che il nostro capo dello Stato sa colpire nel segno e toccare nel vivo anche durante la “frivola” cerimonia del ventaglio.

Riporto anche le testuali dichiarazioni di Mattarella sulla situazione dei rapporti tra Israele e Palestina.

“Sul Medio Oriente è persino scontato, purtroppo, affermare che la situazione a Gaza diviene, di giorno in giorno, drammaticamente più grave e intollerabile; e speriamo che alle pause annunziate corrispondano spazi di effettivo cessate il fuoco.

Due mesi addietro, in una delle occasioni più solenni del Quirinale – l’incontro, per la nostra Festa nazionale, con gli ambasciatori che rappresentano in Italia i Paesi di ogni parte del mondo – dopo avere ricordato l’orrore del barbaro attacco di Hamas del 7 ottobre di due anni fa, con tante vittime tra inermi cittadini israeliani e con l’ignobile rapimento di ostaggi, ancora odiosamente trattenuti, ho sottolineato come sia inaccettabile il rifiuto del governo di Israele di rispettare a Gaza le norme del diritto umanitario, ricordato pochi giorni fa – appunto – da Leone XIV.

Ho aggiunto, in quell’incontro, che è disumano ridurre alla fame un’intera popolazione, dai bambini agli anziani e che è grave l’occupazione abusiva, violenta, di territori attribuiti all’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania. Ho espresso l’allarme per la semina di sofferenza e di rancore che si sta producendo, che, oltre ad essere iniqua, contrasta con ogni vera esigenza di sicurezza.

Quel che è avvenuto nelle settimane successive è ulteriormente sconvolgente. Sembra che sia stata scelta la strada della guerra continua e ovunque, dimenticando che la guerra suscita nuove schiere avverse, nuovi reclutamenti di nemici, indotti anche dal risentimento, dalla frustrazione, dalla disperazione.

L’incredibile bombardamento della Parrocchia della Sacra Famiglia a Gaza è stato definito un errore.

Da tanti secoli, da Seneca a Sant’Agostino, ci viene ricordato che “errare humanum est, perseverare diabolicum”.

Si è parlato di errori anche nell’avere sparato su ambulanze e ucciso medici e infermieri che si recavano per dar soccorso a feriti sui luoghi più tragici dello scontro, nell’aver preso a bersaglio e ucciso bambini assetati in fila per avere acqua, per l’uccisione di tante persone affamate in fila per ottenere cibo, per la distruzione di ospedali uccidendo anche bambini ricoverati per denutrizione.

È difficile, in una catena simile, vedere una involontaria ripetizione di errori e non ravvisarvi l’ostinazione a uccidere indiscriminatamente.

Una condizione raffigurata, in maniera emblematica, dal bambino ferito, accolto con sua madre in un ospedale italiano, dopo aver perduto il padre e nove fratelli – tutti bambini – nel bombardamento della sua casa”.

Non so quale sarà la reazione di Netanyahu alle chiare analisi critiche di Mattarella: probabilmente farà finta di niente. Un modo per fregarsene dei popoli anzi per proseguire nella marcia contro i popoli.

Di fronte al virtuoso comportamento del nostro presidente della Repubblica cosa diranno i protagonisti della nostrana politica del pesce in barile nonché fautori della riforma anti-costituzionale in discussione in Italia? Abbozzeranno e andranno avanti per la loro strada che porta al disastro. Mal comune mezzo gaudio!

 

 

C’era una volta Pichetto

«Non me l’aspettavo — ammette candidamente il ministro dell’ambiente, Gilberto Pichetto Fratin — perché ero abituato a un modello americano con altri presidenti, su un filone di solidarietà». Poi confessa l’inconfessabile: «Per noi probabilmente sarebbe stata più conveniente Kamala Harris, non scopro l’acqua calda oggi». Il giorno dopo l’accordo sui dazi, il ministro indicato da Forza Italia torna sull’intesa tra Stati Uniti ed Europa.

Specificando che «probabilmente era difficile fare di più. Essendo il dazio sulle esportazioni europee, è una tassa aggiuntiva che si aggiunge a un’altra, la svalutazione. Ma l’impatto sarà da valutare, per ora c’è il 15% su un comunicato stampa», spiega intervenendo in provincia di Vicenza all’evento “PiazzAsiago”. Poi torna sugli Usa: «Gli americani si dicevano orgogliosi di esser parte di un paese che ha dato la vita dei propri figli per salvare gli altri. Noi siamo stati liberati dagli americani, poi è arrivato Trump, ed è il presidente, ha il consenso degli americani, ha avuto il voto popolare, fa gli interessi degli Usa e non i nostri». (repubblica.it)

Le dichiarazioni del ministro Pichetto Fratin non sono del tutto sorprendenti: in politica non si dice (quasi) mai quello che si pensa, qualche volta succede il contrario. Una simile ammissione non può comunque passare inosservata: troppo profonda per essere sottovalutata, troppo concreta per essere accantonata, troppo formalmente autorevole per essere giubilata.

Nel mio piccolo, allorquando mi è capitato di essere in contrasto con chi capeggiava l’organismo di cui facevo parte, cercavo di chiarire la situazione e, se il contrasto rimaneva, mi ritiravo in buon ordine. Allora, se Pichetto Fratin non ha raccontato una barzelletta ed è convinto di quanto ha detto, chiarisca qual è il rapporto del governo italiano con gli Usa di Trump e, se del caso, si dimetta. Darebbe una dimostrazione personale di serietà e coerenza, lancerebbe un benefico sasso in piccionaia, comporterebbe un rigurgito di credibilità per il suo partito di provenienza che ne è piuttosto sprovvisto.

Un tempo le dimissioni si sarebbero imposte. Sul piano politico molto più giustificate di quelle del povero Sangiuliano, della sfrontata Santanché (Santa de ché?), dell’invadente ferroviere Lollobrigida e di tutti i ridicoli ministri e sottosegretari del governo Meloni.

Oggi invece non succederà proprio niente. I casi sono due: o Pichetto non conta un cazzetto oppure farà come un Gigetto qualsiasi e cioè farà marcia indietro con tanto di ritrattazione auspicata da Meloni (che magari sarà un po’incazzata) e un po’ di cenere sul capo imposta da Tajani (che non conta un cazzo).

Sia chiaro che non me ne frega niente, però… Non mi resta che riddor e bévrog sóra. Mio padre, giocando sull’equivoco tra sóra e sôra, aggiungerebbe: “Sì e frä…”.