Trump che abbaia non morde

Ammesso e non concesso che Donald Trump abbia in testa una strategia al di là dell’indubbia e straripante megalomania, la si può intuire contenuta nel suo abbaiare contro la Cina.

La Nato, per dirla con papa Francesco, continua, direttamente e indirettamente, ad abbaiare alle porte della Russia. Il papa usando questo termine ha centrato in pieno la questione: mi risulta che i cani abbaino più per paura che per aggressività ed infatti un po’ tutti i protagonisti del panorama internazionale reagiscono alla paura preparandosi alla guerra, senza capire che lo schema di guerra non può che incutere paura, che paura chiama paura, che un clima di reciproca paura non può rimanere freddamente nervoso ma porta inevitabilmente alla bollente e interminabile guerra.  Un gatto con gli anfibi che si morde la coda.

Trump ha cambiato l’indirizzo, ma non lo stile: si tratta di un’abbaiata globale che potrebbe avere sviluppi impensabilmente tragici se non apocalittici. La Cina fa paura e costituisce per Trump una vera e propria ossessione e tutte le sue mosse possono essere ricondotte a questo infernale quadro imperialista-bellicista.

Della pace in Ucraina a Trump non frega niente, gli interessa soltanto togliere la Russia dalla sfera di influenza cinese, offrendo ad essa una buona via d’uscita assieme a buone prospettive di collaborazioni economiche: l’Ucraina pacificata a suon di sfruttamento bilaterale. Tre piccioni con una fava: tacitare in qualche modo le “pretese” di uno strapazzato Zelensky; accontentare il più possibile le mire zariste del compagno Putin; impostare una inesorabile ripartizione delle merende nell’ambito della relazione pragmatica con la Russia.

L’unione europea è vista come il fumo negli occhi, ma l’importante è impedire ad essa ogni e qualsiasi patto significativo di collaborazione con la Cina. Giorgia Meloni sta facendo al riguardo la parte dell’utile idiota.

I dazi sono uno strumento, non il più importante, di disturbo verso la Cina, più un avvertimento che un atto ostile. Tutto viene pensato e deciso per ricuperare il ruolo dominate degli Usa ai danni del crescente ed esorbitante potere della Cina a livello mondiale.

Questa strategia trumpiana trova però diverse controindicazioni che la rendono politicamente piuttosto semplicistica e velleitaria oltre che inaccettabile dal punto di vista etico.

Innanzitutto Putin è più intelligente e furbo di lui e sta cavalcando la situazione, alzando il prezzo di eventuali accordi man mano che si vengono approssimativamente delineando: un tira e molla senza capo né coda.

Quanto all’Europa, è vero che non ha una strategia comune e si trova spiazzata dagli attacchi americani, però ricordiamoci che ha molta più cultura e storia degli Usa e alla lunga questi elementi contano più della potenza economica e militare. Trump non si illuda quindi di fare un sol boccone dell’Ue, di imprigionarla nella Nato, di paralizzarne la vita economica e di chiuderle gli sbocchi internazionali.

La Cina ha peraltro una visione imperialista molto più aperta, moderna e articolata del mero protezionismo che connota l’attuale imperialismo americano: i rapporti col mondo cinese sono quindi molto complessi e vanno ben al di là delle sbruffonate trumpiane.

Oltre tutto è da tempo in atto un autentico rimescolamento delle carte imperialiste e le somiglianze, seppure invertite, rendono totalmente anacronistica la contrapposizione tra le super-potenze sul piano della democrazia e del rispetto del progresso civile. La Cina gioca da tempo a fare il verso al capitalismo più spietato, mentre gli Usa fanno la parodia alla democrazia politica. Gli estremi si toccano. Persino lo stile diplomatico delle due potenze si è invertito: alla moderazione cinese fa riscontro l’aggressività americana.

Che differenza fa la clamorosa rimozione di un anziano timido dissidente durante un congresso del partito cinese (preso e letteralmente portato fuori dalla sala) e il minacciato drastico licenziamento del capo della Federal Reserve Jerome Powell, colpevole di essersi permesso di rivendicare e difendere il proprio ruolo istituzionale?  La democrazia è diventato un optional, è proprio il caso di riaffermare che tutto il mondo è paese.

Tutto ciò rende quasi ridicole le velleitarie intenzioni americane così come gli opportunistici appoggi occidentali a paradossali salti nel buio mondiale.

 

 

 

Un conclave senza chiave e intra omnes

La morte di papa Francesco ha inevitabilmente aperto un certo dibattito sul futuro conclave anziché creare i presupposti per una forte presa di coscienza critica sulla situazione ecclesiale in tutti i suoi aspetti. Da una parte è scattata come una molla la sacrosanta ammirazione per un papato tutto da scoprire, dall’altra la gossipara previsione in chiave politica del dopo Bergoglio, fino ad arrivare al toto-conclave imbastito sulle fazioni cardinalizie in campo. Il tutto rischia di rientrare in un battage mediatico esterno e nella solita impenetrabile liturgia gerarco-clericale all’interno. Occorre perciò sforzarsi di trasformare questo passaggio vitale per la Chiesa in un momento di consapevole crescita di tutto il Popolo di Dio.

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Innanzitutto è auspicabile che, anche per merito delle innegabili novità introdotte dall’impostazione pastorale di Bergoglio, possa essere, almeno in parte, superata la visione unilaterale e verticistica del “papacentrismo”: la Chiesa Cattolica è una comunità ed al suo interno esistono carismi (servizi) fra i quali c’è anche quello del Vescovo di Roma. A tutti i livelli, la Chiesa deve esprimere, all’interno e all’esterno, la piena e totale adesione allo stile evangelico, liberata dalle incrostazioni della tradizione e dai lacci dell’esercizio del potere. Quindi la procedura della scelta e l’impostazione dell’alta funzione papale devono essere rivisti sostanzialmente e formalmente in un bagno di partecipazione e condivisione coinvolgente: bisognerebbe partire dall’assoluto primato della dimensione  pastorale rispetto a quella istituzionale; al centro dello stile ecclesiale si dovrebbe porre la collegialità episcopale; la vita dell’istituzione e la stessa pastorale andrebbero sclericalizzate, liberate dall’affarismo, ridotte all’essenziale in senso economico ed organizzativo e subordinate alle esigenze evangeliche; occorrerebbe puntare al forte coinvolgimento del laicato ed alla imprescindibile valorizzazione della presenza femminile. Molto è stato fatto in questi dodici anni, ma molto resta ancora da fare.

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Nonostante l’impegno instancabile profuso da papa Francesco rimane la difficoltà della Chiesa nel leggere i segni dei tempi e nell’andare incontro ai problemi dell’uomo, della donna, della società, del mondo. Non basta un papa aperto per superare il dramma di una Chiesa che si piange addosso, che si guarda l’ombelico, che arranca rispetto alle sfide del mondo contemporaneo, che si rifugia nello sterile dogmatismo e nel penoso rigorismo, che si limita a rammaricarsi della scarsità degli operai nella vigna e della propria appassita capacità all’impegno evangelico, che vive spesso di campanilismo ecclesiale o di retrograda contrapposizione alla modernità, che non rispetta la laicità dello Stato, che si compromette col potere, che difende ipocritamente la vita con i principi irrinunciabili senza condividere i drammi delle persone.

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Occorre proseguire nel raccogliere le provocazioni del Concilio Vaticano II per andare anche oltre: la collegialità vissuta come partecipazione di tutti, la centralità del Popolo di Dio, l’apertura al ruolo della donna nella pastorale e nei sacramenti, una visione nuova e gioiosa della sessualità nel rispetto delle tendenze personali e intime e, soprattutto, una Chiesa povera, trasparente a livello economico, esperta in comprensione, quella di Gesù, e non in condanne e anatemi. Su questi temi papa Francesco è stato molto ficcante in materia di povertà, misericordia e superamento del clima di caccia alle streghe; non altrettanto sulla piena valorizzazione del ruolo della donna e soprattutto per quanto concerne la sessualità.

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Non si può evitare di toccare gli aspetti più scabrosi della vita della Chiesa che risalgono al rapporto tra magistero ecclesiale e sfera della sessualità con assurdi imbarazzi e storici pregiudizi: dalla colpevolizzazione della masturbazione a livello adolescenziale alla esorcizzazione dei rapporti pre-matrimoniali, dalla condanna del divorzio con la conseguente emarginazione sacramentale dei divorziati, alla demonizzazione dell’aborto sempre e comunque, dal rifiuto aprioristico del controllo delle nascite a quello paradossale  dell’uso del preservativo anti-aids, dalla sottovalutazione delle unioni di fatto, dalla testarda difesa del celibato sacerdotale alla visione formalistica e statica del concetto di castità. Parecchi Padri della Chiesa aborrivano la sessualità, ne erano inorriditi e terrorizzati. L’atto sessuale era follemente bollato nella sua esecrabile impurità, la riproduzione doveva avvenire senza provare alcun piacere, come atto razionale e scevro da ogni passionalità. Una storia simile spiega molte delle gravi devianze, anche attuali, da parte di uomini di Chiesa. Sessuofobia fa rima con sessuomania e con viziosa omosessualità, purtroppo di casa in Vaticano e ambienti collegati. La pur minore ostilità dimostrata da papa Francesco verso l’omosessualità non fa totale giustizia di quella dichiarata e vissuta in una tensione sentimentale finendo col lasciare spazio alla sporca indulgenza verso l’omosessualità dell’intrigo e del favoritismo mercenario. Occorre quindi ripartire da un concetto aperto della sessualità vissuta come dono di Dio, come espressione di amore e dono, come talento da impiegare al meglio secondo coscienza. Basta con gli assurdi e vessatori codici di comportamento!

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In estrema sintesi si è aperto un frettoloso e semplicistico dibattito in base alla schematica contrapposizione tra continuismo e indietrismo. L’impostazione data da Bergoglio verrà proseguita e magari migliorata almeno nelle sue linee fondamentali oppure si tenderà a voltare pagina secondo lo sbrigativo detto del “morto un papa se ne fa un altro”? La configurazione del Sacro Collegio è stata ben implementata, articolata ed equilibrata da papa Francesco e dovrebbe essere tale da escludere colpi di coda reazionari, anche se certe tentazioni sono sempre in agguato e le velleità conservatrici pronte a cavalcare ogni e qualsiasi momento di incertezza.  Certe scelte di campo, come stare sempre e concretamente dalla parte dei poveri, difendere coraggiosamente i diritti dei migranti, lavorare radicalmente in favore della pace e contro ogni e qualsiasi guerra, favorire il dialogo ecumenico e inter-religioso, concepire una Chiesa aperta ai problemi della persona e pronta a schierarsi in sua difesa a livello individuale e sociale, appaiono consacrate dalla teoria delle encicliche e dalla prassi ecclesiale, ormai irreversibili e così forti da escludere la loro messa in discussione. Le correnti di pensiero possono anche essere positive purché non siano, come succede spesso in politica, un modo elegante per coprire manovre ed assetti di potere. L’azione dello Spirito Santo dovrebbe consistere proprio nell’evitare che i signori cardinali mandino in soffitta i testi evangelici e si lascino guidare dai manuali della curia vaticana.

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La forte presa di coscienza ed il coraggio del dialogo interno ed esterno dovrebbero essere il miglior viatico per un conclave che, al di là della teatrale liturgia, sappia promuovere un rinnovamento di metodo e di merito. La Chiesa ha bisogno di evolvere e la scelta del nuovo Papa deve esserne un’occasione importante. Non basta pregare e tacere. Credere e obbedire. Ogni cristiano ed ogni comunità deve portare il proprio contributo critico alla vita della Chiesa. All’attesa si devono accompagnare la riflessione, la provocazione, la protesta, la proposta, l’impegno, la testimonianza, la condivisione.

 

 

Il passaggio dalla vigliaccheria al coraggio

Mi sento in dovere di dedicare un commento all’evento degli eventi, vale a dire la Passione e morte di Gesù, mischiando, forse impropriamente, laicità e religiosità in una franca revisione di vita personale.

Recentemente un mio caro amico mi ha chiesto, con provocatoria stima, a quale personaggio del Vangelo mi sento più vicino e somigliante.

Dopo attenta riflessione ho risposto Nicodemo: un intellettuale vigliacchetto in assoluta buona fede, amico segreto di Gesù, in cerca di verità, che ha il buon senso di difendere Gesù davanti al sinedrio chiedendo che prima di condannarlo sentissero le sue ragioni, quelle che lui aveva ascoltato negli incontri notturni (In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio”), ma non ci va fino in fondo (è qui la mia somiglianza…), ha però il coraggio di partecipare alla deposizione e sepoltura del corpo di Gesù.

Gli elementi di somiglianza sono sostanzialmente due: l’ansia della ricerca della verità e la… vigliaccheria.

Sul primo non mi soffermo anche perché è abbastanza trasparente il mio impegno di approfondimento, peraltro un po’ troppo asetticamente intellettualoide, sulla parola di Dio e sul messaggio evangelico in particolare.

Il Venerdì Santo, ad esempio, mi sono sempre concentrato sulla celebrazione liturgica della Passione che è cosa ben diversa dalla Via Crucis: la prima punta in modo austero e profondo sul racconto evangelico per farlo seguire dalla stupenda preghiera universale, dall’adorazione della Croce e dalla Comunione eucaristica; la seconda è una “spettacolarizzazione” della Passione, che, al di là del rispetto delle tradizioni popolari e dei contenuti delle meditazioni (a volte troppo sofisticate), ne enfatizza l’aspetto oserei dire mediatico, rischiando di ridurla a una versione da favola, che oltre tutto non finisce con i cristiani che vissero insieme felici e contenti. Non viviamo insieme: ognuno va egoisticamente per la sua strada! Non viviamo felici: siamo tristi al limite della disperazione! Non viviamo contenti: siamo insoddisfatti, ci manca sempre qualcosa! Grava su di noi il macigno della sofferenza.

Sul secondo aspetto, quello della “vigliaccheria”, parto da una considerazione di carattere generale su (quasi) tutti gli interlocutori di Gesù: per essi il dato comune e fondamentale è proprio la vigliaccheria. Se escludiamo le donne, vale a dire Maria, la Maddalena, le parenti, le amiche, finanche la moglie di Pilato, tutti sono più o meno dei vigliacchi, che scantonano nei momenti fondamentali. All’acme dei farisei, dei dottori della legge, degli scribi e dei sinedriti fa riscontro il piattume degli amici, dei curiosi finanche dei beneficiati.

Persino Giovanni Battista, pur nella dedizione totale alla causa fino allo spargimento del sangue, ha i suoi dubbi sulla messianicità di Gesù e infatti non lo segue, non diventa suo discepolo: questa titubanza viene giustificata considerando il precursore come uomo-testimone del passaggio fra antico e nuovo testamento. Fatto sta che forse assomigliava più a suo padre Zaccaria, il quale razzola male e parla benissimo a cosa fatte, che a sua madre Elisabetta, la quale, come Maria, crede subito e fino in fondo, prima di vedere i miracoli e tutto quel che segue.

Nicodemo ne è l’esempio più sotterraneo, ma non per questo meno colpevole. Non ha il coraggio di andarci fino in fondo, tentenna, ha paura di compromettersi, vuole salvare capra e cavoli, etc. etc. Solo dopo la morte di Gesù ha un coraggioso gesto di pietà: un po’ tardi direi…

La mia mancanza di coerenza, di perseveranza, di dedizione totale mi rendono molto simile a Nicodemo: della serie “cristiano sì, ma non troppo”. Il cristianesimo non è un fatto intellettuale, ma una vita spesa per gli altri.

Mi permetto di fare degli esempi: come si concilia la generosità con la previdenza; come mettere insieme le cose di lassù con quelle di quaggiù se non ponendo tutto a disposizione di tutti; come si può essere inflessibili con gli altri e indulgenti con se stessi; come considerare la vita alla stregua di un servizio gratuito per poi badare al proprio tornaconto individuale.

Quando si afferma che Gesù lo abbiamo inchiodato alla croce con i nostri peccati, si può intendere proprio questo: non siamo meglio di Caifa, di Giuda, di Pilato, degli apostoli, etc. etc.

Nicodemo a parte, si tratta di un’utile, implacabile auto-critica: molto attento, persino talora scrupoloso, al rispetto della pratica religiosa, poco dedito a tradurre la fede nella concretezza dell’esistenza quotidiana. In poche parole, molta teoria formale e poca prassi sostanziale.

Il Padre Eterno non sarà così intransigente!? Lo spero perché altrimenti sarei spacciato.

E poi, dopo la Passione e la Morte, a cui ci siamo abituati, è arrivata la Risurrezione: qui al rischio della vigliaccheria si sostituisce quello della oltranzistica razionalità. Nel mio accidentato percorso di fede tendo a capovolgere la Pasqua, giustificando la Risurrezione con la Passione e la Morte: della serie una simile fine per Gesù, che sciorinava e comunicava continuamente parole di vita eterna, era ed è impossibile a credersi più della Risurrezione.

È più colossale la beffa del nulla oltre la morte che la fiducia nel tutto prima della morte, assieme alla morte e dopo la morte.

 

Le fiches di Bergoglio alla roulette evangelica

Era stato tanto l’entusiasmo con cui avevo accolto l’elezione di papa Francesco, tanta l’aspettativa innovatrice che si era creata in me, da rimanere poi talora deluso.

La spiegazione è sintetizzabile nell’esclusiva puntata di Bergoglio sullo spirito evangelico a scapito del rinnovamento strutturale. La delusione dipendeva peraltro anche da un mio relativo errore, tendente a prescindere dal fatto che alla Chiesa non sono applicabili criteri di carattere politico. Se infatti discutibile è impostare e giudicare l’azione politica sull’andamento del PIL (prodotto interno lordo), immaginiamoci pensare di valutare l’azione pastorale di un papa sul PVN (prodotto vaticano netto).

Dei predecessori di papa Francesco ho una mia originale idea riguardo al loro atteggiamento verso la Curia e gli intrighi vaticani: Paolo VI soffriva, si macerava e poi si arrendeva all’impossibilità del cambiamento; Giovanni Paolo I somatizzò il dramma al punto da morirne in pochi giorni; Giovanni Paolo II se ne fregò altamente, andò per la sua strada, si illuse di cavare anche un po’ di sangue dalle rape; Benedetto XVI ci rimase dentro alla grande e gettò opportunamente la spugna.

Papa Francesco ha puntato tutte le sue fiches sul Vangelo e sulla coscienza delle persone: a giudicare dalle reazioni della gente comune alla sua morte si può pensare che abbia centrato l’obiettivo. Mentre le solite, scontate sbrodolate politiche lasciano il tempo che trovano, mentre le  preconfezionate risonanze mediatiche sono elogiativamente fuorvianti, mentre le gerarchie cattoliche ovattano i contrasti pur esistenti e piuttosto trasparenti per mero amor di conservazione del potere, i commenti a caldo della base di credenti e non credenti lasciano intravedere una profonda sintonia  che non mancherà di lasciare il segno nei cuori e negli animi: la scelta in favore dei poveri, la proclamazione della oltranzistica misericordia divina, la radicale e inesauribile spinta verso la pace hanno fatto breccia nella gente, facendo di papa Francesco l’unico punto di riferimento credibile a livello popolare e mondiale.

La reazione non è stata connotata dal fanatismo del “santo subito” come avvenne per papa Woytila, né dal rigurgito identitario come dopo la morte di papa Ratzinger, ma da un semplice quanto profondo senso di assonanza col papa forse più umano e sensibile della storia.

E la Chiesa-istituzione dove andrà: restano aperti molti fronti problematici, che sono stati a volte solo sfiorati dal pontificato francescano. Prevarrà evangelicamente e finalmente la Chiesa-comunità? Lo Spirito Santo arriverà in tempo utile o sarà spiazzato dai signori cardinali?

Quando constato come tanti papi siano diventati o stiano diventando Santi, mi viene qualche dubbio. Pur con tutto il rispetto, temo che nell’aldilà troveremo parecchie novità, riguardo alla nostra vita e a quella della Chiesa. Di Francesco sugli altari c’è già quello d’Assisi, ragion per cui tendo a non mettere Francesco nel calendario, ma a piazzarlo vicino a me e al cuore della gente che se ne frega altamente degli altari e desidererebbe tanto scoprire gli altarini.

Papa Francesco esortava sempre tutti a pregare per lui: non era il solito modo bigotto di scantonare dalla concretezza dei problemi, ma un modo di chiedere aiuto a chi crede e di intrecciare rapporti con tutti, partendo dalla consapevolezza dei propri limiti e difetti.

Il cardinale Carlo Maria Martini nell’ultimo colloquio avuto con Eugenio Scalfari, giornalista scrittore ed amico, gli promise che avrebbe pregato per lui, al che Scalfari, non credente, rispose che avrebbe pensato all’amico morente intendendo esprimergli così la sua vicinanza. Il cardinale lo fulminò positivamente con una secca, stupenda, dolce e provocatoria battuta: «È la stessa cosa!».

Papa Francesco pregherà per noi tutti e, sono sicuro che in tanti continueranno a pregare con lui o, quanto meno, lo ricorderanno con enorme e fattiva gratitudine.

 

La narrazione diegetica e le dissidenze incarnate

Ero un bambino, in quell’età in cui si sommergono i genitori con strani e imbarazzanti quesiti. «Papà, cos’è la filosofia?» chiesi un giorno a mio padre, senza girarci intorno e senza rendermi conto dell’enormità culturale del quesito che stavo ponendo. Forse sbagliai addirittura e la chiamai “fisolofia”.

Lui avrebbe potuto tranquillamente cavarsela, rinviandomi a data da destinarsi o indirizzandomi al mio maestro. Invece provò a rispondermi aiutandosi paradossalmente con il dialetto: «Vèddot cla matita chi? Ela ‘na matita o sèmmia nuätor ca la vedda acsì? Còssta l’é la filozofiä…». In quel momento mi bastò. Progredendo negli studi, anche per merito suo che me lo consentì economicamente e socialmente, ho scoperto progressivamente che mio padre aveva usato l’approccio filosofico risalente al “mito della caverna” di Platone ed alla distinzione tra “fenomeno e noumeno” proposta dal filosofo tedesco Immanuel Kant: c’è differenza  tra il come una cosa ci appare e come realmente è in sé stessa; nel nostro modo di percepire non siamo in grado di raggiungere la realtà in sé stessa, ma sempre e solo di coglierla nel suo apparire. Quella che noi percepiamo non è la realtà vera e propria, ma solo un suo riflesso, costruito partendo dal nostro sistema di conoscenze.

Non ho mai capito e mai capirò se mio padre avesse leggiucchiato Platone e/o Kant o qualche commento sul loro pensiero filosofico. Propendo per una libera e paradossale intuizione tutta sua. Intelligenza ed erudizione non vanno di pari passo. Cultura? Non vuol dire sapere tante cose, ma usare ciò che si sa per porsi al meglio di fronte alla realtà. In questo senso mio padre era un uomo di cultura. Sono sicuro che mi frenerebbe con la sua sincera modestia: «Veh, lasa lì äd dìr dil stupidädi…».

Ho voluto partire da questo ricordo per alludere al problema della narrazione della situazione internazionale con cui facciamo i conti e che è molto parziale e, per certi versi, fuorviante. Tutta la storia è sempre stata narrata attraverso le gesta dei personaggi: un limite che attualmente ci sta affliggendo ancor più, considerato il fatto che oltre tutto mancano i grandi personaggi e quindi siamo costretti a confrontarci con una narrazione estremamente superficiale, semplicistica, opportunistica, incompleta e faziosa.

Vengo al dunque: non sembra forse che tutti gli israeliani siano d’accordo con la delinquenziale politica di Netanyahu, che tutti i russi siano culturalmente implicati nel regime putiniano, che tutti gli americani pendano dalle labbra di Trump, che tutti i cinesi siano coinvolti nel vigente, imperante e paradossale comunismo capitalista o capitalismo comunista e persino che tutti gli ucraini siano allineati e scoperti dietro Zelensky?

Il minimo comune denominatore di questa narrazione è la propensione alla guerra: guerra zarista di aggressione nel caso della Russia; guerra di vendetta nel caso di Israele; guerra protezionista nel caso di Trump; guerra imperialista nel caso della Cina; guerra resistenziale nel caso dell’Ucraina.

Probabilmente non è proprio così. Faccio di seguito alcuni esempi prendendo le mosse da alcune notizie che vengono riportate con scarsa evidenza, soltanto da alcuni organi di stampa e che non incidono sull’opinione pubblica rigidamente bloccata sulla narrazione corrente.

Gli ultimi sono stati duecento ex ufficiali di polizia. Almeno fino ad ora, perché la mobilitazione cresce di ora in ora. Uno dopo l’altro, migliaia di riservisti delle forze di sicurezza israeliane – in maggioranza pensionati ma anche in servizio attivo – si stanno unendo al grido della società per la fine della guerra a Gaza. O, meglio, come recita la formula scritta e pubblicata in ebraico e in inglese, per un accordo che riporti a casa i 59 ostaggi ancora nelle mani di Hamas «anche se ciò significa mettere fine al conflitto». (“Avvenire” – Lucia Capuzzi)

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Ieri decine di gruppi sindacali, ambientalisti e pro-immigrati (insieme a sigle abortiste) ci hanno provato di nuovo, nella speranza che gli americani che non hanno reagito agli attacchi alla magistratura o alla sospensione degli aiuti umanitari internazionali fossero spinti a sfilare dal crollo della Borsa e dalla paura di una recessione. Forse, si sono detti, il torpore nel quale il pubblico statunitense sta assistendo alla concentrazione di potere nelle mani del presidente sarebbe stato scosso dalle conseguenze delle guerre commerciali dichiarate da Trump. In realtà i risultati non sono stati impressionanti. I cortei sono stati tanti, coinvolgendo più di 1.000 città e quasi mezzo milione di persone, ma la maggior parte non ha superato i 100 partecipanti. (“Avvenire” – Elena Molinari)

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In America, come in Italia, l’unica opposizione a Trump è la Magistratura. Il giudice federale James Boasberg ha riconosciuto la sussistenza degli elementi per ritenere l’Amministrazione Trump colpevole di oltraggio alla corte per aver deliberatamente disobbedito al suo ordine di sospendere immediatamente le espulsioni degli immigrati illegali ai sensi dell’Alien Enemies Act, la legge di fine ‘700 raramente utilizzata.  L’ordinanza del giudice Boasberg offre all’Amministrazione un’ultima opportunità di conformarsi, ma afferma che altrimenti adotterà misure per identificare le persone specifiche che hanno violato la sua sentenza del 15 marzo, successivamente revocata dalla Corte Suprema, per deferirle all’autorità giudiziaria. (Dagospia – LaPresse)

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“Vogliamo che lo sentano tutti: questa non è la nostra guerra. Questo non è il nostro governo. Vogliamo vedere l’Ucraina recuperare i propri territori e i prigionieri politici uscire dal carcere”. Il dissidente russo Vladimir Kara-Murza è accerchiato dalla folla. Stringe le mani alla gente, parla con i giornalisti, autografa libri. Fino a qualche mese fa era rinchiuso in un carcere di massima sicurezza dove stava scontando una pena di 25 anni con l’accusa di alto tradimento per aver contestato l’invasione russa dell’Ucraina. Oggi è libero, grazie al maxi scambio di prigionieri avvenuto nell’agosto scorso tra Russia e Occidente. Ed è tornato a guidare i cortei di protesta, come faceva a Mosca in un passato che sembra lontanissimo.

Oggi si sono riunite migliaia di persone per dire di no alla guerra, no alla dittatura di Putin, no ai crimini di guerra che questo dittatore sta compiendo in Ucraina a nome del nostro Paese. La propaganda russa vuol far credere che tutti sostengono questa aggressione, e che tutti i cittadini russi sono a favore di questo regime. Cercano di dimostrarlo con i risultati di quelle che loro chiamano elezioni, e mostrando sondaggi che non hanno alcun valore sotto una dittatura. Sa, ci si può inventare qualsiasi risultato elettorale, si possono inventare gli esiti dei sondaggi, ma non ci si può inventare quello che abbiamo visto oggi: migliaia e migliaia di persone scese in strada qui a Berlino per dire no alla guerra, no al regime di Putin. (LIFEGATE/DAILY – da Berlino – Lucia Bellinello)

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Negli ultimi giorni, il dibattito sulla natura democratica dell’Ucraina si è riacceso dopo le polemiche internazionali scatenate da Trump che ha definito Zelensky un “dittatore”. Vi è una questione su cui riflettere.

Infatti il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, pur essendo stato eletto democraticamente, guida oggi una nazione in cui sono stati messi fuori legge i partiti di opposizione. Per “legami con la Russia”. E in più ha fatto scalpore l’arresto di esponenti politici, come il deputato di maggioranza Oleksandr Dubinsky, anch’egli eletto democraticamente, ma detenuto con l’accusa di “disinformazione”.

Eppure il portavoce della Commissione Europea, Stefan de Keersmaecker, ha recentemente dichiarato che l’Ucraina è una “democrazia”, mentre la Russia di Putin non lo è. La sua affermazione è stata una risposta alle parole dell’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.

L’Unione Europea non ha però preso posizione sulla messa al bando dei partiti di opposizione in Ucraina, un atto che in altri contesti sarebbe stato oggetto di condanna internazionale.

La dichiarazione della Commissione Europea non affronta in buona sostanza la questione delle restrizioni alla libertà politica all’interno dell’Ucraina in guerra.

É giusto che in guerra l’opposizione venga messa fuorilegge?

La domanda cruciale oggi in Ucraina pertanto è: può un Paese essere definito pienamente “democratico” se in tempo di guerra reprime l’opposizione parlamentare e la mette fuorilegge? (PeaceLink – Alessandro Marescotti)

 

Torno a mio padre, da cui sono partito e ai pulpiti da cui mi impartiva le sue lezioni di vita: i più improbabili, i più strani ma forse i più credibili. “Da che pulpito viene la predica” si è soliti dire per screditare l’imbonitore di turno e Dio sa quanti imbonitori esistano anche oggi nella cosiddetta era mediatica. Nel mio caso, o meglio nel caso di mio padre, uno dei pulpiti era il teatro lirico.

Era un loggionista sui generis e con lui ho scandagliato il loggione di Parma, facendomi un’idea positiva, ma assai critica, di questo “fenomeno socio-culturale” parmense.

Mio padre rifiutava le ostentazioni, le presunzioni, le esternazioni volgari: andava al sodo. Molto spesso mi invitava a non farmi impressionare dai giudizi gridati, ad ascoltare e giudicare con le mie orecchie, a non cadere nella trappola del conformismo o dell’anticonformismo, ad avere un giusto senso di umiltà nel giudicare chi fa musica e chi canta, partendo dal convincimento che non si tratta degli ultimi arrivati.

Gli piaceva il clima del loggione e francamente piaceva anche a me: un ambiente attento alla sostanza dello spettacolo, molto reattivo e sanguigno. Ma non per questo ne condivideva le intemperanze gratuite e le sparate esibizionistiche.

Ebbene il discorso valeva e vale a trecentosessanta gradi. Allarghiamo il teatro da luogo di pubblico spettacolo a sede della vita: in fin dei conti, per dirla con Luigi Pirandello, non c’è poi una grande differenza.

Non fermiamoci alle apparenze, anche quelle autorevolmente e insistentemente fornite nel contesto di una narrazione sostanzialmente anti-democratica in quanto chiusa alle voci del dissenso e dell’opposizione. Proviamo a scalfire la scorza sotto la quale la realtà è almeno in parte sicuramente diversa da quella che si vuol far credere. È anche un modo per uscire dal paralizzante scetticismo che ci opprime e aprirci a qualche ossigenante speranza.

 

 

 

 

 

Le bancarotte dell’umanità

Circa 3.500 bambine, bambini e adolescenti sono morti o scomparsi nel tentativo di attraversare la rotta migratoria del Mediterraneo centrale verso l’Italia negli ultimi 10 anni, secondo le stime più recenti dell’Unicef. È come se, per un decennio, ogni giorno un bambino avesse perso la vita. Circa sette bambini su dieci affrontano questo viaggio senza un genitore o un tutore legale, il che significa che la maggior parte delle persone minorenni morte o scomparse lungo questa rotta stava viaggiando da sola. I loro viaggi possono essere particolarmente drammatici: secondo i dati raccolti da interviste, oltre la metà delle/dei bambine/i, adolescenti e giovani ha riferito di aver subito violenza fisica, e un terzo di essere stato trattenuto contro la propria volontà.

Molti dei bambini che cercano di attraversare il Mediterraneo centrale, evidenzia l’Unicef, fuggono da guerre, conflitti, violenze e povertà, cause che continuano ad alimentare la migrazione forzata e a spingerli a cercare sicurezza e opportunità altrove. «Dieci anni fa, un naufragio al largo delle coste italiane causò la morte di oltre 1.000 persone e sconvolse l’intera regione – ha dichiarato Regina De Dominicis, direttrice regionale dell’Unicef per l’Europa e l’Asia centrale e coordinatrice speciale per la risposta a rifugiati e migranti in Europa -. I Governi devono proteggere i diritti e il superiore interesse di bambine e bambini, in linea con i loro obblighi previsti dalle leggi nazionali e internazionali». Negli ultimi 10 anni, ricorda l’Unicef, almeno 20.803 persone sono morte o scomparse nel Mediterraneo centrale. Molti naufragi lungo questa pericolosa rotta migratoria dal Nord Africa non lasciano sopravvissuti o non vengono registrati, rendendo il numero reale di morti o dispersi praticamente impossibile da verificare, e probabilmente molto più alto. (da “Avvenire”)

Non so cosa potremo rispondere al Padre Eterno quando ci chiamerà a rendere conto di questi mastodontici peccati di omissione (quelli che personalmente mi preoccupano di più).

Ma restiamo coi piedi per terra o meglio in mare, dove andiamo a nuotare, a divertirci, a curare la nostra salute. Possibile che non si riesca a fare niente per fermare questa carneficina? Non so fin dove si tratti di rassegnazione o di menefreghismo, forse due facce della stessa medaglia.

«Cosa succede al mondo di oggi che, quando avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarla, ma, quando avviene la bancarotta dell’umanità del dramma dei migranti, dei rifugiati e degli sfollati, non c’è quasi una millesima parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto? E così il Mediterraneo è diventato un cimitero e non solo il Mediterraneo…» ((Papa Francesco, discorso del 05 novembre 2016 ai Movimenti Popolari).

Viviamo in un clima di guerra: si è aggiunta quella dei dazi. E pretendiamo che chi soffre per conflitti, violenze e povertà, se ne stia buono e muoia a casa propria senza venirci a disturbare. E se raggiunge il nostro Paese dopo enormi traversie, ci arroghiamo il diritto di rispedirlo, con procedure più o meno drastiche, nell’inferno da cui è fuggito. Nessuno li vuole accogliere. Tutti li scansano e li sballottano di qua e di là, come se fossero dei rifiuti da far sparire. Mia madre usava al riguardo un’espressione colorita: “Cme i rosp al sasädi”.

«Respingere i migranti è un atto di guerra» (Papa Francesco).

E la nostra cultura, la nostra arte, le nostre tradizioni, la nostra religione, il nostro modo di vivere, la nostra cittadinanza dove andranno a finire? Abbiamo il diritto di difenderci da queste invasioni! Occupiamoci dei nostri poveri e dei nostri problemi: ne abbiamo anche troppi…

«Perdonate l’indifferenza di chi teme i cambiamenti di vita e di mentalità che la vostra presenza richiede. Trattati come un peso, un problema, un costo, siete invece un dono. Siete il ponte che unisce popoli lontani e religioni diverse» (papa Francesco ai migranti per il 35esimo anniversario del Centro Astalli).

Non scandalizziamoci se Giuda ha tradito Gesù: lui poteva avere delle attenuanti psico-sociologiche e politiche. Noi a distanza di duemila anni siamo rimasti ai trenta denari e ce li teniamo ben stretti. Lui ha avuto il coraggio disperato di impiccarsi, noi affoghiamo i bambini come si fa coi gattini ciechi e poi ci laviamo la coscienza allargando le braccia e chiudendo le mani.

Mio padre diceva sarcasticamente che “i puten jen bej e simpatic a ca’ ‘d chietor”. Noi li preferiamo addirittura affogati in mare.

 

 

 

 

L’incontro alla Casa Nera

“L’Italia può essere il miglior alleato degli Stati Uniti se Meloni resta premier”, ha detto Trump. 

So benissimo che non è giusto isolare una frase dal contesto di quanto è stato detto in un incontro, che oltre tutto ha affrontato diversi argomenti. Tuttavia questa affermazione mi ha colpito e sconcertato.

Pur non essendo pregiudizialmente un filo-americano ho sempre considerato questo Paese come un punto di riferimento, nel bene e nel male, per la democrazia, così come l’alleanza dell’Italia con gli Usa un elemento storicamente irrinunciabile nei rapporti internazionali pur con tutti i sacrosanti diritti di critica e le necessarie prese di distanza.

Essere amici non vuol dire essere sempre e comunque d’accordo su tutto e per tutto: il bello dell’amicizia è proprio la reciproca possibilità di discutere e dissentire nella massima lealtà e correttezza.

Mi è pertanto arrivata come un pugno nello stomaco la esplicita subordinazione dell’alleanza alla presenza e alla permanenza di Giorgia Meloni a livello di premierato italiano. Dal momento che non mi sento affatto omogeneo ideologicamente e politicamente con lei, devo dedurne che non posso considerarmi amico degli Usa? Se volessi ribaltare il discorso dovrei cambiare drasticamente il mio sentimento verso gli Usa dal momento che considero il suo attuale presidente come un personaggio inqualificabile in libera uscita.

Che senso ha condizionare i rapporti di amicizia fra gi Stati alle qualità (?) dei loro governanti? Non dovrebbero prevalere l’amicizia fra i popoli e la storia delle relazioni internazionali? Dove vuol parare Trump con queste autentiche cazzate diplomatiche? Vuol forse fornire un assist a Giorgia Meloni per l’introduzione del suo premierato, che diventerebbe oltre che un obbrobrio istituzionale, una scellerata opzione ideologica con tanto di placet americano?

Mentre Trump deve capire che tra amici veri non sono ammesse subdole intromissioni, Meloni deve mettersi in testa che non è andata in visita ufficiale negli Usa come leader di Fratelli d’Italia, ma come Presidente del Consiglio. Per la verità tutto l’incontro stando ai comunicati e alle dichiarazioni è stato permeato da improprie reciproche concessioni: un incontro fra amici che si strizzano l’occhio.

Stupisce l’opportunismo dilagante che ha visto nell’evento un successo per Meloni e per l’Italia. Sarò prevenuto, ma io ho visto soltanto prove di sala per uno spettacolo mediatico di bassa lega che sta andando sciaguratamente in scena.

Mi sarà almeno concessa l’obiezione di coscienza di chiamarmi eticamente e politicamente fuori da questo ignobile connubio italo-americano, che mette in ridicolo il nostro Paese e lo condanna all’irrilevanza a tutti i livelli? Non ho bisogno di autorizzazione: vorrà dire che d’ora in avanti considererò gli Usa nemici dell’Italia per le interposte persone di Trump e Meloni, in attesa che cambino al più presto questi inqualificabili governanti.

 

Le stragi in corrispondenza biunivoca

Bloccato il comunicato del G7 preparato dalla presidenza canadese, dopo che l’amministrazione Trump si è rifiutata di sostenere il testo di condanna sulla strage di civili ucraini la domenica delle Palme. Gli Stati Uniti non hanno firmato il comunicato di condanna del G7 contro l’attacco russo sulla città ucraina di Sumy, in cui sono morti almeno 32 civili ucraini la scorsa domenica delle Palme. Secondo quanto riporta l’agenzia Bloomberg, la Casa Bianca avrebbe evitato di sostenere il comunicato voluto dal Canada citando «il desiderio di continuare le trattative con Mosca». Bloomberg cita alcune fonti secondo le quali esponenti dell’amministrazione Trump hanno detto agli alleati di non voler firmare, perché «stava lavorando per preservare lo spazio per negoziare la pace». Il Canada, che ha la presidenza del G7, ha quindi spiegato agli alleati che senza il sostegno americano sarebbe stato impossibile procedere con il comunicato. (open.online)

È a dir poco curioso il comportamento di Trump, il quale per non irritare Putin non ne condanna un bestiale atto di guerra: dalla tolleranza bellica non potrà mai sgorgare nemmeno uno straccio di pace. In realtà credo che a Trump non interessi un bel niente della guerra in Ucraina: sta facendo i suoi affari con entrambi i belligeranti, con le terre rare dell’Ucraina e con le collaborazioni economiche della Russia.

Un cinismo portato alle estreme conseguenze: siccome non si condannano le stragi compiute da Netanyahu, lo stesso trattamento va riservato a Putin. Israele faccia quel che vuole, la Russia pure. E l’Europa non rompa i coglioni e si preoccupi di partecipare alla Nato investendo in armi, comprandole possibilmente dagli Usa. Quanto alla Cina, nessuno si azzardi a cercare accordi commerciali con questo Paese, solo gli Usa possono trattare eventualmente e sottobanco al riguardo.

La Corte penale dell’Aia vada a farsi fottere e l’Onu invece pure.

È il nuovo diritto internazionale, stupido!

 

I deboli catalogati dai forti

La strage di Sumy, perpetrata da Putin domenica 13 aprile, ha giustamente suscitato l’indignazione della comunità internazionale, persino di Donald Trump. Politici e commentatori si sono affrettati a denunciare il crimine di guerra, l’orrore di un vile attacco sferrato peraltro in un giorno in cui i credenti celebravano una delle feste più importanti del calendario cristiano, la Domenica della Palme. Una reazione e una indignazione che ci piacerebbe leggere e sentire anche in riferimento al massacro di Gaza, che invece continua imperterrito giorno dopo giorno. E che anche lì profana (pure) giornate sacre per i credenti, come il Ramadan, che quest’anno si è svolto nel sangue. E sì, lo sappiamo bene che, a differenza di quella russa sull’Ucraina, la guerra di Israele contro Gaza ha preso avvio in risposta al barbaro attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, che in un solo giorno ha fatto più di mille vittime (quasi tutte civili) e ha preso decine e decine di ostaggi. E sappiamo anche che a Gaza Hamas usa infrastrutture civili – a partire dagli ospedali – come basi e rifugio, fornendo così a Israele un ottimo pretesto per non fare più distinzioni fra obiettivi militari e civili. Ma è sotto gli occhi di tutti che l’azione di Israele ha di gran lunga superato i confini di una mera risposta al 7 ottobre e ha assunto i contorni di un’operazione di sterminio sistematico contro un intero popolo. Non è più una guerra contro Hamas. È diventata una guerra contro i palestinesi. Contro i civili. Contro i giornalisti. Contro il personale sanitario. Contro chiunque si trovi nel mirino di un esercito che ha smarrito ogni senso di proporzionalità e di umanità. Prendendo a prestito le parole di uno dei palestinesi che nelle scorse settimane ha partecipato alle manifestazioni a Gaza (manifestazioni che erano contro la guerra e allo stesso tempo contro Hamas): “Hamas non è più il bersaglio, è il pretesto”. E mentre i civili palestinesi vengono schiacciati tra il fanatismo di Hamas e la brutalità dell’esercito israeliano, la comunità internazionale – con pochissime eccezioni – tace, contribuendo a smontare pezzo per pezzo il principio cardine del diritto internazionale: la sua universalità. Il diritto non è al servizio dei più forti. La forza del diritto – anche quello internazionale – è esattamente (dovrebbe essere) ciò che ci permette di rovesciare il diritto della forza. Per questo fa paura a chi detiene il potere. E per questo dovremmo difenderlo con le unghie e con i denti. E invece, che facciamo? Di fronte alla Corte penale internazionale che emette un mandato di cattura per crimini di guerra e contro l’umanità nei confronti di Netanyahu, leader europei – e non parliamo solo di Orbán, ma anche per esempio di Merz in Germania o di Tajani in Italia – dichiarano pubblicamente che non lo eseguirebbero. Ossia che si metterebbero di traverso alla giustizia internazionale, come ha già fatto Orbán accogliendo Netanyahu e dichiarando di voler uscire dal Trattato che istituisce la Corte. Uno schiaffo al diritto. Un colpo mortale all’idea stessa di giustizia. E, in fin dei conti, un colpo a tutti noi. Perché quando il diritto si piega al potere, nessuno è al sicuro. Nemmeno quelli che oggi si credono al riparo. (MicroMega – Il contrappunto di Cinzia Sciuto)

Mi sono sempre chiesto il perché di questa inattaccabilità israeliana a prova di Onu e finanche di Corte penale dell’Aia e quindi, possiamo dire, in barba ai fondamentali principi del diritto internazionale.

Il primo motivo si può far risalire ad una sorta di immunità che il mondo concede ad Israele in riparazione della Shoah e per prevenire ogni e qualsiasi risorgente tentazione antisemita: come se aver subito persecuzioni quantitativamente e qualitativamente insuperabili desse l’autorizzazione a tormentare i palestinesi quasi fossero loro i responsabili della Shoah stessa. Ben vengano gli storici rimorsi di coscienza purché portino ad una revisione globale della difesa dei diritti delle persone e dei popoli.

Il secondo motivo, molto più pragmatico, si può individuare nel potere economico, finanziario e militare, esercitato dagli israeliani sparsi nel mondo, coagulato nel peso dello Stato di Israele nei confronti di tutte le nazioni a partire dagli Usa, laddove la lobby israeliana esercita un’influenza determinante a livello economico e politico: è un potere che ha sempre attraversato, più o meno, tutti gli equilibri internazionali, a ovest, a est, a nord e a sud.

Recentemente con l’elezione di Donald Trump gli attuali governanti di Israele hanno ottenuto una vera e propria licenza di massacrare con tanto di intese paranormali sui destini della striscia di Gaza e sulla deportazione in massa dei palestinesi. Non è affatto vero che gli Usa e Israele si siano sempre comportati così: basti pensare alla presidenza Carter e agli accordi di Camp David.

Se l’atteggiamento statunitense ha ragioni storiche pure inaccettabili, stupisce in particolare quello europeo, Italia in primis. Il nostro Paese ha sempre avuto un occhio di riguardo verso i problemi dei palestinesi, basti ricordare l’intervento del senatore a vita Giulio Andreotti, che, nel 2006, in occasione degli attacchi Hezbollah a Israele, durante una seduta del Senato Italiano arrivò ad affermare: “Ognuno di noi se fosse nato in un campo di concentramento e da 50 anni fosse lì e non avesse alcuna prospettiva di poter dare ai propri figli un avvenire sarebbe un terrorista”.

Ogni tanto mi sovviene quanto disse Massimo D’Alema durante il dibattito parlamentare per la fiducia al primo governo Berlusconi. In risposta a chi lo aveva insolentito con una battuta sul PDS che faceva rimpiangere il PCI, sfoderò la sua impareggiabile vis polemica dicendo: «Voi rimpiangete il Pci? Io rimpiango la DC!».

In effetti sulla politica verso il medio Oriente c’è da riscoprire l’azione dei governi della cosiddetta prima repubblica e di una classe politica che sapeva distinguersi dall’andazzo filo-americano e filo-israeliano.

Ecco di seguito il racconto di Massimo D’Alema sul Corsera della passeggiata a Beirut sottobraccio a un deputato di Hezbollah.

«Spesso in Italia prevale l’ignoranza di trogloditi che non sanno di cosa si parli. Hezbollah rappresenta una parte significativa della società libanese. All’epoca faceva parte della coalizione di governo: il ministro degli Esteri era un accademico islamico espressione di Hezbollah. Siccome io lavoravo per la pace tra Israele e Libano, era inevitabile che incontrassi anche le forze che governavano il Libano». «Arrivai a Beirut il mattino del 14 agosto, un’ora dopo la fine dei bombardamenti di Israele, che aveva colpito sino a un secondo prima del cessate il fuoco deliberato dall’Onu. Il ministro degli Esteri mi disse che c’erano molte vittime nei quartieri popolari, e avrebbe apprezzato che avessi fatto loro visita. Non era una manifestazione estremista; era lo scenario di un dramma, con civili che cercavano i loro congiunti sotto le macerie. Il mio fu un gesto di solidarietà umana giusto e apprezzato, che contribuì a garantire la sicurezza dei nostri militari poi schierati sul confine. Come i gesti che compii dall’altra parte, visitando i familiari di soldati israeliani rapiti. E incontrando all’aeroporto di Tel Aviv lo scrittore David Grossman, che in quella guerra aveva perso il figlio. Citai una felice espressione di Andreotti: l’equivicinanza. In Italia mi presero in giro».

In conclusione: si può essere diplomatici senza voltarsi dall’altra parte, senza fare i pesci in barile e senza far credere che Cristo è morto per il freddo ai piedi (ogni rifermento all’attuale ministro degli esteri italiano è puramente “causale”).

 

Fra “marionéti” ci si intende

La polemica a distanza Trump-Zelensky non si placa affatto. Perché intanto Trump prende le distanze dal conflitto, quasi a volersi parare in caso la sua mediazione fallisca. «La guerra tra Russia e Ucraina è la guerra di Joe Biden, non la mia. Se io fossi stato presidente quando è iniziata l’avrei fermata sul nascere», dice, ripetendo un suo vecchio motto. Ma poi eccolo accusare sia l’ex presidente Usa che lo stesso leader ucraino. «Il presidente Zelensky e il corrotto Biden hanno fatto un lavoro assolutamente orribile nel permettere che questa fase della guerra iniziasse. Io sto semplicemente cercando di fermare distruzione e morte», commenta. (dal “Corriere della Sera” – Lorenzo Cremonesi)

Della follia di poi son piene le fosse di Trump. Intendiamoci bene, non è che sulla guerra fra Russia e Ucraina non siano stati commessi errori madornali dal punto di vista diplomatico prima e durante l’aggressione. Si poteva certamente fare di più per prevenire la situazione e per affrontarla. Ne sono sempre stato convinto e non cambio parere.

Di qui a sparare cazzate come sta facendo Trump…

Consentitemi di riportare un piccolo episodio davanti al video, vale a dire una delle solite vuote interviste propinate ai fanatici del pallone. Parla il nuovo allenatore di una squadra, non ricordo e non ha importanza quale, che ottiene subito una vittoria ribaltando i risultati fin lì raggiunti. L’intervistatore chiede il segreto di questo repentino e positivo cambiamento e l’allenatore risponde: “Sa, negli spogliatoi ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti che dovevamo vincere”. Non ci voleva altro per scatenare la furia ironica di mio padre che, scoppiando a ridere, soggiunse: “A s’ capìssa, l’alenadór äd prìmma, inveci, ai zugadór al ghe dzäva äd perdor”.

Cosa si può dire di fronte alle sbruffonate di un megalomane come Trump? Non invidio Giorgia Meloni, che qualche cazzata di rimando dovrà pur dirla durante il colloquio che ha scelto di avere con il presidente americano. Tra incoerenti megalomani ci si intende…Forse non sapremo mai cosa si saranno detti, e, tutto sommato, è meglio così… Come farà Giorgia a giustificare i bacetti scambiati con Biden? Come farà a spiegare gli abbracci con Zelensky e di essere stata sempre così schierata in suo favore?

Se avevo perplessità su Biden e la sua politica internazionale, alla luce degli sbruffoni del giorno dopo, mi vedo costretto a rivalutarlo. Stesso discorso vale per Zelensky. Solo ora capisco la testardaggine con cui Biden voleva mantenere la sua candidatura alla Casa Bianca: era l’estremo anche se tardivo tentativo di risparmiare agli Usa e al mondo una folle avventura.

Come si può impostare un dialogo serio con un personaggio inaffidabile come Donald Trump? Cosa ci può essere di serio nell’assetto mondiale che si va delineando? Solo i ricatti reciproci! I dazi non son forse tali?! Stia attenta la premier italiana, perché se i rapporti con la Ue dovessero precipitare finirà per essere tutta colpa sua. D’altra parte non è anche lei una specialista nel capovolgere le frittate, dando sempre le colpe a chi osa criticarla? È sempre tutta responsabilità dei governi precedenti! E le sue contraddizioni clamorose? “Solo i morti e gli stupidi non cambiano mai opinione”.

Da qualche giorno, dopo essere precipitato nello sconforto, sono portato a buttarla in ridere: il teatro dei burattini. Strana e incredibile diplomazia in cui tutto è paradossalmente possibile. In dialetto parmigiano, quando una persona assume atteggiamenti sfrontatamente in contraddizione col suo normale comportamento, viene immediatamente apostrofata con una espressione colorita: “avérgh un bècch äd fér”. Gilberto Govi, in dialetto genovese, li chiamava “marionéti”.