La ragión la s’ dà ai cojón

«Concordo con papa Leone quando afferma che il mondo dovrebbe essere liberato da ogni minaccia nucleare e che il modo migliore per prevenirla è il dialogo». L’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, Yaron Sideman, segue passo dopo passo il nuovo Pontefice. Compresi i suoi appelli a fermare le armi in Medio Oriente. Più volte Leone XIV ha fatto riferimento a Gaza. Ora l’invito alla «responsabilità» e all’«incontro» rivolto a Tel Aviv e Teheran per evitare l’escalation. 

(…)

«Israele non ha intrapreso una guerra con l’Iran, ma un’operazione militare volta a eliminare un’imminente minaccia esistenziale portata avanti dal regime iraniano. In linea di principio, la guerra dovrebbe sempre essere considerata l’ultima opzione, ma ciò non significa che non sia affatto valida, qualora tutte le altre fallissero»

(…)

«Un regime, come quello iraniano, dotato di capacità nucleari militari rappresenta una chiara minaccia per Israele ma anche per l’intero Medio Oriente. La storia ci insegna che, quando un regime minaccia la nostra esistenza, dobbiamo prenderlo sul serio»

(…)

«Israele sarà l’ultimo a introdurre tali armi in Medio Oriente. Siamo un Paese che sostiene i valori della vita e della libertà. Però ci troviamo di fronte a regimi che santificano e glorificano la morte e diffondono terrore e distruzione nel mondo. Questa è la giusta prospettiva. Basta guardare la carneficina che l’Iran sta compiendo ora colpendo deliberatamente i civili israeliani con missili balistici convenzionali. Immaginate se quei missili fossero dotati di testate nucleari…».

(…)

«Mentre l’Iran sta prendendo di mira le aree densamente popolate, Israele colpisce le infrastrutture militari e gruppi terroristi. L’unico obiettivo di Israele in Iran è agire contro le armi nucleari e l’arsenale di missili balistici. Iran e Hamas sono in perfetta sintonia. Entrambi invocano apertamente la distruzione di Israele e fanno parte di una mortale asse del male, guidata dall’Iran, che include anche Hezbollah e gli Houthi nello Yemen. Entrambi lavorano per raggiungere il loro comune intento, come dimostrano la carneficina di Hamas del 7 ottobre 2023 o gli attacchi di Teheran contro Israele nei vari anni, inclusi quelli missilistici non provocati proprio l’anno scorso. Iran e Hamas sono anche solidali finanziariamente, poiché l’Iran è un importante sostenitore finanziario di Hamas e le fornisce i mezzi per portare avanti le sue attività terroristiche contro Israele».

Giudico questa intervista rilasciata dall’ambasciatore israeliano presso la Santa Sede utilizzando due espressioni dialettali molto eloquenti: “bècch äd fér” e “la ragión la s’ dà ai cojón”.

Stando alla faziosa analisi del diplomatico, Israele sarebbe il regno del bene che combatte contro quello del male: storicamente le vittime sono diventate vittimiste. La realtà è molto più complessa e ingarbugliata. Come minimo anche Israele ha le sue colpe: la morte a Gaza di centinaia di bambini a cosa è dovuta se non a una pazzesca e smisurata vendetta? Sono forse vittime del caso?

Quando mio padre commentava la morte di una persona di cui non si riusciva a trovare la causa e per la quale non si individuava nemmeno l’esecutore materiale dell’eventuale delitto, concludeva sarcasticamente: «As védda che quälcdòn al gà preghè un cólp…».

La guerra giusta non esiste, è sempre sbagliata. Mi rifaccio al giudizio papale. «…è lecito fermare l’aggressore ingiusto. Sottolineo il verbo “fermare”. Non dico bombardare, fare la guerra. “Fermarlo”. I mezzi con i quali si possono fermare, dovranno essere valutati… una sola nazione non può giudicare come si ferma questo, come si ferma un aggressore ingiusto…» (papa Francesco).

Il becco di ferro consiste nel propinare un’incredibile ricostruzione dei fatti spacciandola per verità: non è possibile accettarla. La verità è che ormai, come sostiene il filosofo Massimo Cacciari, non esiste più un ordine internazionale e quindi ogni Stato costruisce una verità a suo uso e consumo secondo la realpolitik ridotta a mera legge del più forte, facendo poi credere addirittura che l’aggredito sia l’aggressore e viceversa.

Quanto al dare ragione al Papa per poi smentirlo clamorosamente nelle parole e nei fatti è una vecchia storia ben sintetizzata appunto nel detto parmigiano “la ragión la s’ dà ai cojón”.

Sappiano i governanti di Israele che in Vaticano ci sono personaggi che la sanno molto più lunga di loro, che sanno discernere e separare le verità dalle falsità anche senza essere infallibili e che non sono affatto coglioni a cui concedere contentini dialettici.

Per cortesia, almeno non prendiamoci in giro. Dialoghiamo, ma ammettendo le proprie responsabilità, altrimenti il dialogo è fra sordi.

A volte, per segnare marcatamente il distacco con cui seguiva i programmi TV, mio padre si alzava di soppiatto dalla poltrona e quatto-quatto se ne andava. Mia madre allora gli chiedeva: “Vät a lét?”. Mio padre con aria assonnata rispondeva quasi polemicamente: “No vagh a lét”. Era un modo per ricordare la gustosa chiacchierata tra i due sordi. Uno dice appunto all’altro: “Vät a lét?”; l’altro risponde: ” No vagh a lét”. E l’altro ribatte: “Ah,  a m’ cardäva ch’a t’andiss a lét”.

 

 

 

 

 

 

Un mondo che cammina su Trump…oli

La sua prima dichiarazione al summit è stata infatti la condanna dell’allontanamento della Russia dal consesso dopo l’annessione della Crimea nel 2014. «È stato un errore, non avremmo avuto la guerra, se Putin fosse stato membro non avremmo avuto la guerra — ha detto il tycoon, che già nel 2018 si era espresso per la riammissione di Mosca, provocando un’alzata di scudi degli alleati —. Passiamo molto tempo a parlare della Russia e Putin non è al tavolo, il che rende le cose molto più complicate. Putin parla solo con me perché è stato offeso quando è stato cacciato dal G8, anche io lo sarei, è stato altamente offensivo».
Trump ha aperto alla possibilità di invitare la Cina («perché no, è la più grande economia nel mondo dopo gli Usa — ha detto il tycoon — non sarebbe una cattiva idea, se qualcuno lo suggerisse») dando l’impressione di essere più interessato a discutere con i leader assenti che con quelli presenti. (da “Avvenire” – Elena Molinari)

Sono molto scettico sulle riunioni del cosiddetto G7, mio padre sarebbe oltremodo d’accordo ed aggiungerebbe: “Sì. I päron còj che all’ostarìa con un pcon äd gèss in simma la tävla i mètton a pòst tùtt; po’ set ve a veddor a ca’ sòvva i n’en gnan bon äd fär un o con un bicér…”.

Purtroppo però non è solo questione di incapacità, che quasi sempre va di pari passo con l’arroganza e la presunzione, ma di “affari di Stato”, nel senso che ognuno punta agli affari del proprio Paese se non addirittura agli affari suoi personali.

Partendo da questo presupposto non si può che arrivare al disastro internazionale che stiamo vivendo. Donald Trump sta trascinando tutti in una logica perversa: nessuno ha il coraggio di reagire, pendono tutti, più o meno, dalle sue labbra e si adeguano.

Netanyahu sta facendo il lavoro sporco per conto di Trump, per lo meno col suo tacito assenso, e allora la verità non si può dire. Putin è interlocutore imprescindibile di Trump e allora non lo si può disturbare più di tanto. Xi Jinping è un potenziale partner di Trump e allora meglio lasciar fare a lui eventuali accordi sporchi con la Cina.

Si sta creando una banda criminale a cui vengono consegnati i destini del mondo, anche perché il resto del mondo sta a guardare e a subire, illudendosi di poter mangiare le briciole che cadono dal tavolo dei potenti.

Possibile che l’Europa non abbia uno scatto di dignità e non trovi nella sua pur travagliata storia un qualche appiglio valoriale e culturale per essere protagonista di un risveglio politico a livello internazionale?

Possibile che nessuno abbia il coraggio di condannare apertamente il massacro perpetrato ai danni dei palestinesi?

Possibile che nessuno abbia l’intelligenza politica per capire che il proditorio attacco all’Iran non ha alcuna giustificazione plausibile se non quella di disegnare il Medio Oriente ad uso e consumo israeliano?

Possibile che gli europei accettino supinamente di essere sostanzialmente esclusi dagli assetti di potere a livello internazionale, giocando un ruolo da meri comprimari?

Possibile che tra i governanti degli Stati europei sia in atto la gara a svolgere nel migliore dei modi il ruolo di “port coton” nei confronti di Re Trump?

Possibile ascoltare analisti e politici di fama capaci soltanto di giustificare un andazzo che ci porta alla rovina? Mi riferisco, ad esempio, a Mario Monti: non ci doveva salvare dal disastro berlusconiano? A posteriori si può ben dire che stavamo freschi allora e stiamo freschi oggi! Non era un caso che Berlusconi fosse amico di Putin, proprio come oggi è Trump…

Possibile che non ci sia un manipolo di deputati europei capaci di occupare la sede del Parlamento di Strasburgo fintanto che questo ridondante organismo di facciata non pronunci parole chiare e intenzioni serie contro Israele e la sua politica?

Possibile che un gruppo di parlamentari italiani non provi vergogna dei silenzi italiani e non occupi Palazzo Chigi fino a che Giorgia Meloni non abbia il buongusto di pronunciare qualche frase dettata almeno dalla coscienza se non dai doveri di Stato?

Tutte cose possibili e inaccettabili. E la faccenda non è ancora finita! Ne vedremo delle belle, ma forse nemmeno un missile che colpisse i Palazzi romani della politica ci potrebbe svegliare. Sì, perché ci sarebbe subito qualcuno che darebbe la colpa ai pacifisti, i quali ci isolerebbero e fuorvierebbero con i loro sogni di piccolezza.

 

 

 

Papa Leone indietrista, ma solo un pochettino

Nelle scorse ore ha destato curiosità l’introito arrivato a Papa Leone XIV da parte dello Ior, la “banca del Vaticano”. Un dividendo importante frutto degli utili fatti registrare dall’Istituto per le Opere di Religione. Ora, invece, un’altra questione ha suscitato interesse per quanto concerne il Pontefice. Prevost, infatti, ha ricevuto i Nunzi tra cui era presente anche “padre” Georg Gänswein, segretario di Papa Benedetto XVI ed ex prefetto della Casa Pontificia che in passato non aveva avuto un feeling ottimale con Bergoglio con il quale c’erano state diverse polemiche.

A seguito di quella pubblicazione, viste anche le tempistiche – solamente pochi giorni dopo il funerale del Papa emerito – Francesco aveva cercato di tenere a bada ogni discussione salvo poi rilasciare nel libro intervista con il giornalista Javier Martinez Brocal ‘Il Successore’ parole di accusa verso lo stesso Georg accusato di aver avuto una “mancanza di umanità e nobilità d’animo” per quelle anticipazioni nel giorno dei funerali di Ratzinger.

In questa ottica, l’incontro avvenuto in Vaticano tra Papa Leone XVI e Georg sa tanto di “smacco” a Francesco. Il Corriere della Sera, edizione Roma, infatti, ha parlato di un faccia a faccia breve con tutti i Nunzi ma ha anche sottolineato come questo sia stato “caldo” e “formale”. Nello specifico con Gänswein “si è intrattenuto un po’ di più, sorridendogli e quasi abbracciandolo”.

Secondo quanto riferito dal quotidiano, questa situazione potrebbe far pensare “che per l’attuale Nunzio Apostolico in Lituania, Estonia e Lettonia, possa finalmente aprirsi uno spiraglio per un rientro in Vaticano”, dopo le tensioni e le polemiche del passato con Bergoglio. Al momento non sappiamo se si possa essere trattato solo di un comportamento cordiale da parte di Prevost verso Georg o se dietro possa esserci di più ma senza dubbio l’incontro ha suscitato grande attenzione.

Conversando con alcuni amici ho ammesso di non avere ancora elaborato il lutto per la morte di papa Francesco. Elaborare il lutto significa affrontare il processo di accettazione e trasformazione del dolore causato dalla perdita di una persona cara. Questo processo, che può essere lungo e difficile, permette di elaborare le emozioni intense che si provano, come tristezza, rabbia, colpa e senso di vuoto. L’elaborazione del lutto aiuta a integrare la perdita nella propria vita, a trovare un nuovo equilibrio emotivo e a riprendere a vivere con serenità.

Ebbene evidentemente non mi sono ancora ripreso dal trauma, mi sento vedovo di Bergoglio e pensare che non sempre ero d’accordo con le sue posizioni, anche se le accoglievo sempre a coscienza aperta, come si fa con un padre.

Ho sempre avuto un atteggiamento ipercritico nei confronti della Chiesa pur sentendomi in essa a pieno titolo e papa Francesco era lì a garantire la mia appartenenza e a rassicurarmi nel comportamento spesso trasgressivo, non per giustificarlo a priori, ma per capirlo. In poche parole ero e sono un cattolico borderline, tentato di andarmene, ma deciso a rimanere nonostante tutto e, durante questi ultimi quindici anni, nella consapevolezza di avere un padre che mi accettava per quello che ero.

La situazione mi si è cambiata e sento di avere perduto un punto di riferimento indispensabile: lo deduco da tante giornaliere impressioni, da tanti indizi che temo finiscano per costituire una prova della discontinuità di papa Prevost rispetto a papa Bergoglio. Prima durante e dopo il conclave si sono sprecate buone intenzioni di rimanere nel solco della pastorale bergogliana: alle parole rassicuranti fanno seguito scelte piuttosto equivoche.

Mancava solo l’azzimato padre Georg Gänswein, allontanato giustamente da papa Francesco per i suoi comportamenti assai poco sinceri e leali. Non entro nel merito, perché mi riferisco a un discorso complessivo di cui l’eventuale riavvicinamento col segretario di papa Ratzinger non è che un piccolo elemento.

Si tratta infatti di un rosario di segnali in netta controtendenza, prontamente colti da certa stampa anti-bergogliana o comunque filo-prevostiana. Mi si dirà che sono piccoli fatti, magari strumentalizzati, da non sopravvalutare: d’accordo, ma…

Temo la normalizzazione vaticana con un ritorno al tradizionalismo, che vuol dire quieto vivere in nome di una finta ma comoda unità.  Si sta componendo un furbo e articolato mosaico “indietrista”.

Se è vero, come è vero, che io non ho ancora elaborato il lutto, v’è chi lo ha superato con molta velocità e quasi con sollievo. Mi sono ripromesso di individuare testardamente tutte le mosse contrarie all’eredità bergogliana, così, tanto per (non) divertirmi a ritornare nelle ristrettezze del mio (non) sentirmi Chiesa. Sarò pronto a ricredermi, a fare ammenda, a chiedere scusa, persino a gridare evviva papa Leone.

 

 

Dalla padella degli ayatollah alla brace di Netanyahu

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha rivolto un appello agli iraniani, invitandoli a unirsi contro il loro regime, dichiarando che Israele ha lanciato in Iran “una delle più grandi operazioni militari della storia”.

“Stasera, desidero parlare con voi: orgoglioso popolo dell’Iran. Siamo nel mezzo di una delle più grandi operazioni militari della storia, l’operazione ‘Rising Lion’. Il regime islamico, che vi ha oppresso per quasi 50 anni, minaccia di distruggere il mio Paese, lo Stato di Israele. L’obiettivo dell’operazione militare israeliana è quello di rimuovere questa minaccia, sia quella nucleare che quella missilistica”, ha dichiarato Netanyahu.

“Ed è giunto il momento per voi di unirvi attorno alla vostra bandiera e alla vostra eredità storica, LOTTANDO per la vostra libertà contro un regime malvagio e oppressivo. Non è mai stato così debole. Questa è la vostra opportunità DI ALZARVI e far sentire la vostra voce. Donna, vita, libertà. Zan, Zendegi, Azadi”. (da askanews)

Mia sorella Lucia, quando si immedesimava nelle lotte per la democrazia condotte in tanti Paesi con particolare riferimento alla condizione femminile, concludeva con un’affermazione a metà strada fra la disperazione e l’orgoglio: «Se vivessi in certi Paesi, mi sarei già fatta ammazzare non so quante volte, dal momento che non so stare zitta di fronte alla prepotenza e al sopruso perpetrati da un regime». Lo diceva anche e soprattutto per le donne i cui diritti vengono calpestati, come succede in Iran.

Un mio amico più volte mi ha espresso la sua fiduciosa speranza che i regimi arabi possano cadere sotto i colpi non violenti delle donne: sono perfettamente d’accordo, perché le donne hanno una forza d’urto culturale ben più importante delle armi.

Mi sono messo presuntuosamente nei panni degli iraniani e in particolare delle iraniane contrari al regime che li opprime: come reagirei di fronte alle pretestuose avance israeliane miranti ad esportare in Iran la democrazia delle bombe?

Accantonerei la realpolitik di Netanyahu e mi concentrerei su ben altre strategie e tattiche di opposizione non violenta. Come può essere attendibile un soggetto che mi propone di fare un salto nel buio? Avrei il timore di passare, come si suole dire, dalla padella alla brace.

Oltre tutto simili appelli avranno sicuramente ed esattamente l’effetto contrario, vale a dire quello di compattare, in difesa degli ayatollah, le fila degli iraniani convinti o incerti e quello di mettere in ulteriore rischiosissimo imbarazzo gli oppositori al regime.

Quale credibilità democratica può avere un governo che sta letteralmente massacrando il popolo palestinese e tentando di eliminare tutti i Paesi concorrenti al fine di poter spadroneggiare sui territori confinanti, già peraltro parzialmente e illegittimamente occupati.

Netanyahu sta tendendo trappole opportunistiche all’intero Occidente, sta tendendo mani sporche di sangue ai pur oppressi iraniani, ergendosi a salvatore della sua Patria cancellando quella altrui.

Credo che l’unico linguaggio ammissibile per solidarizzare con i popoli mediorientali, iraniani compresi, sconvolti dalle guerre, oppressi da regimi antidemocratici, fuorviati dalle scorciatoie terroristiche e ingannati dalle sirene israeliane, sia quello emergente dalla marcia della Pace Marzabotto-Monte Sole, vale a dire un appello perché le donne e gli uomini delle istituzioni, in Italia e in Europa, ricostruiscano una politica di pace e agiscano per fermare l’escalation, salvare e proteggere gli innocenti. Tra le richieste rivolte al nostro governo e alla Ue ci sono: la sospensione di ogni cooperazione militare e dell’Accordo di Associazione Ue-Israele, il ripristino del sostegno a Unrwa per i profughi palestinesi, il riconoscimento immediato dello Stato di Palestina, la convocazione di una Conferenza di Pace sotto l’egida Onu. (dal quotidiano “Avvenire”)

 

 

 

 

Per fare la guerra tutti i pretesti sono validi

Venti anni fa, il 5 febbraio 2003, il Segretario di Stato degli Stati Uniti Colin Powell si presentava al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite con in mano una provetta contenente borotalco, ma fece credere a tutti che invece contenesse antrace sviluppata dall’allora nemico numero uno della Casa Bianca Saddam Hussein. Quella sceneggiata permise, nonostante il Consiglio di Sicurezza non avesse dato il suo benestare, agli Stati Uniti di iniziare la seconda guerra del golfo contro l’Iraq di Saddam Hussein che causò centinaia di migliaia di morti tra la popolazione civile. 

Oggi il premier israeliano Netanyahu ci dice che l’Iran sta preparando la bomba atomica e che quindi occorre intervenire per impedirglielo in difesa del quieto vivere nucleare. Non esistono prove, da tempo si dice, ma non v’è alcuna certezza al riguardo. Ragion per cui molto probabilmente le ragioni della guerra all’Iran sono altre: la voglia di abbattere un regime detestabile e pericoloso, togliere o almeno ridimensionare una presenza inquietante e imprevedibile nel contesto internazionale mediorientale, l’invadente e incontenibile strategia israeliana che non ammette freni di sorta.

Per fare guerre tutti i motivi vanno bene: per annientare la Palestina vale il pretesto della presenza terroristica di Hamas, per la Siria e per il Libano la presenza di Hezbollah, per l’Iran la presenza degli ayatollah e delle loro mire nucleari.

Peraltro sono guerre subite dagli Usa che non riescono a tenere a freno le smanie israeliane: Trump aveva garantito un veloce ritorno alla pace in Palestina, stava trattando con l’Iran. Tutto sbagliato, tutto da rifare, perché Israele non vuole. Forse gli Usa bluffano, fatto sta che la situazione si sta incasinando all’inverosimile.

L’Europa disunita balbetta anche perché tra i Paesi europei c’è chi è dotato di bomba atomica, Francia e Inghilterra, chi addirittura punterebbe ad averla, chi è o fa finta di essere amico giurato di Israele, chi strizza l’occhio petrolifero agli arabi, chi, come l’Italia, aspetta di vedere le mosse statunitensi per accodarsi acriticamente ad esse.

Faccio un ragionamento terra terra. Il clima di guerra totale è tale da essere preoccupati per un qualche coinvolgimento europeo: la globalizzazione bellica!

Per il nostro Paese l’unica speranza viene dal passato, da una storica e giusta posizione dialogica verso il mondo arabo, fatta di interessi reciproci, ma anche di scelte diplomaticamente intelligenti: l’Italia non è nemica degli arabi e questo, lasciatemelo dire è merito dei Fanfani, dei Moro, dei Mattei, degli Andreotti, dei Craxi, insomma di chi ci ha governato con la testa.

Un ultimo malizioso interrogativo: chi ha detto che la bomba atomica debba essere un privilegio di pochi e che sul nucleare chi ha avuto ha avuto? Certo il pensare ad armi nucleari nelle mani degli ayatollah mette i brividi. Ma, come già scritto, non è che in mano a Netanyahu e a tutti gli altri componenti del club dell’atomica mi ispirino tranquillità.

Se poi penso a Donald Trump che un giorno dice una cosa e il giorno dopo l’esatto contrario, che tratta su tutti i tavoli, che come unica preoccupazione ha quella di arricchirsi a livello famigliare e personale, che sotto sotto è amico di Putin e punta spudoratamente ad accordi con la Cina fregandosene altamente degli alleati, che sta istituzionalizzando la legge del più forte, vengo preso da autentica ansia generalizzata e paralizzante. Ho perso anche l’unico credibile e forte riferimento etico-culturale in materia di pace, vale a dire papa Francesco. Mi rimane soltanto Sergio Mattarella: che Dio ce lo conservi a lungo, almeno fino alla scadenza del suo secondo mandato presidenziale. Meno male che sono vecchio…

Concludo intingendo presuntuosamente la penna nel mio calamaio, riproponendo di seguito la riflessione religiosa, che parte dal Vangelo e che proprio oggi ho pubblicato su questo sito nell’apposita sezione.

Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”; “No, no”; il di più viene dal Maligno»”. Il nostro modo di parlare e di fare è spesso ambiguo. Nella nostra società è degno di ammirazione chi riesce a dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Vale anche nei riguardi della guerra di fronte alla quale non abbiamo il coraggio di schierarci apertamente per il “no”. Troviamo mille giustificazioni per il “si”. No, ma in certi casi… Abbiamo paura di essere pacifisti: è paradossalmente quasi un’offesa. «Da uomo di Chiesa dico, come insegna la dottrina e il Santo Padre, che al male della guerra si risponde pregando il Dio della pace. Per il resto, di fronte ad atti che rappresentano la negazione dell’umanità, mi sento impotente ed incapace di dare risposte. Provo lo stesso sentimento di smarrimento espresso una decina d’anni fa dal compianto cardinale Carlo Maria Martini che, ad una domanda su come difenderci dai pericoli di attentati di estremisti islamici, rispose con disarmante umana sincerità: “Noi, che facciamo tante prediche e innumerevoli sermoni, per questi tragici eventi non abbiamo risposte adeguate, siamo come impotenti”. Oggi mi sento come il cardinale Martini» (cardinale Paul Poupard).

 

 

 

Il peggior club esclusivo a prova di…bomba atomica

È guerra tra Israele e Iran. Non più i raid circoscritti degli ultimi due anni. Per il regime degli ayatollah è una prova esistenziale. Dopo la prima ondata di raid notturni decine di droni Shahed – gli stessi forniti a Putin per attaccare l’Ucraina – sono stati lanciati contro Israele.

L’operazione “Leone nascente” è diretta contro il programma nucleare iraniano. L’intelligence israeliana sostiene che l’Iran ha attualmente abbastanza uranio arricchito per costruire 15 bombe nucleari. E anche l’Agenzia Onu per il nucleare nei giorni scorsi per la prima volta aveva segnalato attività iraniane incompatibili con il processo di produzione di centrali al solo scopo civile. Almeno 200 caccia, oltre a missili e droni hanno colpito fabbriche di missili balistici e altri centri militari. “Il regime iraniano lavora da decenni per ottenere un’arma nucleare. Il mondo ha tentato ogni possibile via diplomatica per fermarlo, ma il regime si è rifiutato di fermarsi”, ha dichiarato l’esercito israeliano.

Per Teheran è un colpo al cuore del regime, i cui vertici sono stati più volte decapitati da operazioni mirate israeliane. Anche negli attacchi delle ultime ore sono segnalati agenti operativi israeliani sul terreno, da dove hanno potuto dirigere il fuoco su obiettivi specifici e circoscritti. “Possiamo ora confermare che il capo di Stato Maggiore delle Forze Armate iraniane, il Comandante delle Guardie della Rivoluzione islamica e il Comandante del Comando di Emergenza dell’Iran sono stati tutti eliminati durante gli attacchi israeliani in Iran da parte di oltre 200 aerei da combattimento”. Lo ha comunicato una nota dell’Idf, le forze di difesa israeliane, riferendosi all’uccisione negli attacchi in Iran di Mohammad Bagheri, capo di stato maggiore delle forze armate iraniane, Hossein Salami, comandante della Guardia rivoluzionaria iraniana e Ghulam Ali Rashid, comandante del comando iraniano Hatem al-Anbiya. “Questi sono tre spietati assassini di massa con le mani sporche di sangue internazionale. Il mondo è un posto migliore senza di loro”, commenta nel post l’esercito israeliano, celebrando il successo dell’operazione.

Il presidente Donald Trump, informato dell’attacco a inizio settimana, ha ribadito che gli Stati Uniti restano impegnati a risolvere la questione del nucleare iraniano attraverso la diplomazia, ma ha aggiunto che la Repubblica islamica deve prima rinunciare alla speranza di costruire un’arma nucleare. “Potrebbero diventare un grande Paese, ma prima devono rinunciare completamente alla speranza di ottenere un’arma nucleare”, ha aggiunto il tycoon. (dal quotidiano “Avvenire” – Nello Scavo)

È proprio vero che le guerre sono come le ciliegie: una tira l’altra. A quella contro Hamas (meglio sarebbe dire contro i palestinesi) Israele ne aggiunge una contro l’Iran. Trump sta a guardare e ha tutta l’aria di usare Israele come cane d’assalto per poi ammansire gli ayatollah.

Il motivo ufficiale di questo attacco israeliano sarebbe (il condizionale è più che mai d’obbligo) il rischio di avere la bomba atomica in mano agli iraniani. La bomba atomica mi dà fastidio in mano a qualunque Paese, l’Iran non fa certo eccezione, tuttavia, lo dico paradossalmente e provocatoriamente, non so se essere più preoccupato del certo nucleare israeliano o di quello eventuale iraniano. Se gli equilibri internazionali si basano sulla forza, potrebbe scattare persino la pia illusione è che i “forzuti” possano annullarsi fra di loro come in certi procedimenti algebrici.

Il disarmo nucleare, che per tanto tempo ha rappresentato un obiettivo intermedio rispetto al raggiungimento di una vera e propria coesistenza pacifica, è diventato un optional per chi la bomba atomica ce l’ha da tempo e un obbligo per chi non ce l’ha. E allora giù guerre per evitare altre guerre: un gatto che si morde la coda.

I Paesi dotati di armi nucleari sono Cina, Francia, India, Israele, Corea del Nord, Pakistan, Russia, Regno Unito e Stati Uniti: il peggior club possibile e immaginabile, che vuole essere esclusivo a prova di…bomba.

Qualcuno, a livello demenziale, sostiene che sarebbe una gran bella cosa che anche l’Italia ne fosse dotata. Con le atomiche non si scherza…

E in Europa? Il motivo per cui Francia e Inghilterra fanno la voce grossa è la loro dotazione nucleare: si fa sentire non chi ha migliori idee di pace, ma chi ha più forza di guerra. Così va il mondo.

Ho una residua speranza, vale a dire che la nuova guerra intentata da Netanyahu sia una dimostrazione di debolezza e di velleitario strapotere: le guerre sono spesso finite così, perché qualcuno ha fatto indigestione. Nel frattempo gli si sta consentendo di mangiare a crepapelle. La realpolitik non ha limiti!

Gli applausi dei pretoriani fiscali

«Il fisco è il biglietto da visita della credibilità di uno Stato, non deve soffocare la società ma aiutarla a prosperare», così la presidente del Consiglio Giorgia Meloni è intervenuta agli Stati generali dei commercialisti al Roma Convention Center la Nuvola, dove è stata accolta con una standing ovation. «Il fisco non deve opprimere famiglie e imprese con regole astruse e un livello di tassazione che non corrisponde al livello dei servizi che lo Stato eroga», ha aggiunto la premier, sottolineando che lo Stato deve usare le risorse «con buonsenso e senza gettare i soldi dalla finestra, che è quello che abbiamo tentato di fare in questi anni».

La premier, accompagnata nel suo intervento dal presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei commercialisti, Elbano De Nuccio, ha riaffermato la necessità di una «riforma fiscale che l’Italia aspettava da oltre 50 anni». Sulla complessità del sistema fiscale italiano la premier ha aggiunto: «Abbiamo fatto questa scelta perché riteniamo che il fisco non debba essere di difficile comprensione, qualcosa che è riservato agli addetti ai lavori ma uno strumento con il quale lo Stato interviene nella società, la aiuta a crescere, a prosperare mettendo chi crea ricchezza, le imprese, il tessuto produttivo nelle condizioni migliori possibili per poter creare quella ricchezza. Perché il Fisco – ha continuato – è, di fatto, lo strumento principe con il quale lo Stato dispone delle risorse per erogare i servizi, per far funzionare la macchina pubblica, per aiutare i più fragili, per finanziare gli interventi necessari a rendere la società più giusta e più equa e da questo deriva che il fisco è anche il biglietto da visita della credibilità di uno Stato»

Meloni ha poi ribadito come proseguirà l’operato del suo governo dopo la riforma delle aliquote Irpef: «Il nostro lavoro non è finito: intendiamo fare di più e concentrarci oggi sul ceto medio, che è la struttura portante del sistema produttivo italiano. Vogliamo lavorare per rendere il sistema più equo». La Presidente del Consiglio è tornata anche sul tema dell’evasione fiscale: «A chi ci accusa di aiutare gli evasori e fare condoni, rispondiamo con i fatti, che a differenza della propaganda non possono essere smentiti. Questo è il governo che ha ottenuto i risultati migliori nella storia nella lotta all’evasione. Chi vuole fare il furbo non ha spazi, ma chi è onesto e in difficoltà deve essere messo in condizione di pagare quello che deve. Questa è la distinzione semplice che abbiamo operato». (da open.online)

Lasciamo stare per un attimo i toni propagandisti della premier e l’opportunistica piaggeria corporativa dei commercialisti e teniamoci al contenuto (?) di questo intervento. Mi limito a porre alcune domande indiscrete.

Come sostiene Carlo Cottarelli su L’Espresso, uno degli stereotipi più frequenti è che i governi di destra taglino le tasse e quelli di sinistra le aumentino. Ma la pressione fiscale è aumentata in Italia da quando Meloni è a Palazzo Chigi. Come mai?

L’articolo 53 della Costituzione italiana stabilisce che tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva, e che il sistema tributario è informato a criteri di progressività. Ciò significa che chi ha un reddito più elevato deve contribuire con una percentuale maggiore rispetto a chi ha un reddito inferiore, al fine di garantire una distribuzione equa del carico fiscale. Come mai la progressività vale solo per i redditi da lavoro e non per gli altri per i quali, fra condoni, aliquote fisse e controlli all’acqua di rose, si finisce in una vergognosa proporzionalità?

Come mai i dati emergenti dall’agenzia delle entrate piangono miseria per il lavoro autonomo mentre dipendenti e pensionati al confronto fanno vita da nababbi?

Come mai anziché impostare una sana lotta all’evasione si ripiega continuamente sulla “condonite acuta”, che rappresenta un’insana spinta all’evasione? Come mai, in buona sostanza, da una parte si dovrebbe tentare di snidare gli evasori mentre dall’altra li si incoraggia e li si premia?

Torno ai toni che fanno la musica per gli orecchi di Giorgia Meloni, la quale è andata a fare un comizio elettorale, zeppo di demagogici luoghi comuni, chez-Consiglio nazionale dell’Ordine dei commercialisti, dicendo un mare di bugie e promettendo mari e monti. I commercialisti si sono spellati le mani per offrirle una standing ovation: a loro evidentemente va bene così. La massa dei tartassati fiscali se ne sta zitta o addirittura la considera il male minore. Minore di cosa? Peggio di così…

 

 

 

 

Gli immigrati sono da integrare se stanno a casa loro

Discutendo pacatamente con diverse persone sulle problematiche inerenti al fenomeno migratorio, mi sono spesso sentito rispondere: “Io non sono contrario agli immigrati, ma vorrei ospitare solo quanti lavorano, si comportano bene e si inseriscono correttamente nella nostra società”.

Il procedimento per ottenere la cittadinanza concede ampie garanzie in merito alle richieste di cui sopra e allora perché un 70% di cittadini non votando al referendum hanno dimostrato quanto meno indifferenza verso la concessione di questo diritto agli immigrati, mentre un 35% del 30%, vale a dire circa un 10% si è dichiarato contrario all’abbreviamento dei tempi da 10 a 5 anni per l’ottenimento della cittadinanza e con essa di tutti i diritti e di tutte le opportunità previste per i cittadini italiani?

In conclusione quattro italiani su cinque dimostrano riserva mentale e/o chiusura più o meno accentuata nei confronti della piena integrazione degli immigrati, di cui peraltro abbiamo bisogno dal punto di vista demografico e sociale. Sentite cosa succedeva nella mia famiglia allargata.

A mio padre si aggiungeva occasionalmente suo fratello, uno zio che veniva di rado a trovarci, partendo da Genova dove abitava con la sua famiglia e dove lavorava. Si reinseriva perfettamente nel contesto familiare e portava il suo alto contributo al clima “battutistico”, anche perché aveva mantenuta intatta la verve parmigiana e continuava a padroneggiare l’uso del dialetto mischiandolo a volte con quello genovese. Ne sortiva una miscela esplosiva di sortite originali e accattivanti.

Quando tornava a Parma e incontrava gli amici di un tempo si ricreava immediatamente il rapporto cameratesco condito dai ricordi. Al termine di questi fitti dialoghi mio zio sparava quasi sempre una simpatica battuta. Al momento dei saluti rivolto all’amico di turno, dopo avergli dato una pacca sulla spalla e/o avergli stretto calorosamente la mano, diceva: «Veh, arcòrdot bén, quand at me vôl gnir a catär…sta a ca tòvva».

Tutto sommato non siamo cattivi, un piccolo aiuto non lo neghiamo a nessuno, quanto a riconoscere diritti siamo invece molto stitici. C’è chi parla continuamente nella mano agli italiani, confondendo loro le idee, vendendo lucciole per lanterne: non ci mancava altro che Donald Trump a completare la torta contro gli immigrati.

Purtroppo, come lasciano intendere i flussi elettorali relativi al voto referendario, l’atteggiamento negativo sull’immigrazione non è “patrimonio culturale” esclusivo della gente di destra, ma sta insinuandosi anche a sinistra, laddove la dirigenza politica non riesce a formulare proposte complessive e concrete sul modo di fronteggiare ed affrontare positivamente il fenomeno migratorio.

Il problema degli immigrati è legato poi alla penosa diatriba sull’accertamento dei motivi che spingono i rifugiandi alla fuga dai loro paesi di origine. Ci sarebbero i rifugiandi di comodo? Pensate un po’, gente che scappa disperatamente e mette a repentaglio la propria vita, abbandona tutto, paga cifre pazzesche a scafisti senza scrupoli, si sottopone ad un viaggio in condizioni disastrose senza alcuna garanzia di arrivare a destinazione, rischia di morire annegata. E tra questi ci potrebbe essere un disperato di comodo? Ma fatemi il piacere. Poi arrivano e nessuno li vuole accogliere. Tutti li scansano e li sballottano di qua e di là, come se fossero dei rifiuti da far sparire. “Cme i rosp al sasädi”. Il referendum, volere o volare, ha confermato che questa è la nostra (in) civiltà!

 

 

Il ghiacciolo bianco e la Chiesa in bianco

In questi giorni, conversando amabilmente con una suora mia conoscente, è spontaneamente uscito un commento piuttosto imbarazzante (almeno per me) su Leone XIV: un papa che vuole accontentare un po’ tutti, che non vuole scontentare nessuno, un papa di centro usando una espressione presa a prestito dalla politica.

Ci siamo però fortunatamente entrambi ribellati a questa prospettiva, ricordando le scelte evangeliche e i perentori inviti di Gesù (il vostro parlare sia sì-sì, no-no).

D’altra parte le mosse continuano ad essere piuttosto contraddittorie, dietro le quali c’è chi vede discontinuità e chi continuità rispetto alla pastorale bergogliana.

Subito dopo l’elezione al soglio di Pietro, Papa Prevost ha incontrato monsignor Fernando Ocariz, prelato dell’Opus dei. Con la stessa naturalezza con cui i rapporti tra Bergoglio e la prelatura personale sono stati definiti distanti, in molti hanno visto quell’incontro come l’inizio di un riavvicinamento. In particolare, è stato notato il timing: Prevost ha subito incontrato Ocariz, dimostrando di voler perseguire l’unitarietà che ha citato in più di una circostanza. Anche per questo motivo, una delle mosse più sussurrate riguarda la possibilità che l’Opus dei torni a occuparsi di comunicazione in Vaticano. Sarebbe un atto ecclesiale dal grande potere simbolico. (Il Giornale)

L’Opus Dei non era certo un punto di riferimento per papa Francesco, d’altra parte è un’associazione che ha una filosofia tutt’altro che bergogliana. Parlare di carità e di unità come punti cardine del nuovo corso papale comporta inevitabili confusioni, perché non sempre l’unità ad intra è perseguibile se non a prezzo di edulcorare la carità ad extra.

È un messaggio fortissimo, di continuità evidente col papato di Jorge Mario Bergoglio. In udienza a San Pietro, Papa Leone XIV ha ricevuto venerdì una delegazione della Ong Mediterranea Saving Humans, assieme ad altri movimenti e associazioni laiche e cattoliche dell’Arena di Pace.

Incontro che arriva a pochi giorni dal rinvio a giudizio del fondatore della Ong, Luca Casarini, assieme al comandante della nave Mare Jonio e a diversi membri dell’equipaggio, che finiranno alla sbarra dopo la decisione del Gup del tribunale di Ragusa Eleonora Schininnà di processare con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione illegale, aggravata dal trarne profitto.

Un “processo ai soccorsi”, l’aveva invece definito Casarini, già al centro del caso Paragon, col suo telefono spiato tramite il software dell’azienda israeliana Paragon.

Sull’accoglienza dei migranti anche Robert Francis Prevost non si tira indietro e ribadisce l’impegno della Santa Sede: con Mediterranea nell’udienza in Vaticano hanno partecipato anche gli attivisti di Refugees in Libya.

“Soccorrere le persone, accoglierle e strapparle ai naufragi e ai respingimenti significa dare carne a quella fraternità che, come ha detto il papa, deve essere scoperta, amata, sperimentata, annunciata e testimoniata”, le parole del cappellano di bordo di Mediterranea, don Mattia Ferrari, anche lui finito nella rete di Paragon.

“Grazie anche allo straordinario supporto di Papa Francesco, oggi abbiamo una nuova nave di soccorso. Con quella praticheremo nel concreto e non solo a parole ciò che ci ha detto Papa Leone, al quale va tutta la nostra gratitudine per averci, ancora una volta, mostrato una Chiesa attenta agli ultimi e a chi patisce l’ingiustizia e gli orrori di questo mondo”, ha affermato don Ferrari al termine dell’incontro in San Pietro. (L’Unità)

Un colpo al cerchio e uno alla botte oppure l’opportuno sganciamento da pregiudiziali logiche nelle relazioni interne ed esterne alla Chiesa? Mi auguro che il tutto rientri nella seconda ipotesi anche se il timore del cerchiobottismo papale mi rende un po’ inquieto.

Molti dicono: bisogna aspettare. Non son d’accordo del tutto. Valgono assai ed hanno un grosso significato le prime impressioni, che generalmente sono quelle giuste. Un papa deve mettere in gioco il suo carisma e con esso la sua capacità di trascinare il popolo di Dio, non con atteggiamenti bipartisan, ma con proposte chiare ed entusiasmanti. Il carisma è la capacità di una persona di ispirare e influenzare gli altri, creando un forte legame emotivo e di fiducia. Si tratta di un insieme di tratti personali e di comportamenti che rendono una persona affascinante, attraente e capace di esercitare un forte ascendente sugli altri.  Il carisma, in teologia cristiana, è un dono soprannaturale dello Spirito Santo, conferito a un individuo per il bene della comunità e per la sua edificazione. Deriva dal greco “charisma,” che significa “grazia” o “dono”. Questi carismi sono doni speciali che permettono a un membro della Chiesa di servire la comunità in modo unico, secondo il suo talento specifico.

Non ho dubbi che lo Spirito Santo possa ricolmare di doni papa Leone XIV, ma sono impaziente nello scoprirli. Papa Francesco era stato trasparente fin dall’inizio, mentre temo che l’impostazione pastorale di Prevost possa arrivare col contagocce e magari fuori tempo massimo.

Per ora mi viene spontaneo definire maliziosamente papa Leone XIV come un ghiacciolo bianco al gusto di limone, non certo un pezzo di ghiaccio bollente.

 

 

 

 

 

 

Un’occasione politica improvvisata e sciupata

Il mesto flop partecipativo verificatosi in occasione dei cinque referendum, che sono andati ben lontani dal raggiungere il previsto quorum del 50% + 1 di votanti, impone alcune serie riflessioni in ordine alle motivazioni di chi li ha promossi e sostenuti e di chi li ha respinti o snobbati.

Ormai purtroppo la disaffezione alle urne da parte dei cittadini sta diventando cronica e tutto sommato questo fatto non disturba la nostra penosa classe politica, che trova il modo di nascondere così le proprie malefatte nonché il modo di prescindere da un vero e proprio giudizio dell’elettorato: siamo tra la rassegnazione e l’opportunismo, mentre per i cittadini siamo fra la, per certi versi comprensibile, protesta silenziosa e l’ingiustificabile menefreghismo egoistico.

Speravo che i referendum rappresentassero comunque una occasione per incanalare nelle urne la generica protesta invece purtroppo hanno vinto l’egoismo sociale e l’indifferenza, che a volte diventa persino ostilità, verso i problemi del mondo del lavoro e dell’integrazione migratoria.

Al di là del merito dei quesiti pensavo potesse essere un’occasione per smuovere le acque stagnanti della politica italiana con la possibilità di invertire la tendenza all’astensionismo e di lanciare un messaggio di cambiamento per quanto concerne la squallida azione di un governo inqualificabile, mettendolo almeno un po’ alla punta e facendogli sentire il fiato degli elettori sul collo.

Nel merito speravo che la coscienza dei cittadini venisse toccata dalla precarietà del lavoro giovanile, dalla insicurezza nei rapporti di lavoro, dalla rischiosità delle condizioni di lavoro e dalla incertezza di vita dei migranti presenti da tempo nella nostra società, invece tutti parlano di sicurezza a senso unico come se tutto potesse dipendere dalla lotta alla delinquenza, come se i lavoratori fossero delle sanguisughe e come se i migranti fossero un corpo estraneo.

Ci sono poi alcuni gatti che si mordono la coda. Mi riferisco alla scarsa rappresentatività e capacità di mobilitazione dei sindacati, che erano i promotori principali di questi referendum. É il caso di ricordare un famoso detto: “piazze piene e urne vuote”. Un conto è infatti promuovere e tenere manifestazioni pubbliche colme di partecipanti, altra cosa è intervenire nella politica e sulle leggi che da essa promanano. Anche la CGIL evidentemente non riesce a influenzare e sensibilizzare i propri iscritti che preferiscono rifugiarsi in uno sterile corporativismo.

La nostra società, pur con tutto il rispetto per la dirigenza sindacale e per Maurizio Landini in particolare, non è più contenibile nel quadro classico del rapporto di lavoro dipendente e quindi risulta una pia illusione quella di sostituire gli inconcludenti e teorici partiti con i vivaci e concreti sindacati, considerato anche il fatto che i sindacati dei lavoratori sono piuttosto trasversali rispetto agli schieramenti politici (mi risulta che ad esempio tanti iscritti alla CGIL siano di estrazione politica leghista…).

Non parliamo dei partiti di sinistra che scontano enormi ritardi nell’analisi  e nella comprensione dell’evoluzione della nostra società e nella presa d’atto dei problemi reali emergenti dalle nuove povertà, preferendo rifugiarsi negli schemi sociali classici non più sufficienti a rispondere alle ansie, alle preoccupazioni e alle problematiche attuali: i referendum di questa tornata erano forse un po’ troppo caratterizzati da sociologismo datato, caricaturalmente contrastabili come rimasugli ideologici e non sufficientemente puntati e spiegati nella loro attenzione ai soggetti deboli.

C’era poi da rimuovere il macigno della incoerenza di una sinistra che tempo fa ha tentato un po’ velleitariamente di rendere flessibili i rapporti di lavoro al fine di creare occupazione (era questa per dirla in breve la logica del jobs act di renziana memoria) per poi arrivare dopo alcuni anni a rimangiarsi queste scelte dopo averne verificato l’impatto molto discutibile o addirittura piuttosto negativo sul lavoro. Sono errori e azzardi ammissibili, ma che storicamente e politicamente si pagano caro.

Sono sicuro che chi scommetteva politicamente sui risultati di questo referendum per trarne una prospettica alternativa popolare rispetto all’ultimo voto politico a livello nazionale si rifugerà nella comunque ragguardevole messe di “sì”, che, volenti o nolenti, suonano come un atto di sfiducia verso gli attuali governati e la loro maggioranza sostanzialmente basata sull’astensionismo. In dialetto parmigiano si dice: “Putost che nient è mej putost”. Un modo come un altro per non ammettere di avere perso e di avere sbagliato nel coltivare i referendum come una scorciatoia politica e una spallata al governo.

Mio padre anche in campo calcistico parmense non si lasciava troppo condizionare dai media dell’epoca. L’unica eccezione era la lettura dell’opinione di Curti, pubblicata sul quotidiano locale del lunedì, un commento essenziale ed equilibrato che finiva, quasi sempre, con la solita sconsolata espressione “un’altra partita da dimenticare”. E mio padre chiosava: “Pri tifóz dal Pärma a gh vól la memoria curta”.

Alla fine ingloriosa dei referendum si può sconsolatamente affermare: “un’altra occasione politica sciupata malamente”. Mio padre, ricorderebbe, amaramente e provocatoriamente, un famoso proverbio: “Chi è causa del suo mal pianga se stesso”. Tra il serio ed il faceto, dava però una sua versione: “Chi è causa del suo mal pianga me stesso”. Ed infatti c’è molto di cui piangere sugli altri, ma anche su se stessi!