Un senso critico a prova di papa

L’unità, secondo Papa Leone, è il segno della presenza dello Spirito. Superare le divisioni, ha affermato, è di fatto un dono e un modo per capire che quello che si fa viene da Dio, un vero e proprio «criterio di verifica» del lavoro svolto. Citando sant’Agostino, infatti, Leone XIV ha notato che «come gli uomini spirituali godono dell’unità, quelli carnali cercano sempre i contrasti» (Papa Leone XIV al capitolo degli Agostiniani).

 

«Per favore, che nelle vostre comunità mai ci sia indifferenza. Comportatevi da uomini. Se sorgono discussioni o diversità di opinioni, non vi preoccupate, meglio il calore della discussione che la freddezza dell’indifferenza, vero sepolcro della carità fraterna» (Papa Francesco, udienza ai sacerdoti del movimento di Schönstatt).

 

La continuità non doveva essere l’imperativo irrinunciabile della Chiesa post-bergogliana? Se qualcuno trova nelle pur sintetiche proposizioni pastorali di cui sopra concordanza è molto bravo, io non ci riesco e quindi…sono preoccupato dell’aria nuova (?) che tira nella Chiesa cattolica.

Quando a mio padre rimproveravano di essere esageratamente permaloso di fronte a certe espressioni, era solito affermare convintamente: «L’ è al tón ch’a fà la muzica…».

Il tono prevostiano, checché se ne dica, è molto diverso da quello bergogliano. Niente di male! Però non mi si voglia far credere che tra i due papati c’è continuità.

E siamo solo agli inizi, il bello deve ancora venire. Fintanto che si resta nelle dichiarazioni di principio, come ad esempio il discorso della pace, tutto torna a livello di continuità, se invece si scende nella prassi e nello stile pastorali le differenze sono evidenti. Negarle è il solito escamotage clericale.

Ut unum sint, d’accordo, ma stiamo bene attenti a non confondere le diversità con le anticamere dell’eresia. La storia della Chiesa insegna a mio giudizio che l’intolleranza per le opinioni difformi dal dettato della tradizione e del dogmatismo ha creato guasti irreparabili.

Mia sorella Lucia mi ha fatto da battistrada e da esempio sulla via della partecipazione convinta ma critica alla vita ecclesiale. È per me un insegnamento irrinunciabile, a prova di papa. Il senso critico ce l’ho nel sangue, probabilmente proviene da mio padre: avere delle idee in controtendenza è comunque sempre meglio che non averne e appiattirsi sulle minestre che passa il convento.

Pertanto gli appelli all’unità di papa Leone non li spedisco al mittente, ma li prendo con le molle e li valuto con senso critico. Se l’unità è un segno dello Spirito, credo che sia tale anche la capacità di critica costruttiva ma decisa.

Da bambino ho chiesto ripetutamente a mio padre di darmi alcuni ragguagli su cosa fosse stato il fascismo. Tra i tanti me ne diede uno molto semplice e colorito. Se c’era da scegliere una persona per ricoprire un importante incarico pubblico, prendevano anche il più analfabeta e tonto dei bottegai (con tutto il rispetto per la categoria), purché avesse in tasca la tessera del fascio e ubbidisse agli ordini del federale di turno. «N’ éra basta ch’al gaviss la tésra in sacòsa, po’ al podäva ésor ànca un stupidd, ansi s’ l’ éra un stuppid, ancòrra méj…». A quel punto chiesi: «E tu papa, ce l’avevi quella tessera lì?». «Ah no po’!» mi rispose seccamente.

Mia madre, donna di fede rocciosa, non aveva mai voluto aderire ad alcuna associazione cattolica per paura di perdere la fede. Non gradiva tessere di appartenenza religiosa, le bastava il certificato di Battesimo e il certificato anagrafico che la legava al fratello sacerdote: al resto pensava lei con saggezza e carità.

Con questi precedenti famigliari non c’è papa che tenga, mi sento in diritto di assentire o dissentire liberamente dalla linea ufficiale della Chiesa e quindi non sono d’accordo con Leone XIV, che sembra buttare il bambino del confronto assieme all’acqua sporca del conflitto. D’altra parte è molto difficile tracciare una linea di confine tra confronto e conflitto…

 

 

 

 

 

La macchia indelebile del sangue dei bambini palestinesi.

La premier Giorgia Meloni ha detto di essere stata denunciata per “concorso in genocidio” alla Corte penale internazionale dell’Aja insieme al ministro degli Esteri Antonio Tajani, a quello della Difesa Guido Crosetto, e all’ad di Leonardo Roberto Cingolani. La denuncia è arrivata per il ruolo che l’Italia avrebbe svolto nella fornitura di armi a Israele e con cui si sarebbe reso complice dei crimini contro il popolo palestinese. Il premier israeliano Netanyahu e il suo ministro alla Difesa Gallant, invece, non hanno mai ricevuto l’accusa specifica di genocidio.

Giorgia Meloni ha parlato di questa accusa in una puntata di Porta a Porta, su Rai 1, con Bruno Vespa.

“Io, il ministro Crosetto, il ministro Tajani, e credo l’amministratore delegato di Leonardo Roberto Cingolani, siamo stati denunciati alla Corte penale internazionale per concorso in genocidio “, ha detto la presidente del Consiglio.

Giorgia Meloni ha poi commentato: “Ora io credo che non esista un altro caso al mondo e nella storia di una denuncia del genere”.

La denuncia di cui parla Giorgia Meloni è datata 01 ottobre e, come riporta l’agenzia di stampa AFP, è stata firmata da circa 50 persone, tra cui professori di giurisprudenza, avvocati e diverse personalità pubbliche.

Le personalità che hanno firmato la denuncia, hanno accusato la Meloni e altri politici di complicità nella fornitura di armi a Israele. In particolare, secondo i firmatari, il governo italiano si sarebbe “reso complice del genocidio in corso e dei crimini di guerra e contro l’umanità contro il popolo palestinese”.

Se sul governo italiano c’è un’accusa di complicità al genocidio, su quello israeliano paradossalmente no. Infatti è vero che sul primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e sul ministro della Difesa Gallant pende un mandato di cattura internazionale, in base a decisione del novembre 2024 della Corte penale internazionale che ha parlato chiaramente di “crimini di guerra a Gaza”. Ed è altrettanto vero che un’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite ha riconosciuto, il 16 settembre 2025, che quello che avviene a Gaza contro il popolo palestinese è un genocidio. Ma è altrettanto vero, come ricorda Al Jazeera, che né Netanyahu né Gallant sono mai stati accusati in modo specifico di genocidio.

 Al Jazeera riporta i dati dello Stockholm International Peace Research Institute, secondo cui l’Italia sarebbe uno dei tre Paesi, oltre a Stati Uniti e Germania, ad aver esportato “armi convenzionali di grandi dimensioni”, dal 2020 al 2024. Nello specifico, secondo lo SIPRI, le armi in questione sarebbero elicotteri leggeri e cannoni navali oltre a componenti per i caccia F-35.

Il ministro della Difesa Crosetto ha ribadito che l’Italia invia armi a Israele solo in base a contratti firmati prima del 7 ottobre 2023 e che comunque sono state chieste garanzie a Tel Aviv sul fatto che queste armi non vengano utilizzate contro i civili a Gaza. (virgilio.it – Giulia Bassi)

Non mi imbarco nella complessa questione giuridica: sarà la Corte penale internazionale a dipanare questa squallida matassa. Mi pongo invece provocatoriamente un interrogativo etico: come fanno i governanti italiani a dormire alla notte dopo aver consentito la fornitura ad Israele di armi, che, direttamente o indirettamente, vengono impiegate nel massacro dei palestinesi.

Ripenso a Giorgio La Pira che ammetteva di non riuscire a dormire nel suo letto sapendo che c’erano a Firenze persone che dormivano sotto i ponti.

Un po’ più di coscienza e un po’ meno cinismo non guasterebbero. Non serve vittimizzarsi per pulirsi la coscienza e nemmeno nascondersi dietro l’impunità di fatto garantita ai governanti di Israele proprio anche grazie all’omertoso atteggiamento italiano.

Faccio riferimento ancora all’amico Alfredo Alessandrini che ha scritto sulla “Gazzetta di Parma”: «L’Europa e il nostro governo devono intervenire non con la prudenza attuale, che è inutile e non serve a nulla, ma con determinazione e fatti concreti, a partire dal blocco delle forniture di armi e da un isolamento economico e commerciale di Israele. Davanti ai bambini che chiedono piangendo un cucchiaio di cibo, la reazione deve essere forte e coraggiosa. Pensiamo ai nostri figli, ai nostri bambini, ai nostri nipoti e a quanto le nostre famiglie fanno per loro anche nei momenti di difficoltà e cerchiamo di far pervenire ai nostri rappresentanti politici, ai nostri governanti e ai leader europei il senso del nostro sdegno e la richiesta pressante di un cambiamento di atteggiamento verso il Governo colpevole di Netanyahu».

C’è quindi oltre alla responsabilità morale quella politica: sono due facce della stessa medaglia.  Non serve andare da Bruno Vespa a raccontare che Cristo è morto dal freddo dei piedi. Il sangue dei bambini palestinesi chiede aiuto e giustizia a tutti coloro che possono fare qualcosa e stanno facendo poco o niente.

Non so se esistano i presupposti per la denuncia formulata da circa 50 persone, tra cui professori di giurisprudenza, avvocati e diverse personalità pubbliche. Preferisco lanciare un avvertimento: il sangue dei giusti ricadrà su chi lo ha sparso e/o ha consentito che fosse sparso. Non mi preoccupa essere tacciato di seminagione di odio e di criminalizzazione degli avversari.

Il discorso non vale solo per Giorgia Meloni, la quale, come minimo, credo non abbia fatto tutto quanto era nelle sue possibilità per opporsi al massacro dei palestinesi, ma per tutti coloro che si macchiano, direttamente o indirettamente, dolosamente o colpevolmente, per opportunismo o per indifferenza, di atti commissivi od omissivi in relazione a veri e propri crimini verso l’umanità.

 

 

I bizantinismi sulla pelle dei palestinesi

La relatrice Onu ha scelto di abbandonare il programma di La7 dopo un confronto acceso sul termine «genocidio» e prima che Francesco Giubilei, anch’egli ospite del talk, concludesse il suo intervento.

Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati, ha lasciato lo studio di in Onda, su La7, durante la puntata andata in onda questa sera. Invitata per discutere della situazione a Gaza, Albanese si è confrontata con il giornalista del Corriere della Sera Federico Fubini e con Francesco Giubilei, vicino a Fratelli d’Italia. Sin dall’inizio del dibattito, Albanese ha difeso l’uso del termine «genocidio» per descrivere l’azione militare israeliana nella Striscia. Una posizione contestata da Fubini, secondo cui «non sta a nessuno di noi stabilire se si tratti di genocidio o meno: serve un’inchiesta formale». Il confronto, già teso, si è ulteriormente acceso dopo l’intervento di Giubilei, culminando nell’uscita dallo studio della relatrice Onu.

Il punto di rottura è arrivato quando Francesco Giubilei ha evocato le parole della senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, sostenendo che definire genocidio l’intervento militare israeliano a Gaza rappresenti un’accusa impropria. Prima della fine dell’intervento di Giubilei, la relatrice Onu ha scelto di interrompere la propria partecipazione e ha lasciato lo studio.

(…)

«Se una persona ha un tumore, non va a farsi fare la diagnosi da un sopravvissuto a quella malattia ma da un oncologo». Meno di 24 ore dopo aver lasciato lo studio di In Onda, su La7, per protesta contro le posizioni degli altri ospiti, Francesca Albanese ha spiegato la sua reazione a Fanpage. E si è concentrata in particolare su Liliana Segre, che – come aveva ricordato in trasmissione Francesco Giubilei – ha sempre negato che la condotta militare israeliana a Gaza sia classificabile come genocidio: «C’è chiaramente un condizionamento emotivo che non la rende imparziale e lucida davanti a questa cosa». 

La relatrice speciale dell’Onu per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati è tornata sull’episodio giustificando la sua scelta di abbandonare gli studi. Da una parte, l’appuntamento per registrare un podcast: «Sono una persona precisa ed ero già stata costretta a un ritardo, ma non accetto di prolungarlo se devo confrontarmi con due persone che non sono preparate sul tema Gaza». Per Francesca Albanese, infatti, «l’interlocuzione con chi non ha conoscenze del tema è impossibile. Io sono una giurista, una tecnica». Il riferimento è, chiaramente, alla vaghezza dell’ospite Federico Fubini sul tema del genocidio: «Credo che in questo momento nessuno su questo punto si possa pronunciare».

Le parole che hanno scatenato però la reazione di Francesca Albanese sono state quelle di Giubilei: «Sul genocidio sono d’accordo con la senatrice Segre». A quel punto si è alzata e se n’è andata: «Immagini il paradosso di questa situazione: chiamare in causa una persona sopravvissuta all’olocausto e al genocidio. Conosco tantissimi esperti di storia, anche sopravvissuti all’olocausto, che dicono che quello a Gaza sia un genocidio. Ma siccome la posizione della senatrice Segre torna utile, si utilizza quella». Insomma, la senatrice a vita sarebbe strumentalizzata: «Ho grandissimo rispetto per la senatrice Segre, una persona che ha vissuto traumi indicibili. Per questo sostengo che ci sono gli esperti e che non è la sua opinione, o la sua esperienza personale, a stabilire la verità su quanto sta accadendo».

Anche perché, per Albanese, la visione di Liliana Segre viene inevitabilmente offuscata dal suo vissuto. Eppure influenza comunque il dibattito pubblico: «Il dato fondamentale in questo paese è l’analfabetismo funzionale. La gente non capisce ciò che legge e non ha in questo contesto di dibattito pubblico sulla Palestina gli strumenti per capire cosa sta accadendo». E alle accuse di propaganda risponde: «Sto investendo molte energie nel cercare di far capire alla gente quali sono i termini del diritto sulla questione. Ci sono fior fiore di sionisti accademici, perché invitare in trasmissione gente che non sa niente?». (open.online – Ugo Milano)

 

Sono oltre modo d’accordo con Francesca Albanese. Mentre posso capire l’imbarazzo psicologico dei sopravvissuti ad Auschwitz nell’ammettere che Israele stia ripetendo sui palestinesi i crimini commessi dai nazisti sugli ebrei, non accetto chi strumentalizza tale comprensibile titubanza per negare l’evidenza.

È perfettamente inutile nasconderlo: imperversa a livello governativo, politico, culturale e mediatico una sorta di riserva mentale riguardo al comportamento di Israele. Si risolve il caso adottando la corrispondenza biunivoca fra la strage perpetrata da Hamas e la lucida e sistematica azione di genocidio verso l’intero popolo palestinese.

Il caro amico Alfredo Alessandrini ha recentemente scritto sulla “Gazzetta di Parma”: «La tragedia dell’Olocausto è divenuta popolare ed è entrata nella sensibilità comune. Tutti siamo stati vicini al popolo ebraico così drammaticamente colpito. Ma allo stesso modo siamo a fianco e soffriamo ogni giorno il dramma del popolo palestinese a causa dello sterminio in atto. Una reazione di Israele al grave atto di terrorismo del 7 ottobre era nei fatti. Ma ora viene perpetrata non una reazione ma un’azione di sterminio di un popolo a causa delle bombe ma anche della fame e della sete, quindi di una vera e propria carestia».

È inaccettabile la narrazione basata, come dice Francesca Albanese, sulla opportunistica malafede dei politici e dei loro tirapiedi e accolta dall’ignoranza, più o meno colpevole, di gran parte della pubblica opinione.

Stare poi a sottilizzare sul termine “genocidio” è un macabro espediente per sgattaiolare fuori dall’enorme tragicità del problema.

Mio padre, quando si accorgeva che la ricerca del colpevole della morte di una persona era condizionata da ostruzionismi e formalismi e non si riusciva a trovarne la causa e non si individuava nemmeno l’esecutore materiale dell’eventuale delitto, concludeva sarcasticamente: «As védda che quälcdòn al gà preghè un cólp…». Evidentemente ai palestinesi sono stati “pregati” molti colpi…o in alternativa si vuol addirittura far credere che si siano sostanzialmente suicidati gridando “evviva Hamas”.

L’episodio delle subdole censure a Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati, rientra infine nella strisciante delegittimazione delle istituzioni internazionali per far posto alla logica del diritto del più forte. Tutti a recriminare sulla mancanza di autorità da parte dell’Onu, salvo lanciare una bomba putiniana a poca distanza dal segretario generale Guterres in missione di pace in Russia e Ucraina, salvo fregarsene altamente delle sue risoluzioni o addirittura impedirle, salvo i veri e propri sabotaggi trumpiani, salvo gli spudorati attacchi di Netanyahu, salvo appunto contestare, in modo peraltro triviale, l’autorevole opinione di una sua alta e competente funzionaria.

 

 

La politica francese è un casino pazzesco

PARIGI. È durato meno di un mese l’incarico del primo ministro Sebastien Lecornu, che ha presentato questa mattina le dimissioni al presidente Emmanuel Macron. Ad annunciarlo l’Eliseo, dopo che ieri sera era stata presentata la nuova squadra di governo. Una lista di ministri quasi identica a quella del precedente esecutivo, che ha provocato le ire delle opposizioni, pronte a sfiduciare Lecornu alla prima occasione. Ma le scelte fatte hanno provocato malumori interni alla stessa coalizione, con i Repubblicani scontenti soprattutto della scelta di nominare il loro ex membri Bruno Le Maire alla guida del dicastero della Difesa dopo anni passati a gestire quello dell’Economia. Dal Rassemblement National di Marine Le Pen alla sinistra: tutti decisi a far cadere il nuovo governo.

Adesso il presidente Emmanuel Macron dovrà decidere se nominare un nuovo primo ministro o se sciogliere l’Assemblea nazionale come richiede Le Pen e indire elezioni legislative anticipate. L’ipotesi delle dimissioni, domandate a gran voce dal partito della sinistra radicale La France Insoumise, sembra essere un’ipotesi remota e difficilmente realizzabile. «Ci sarà certamente un ritorno alle urne nelle prossime settimane», ha commentato il presidente del Rassemblement National, Jordan Bardella, spiegando che il suo partito è pronto «ad assumersi le proprie responsabilità». (“La Stampa” – Danilo Ceccarelli)

Non riesco sinceramente a capire cosa stia succedendo in Francia. L’assetto istituzionale (repubblica semipresidenziale) sta dimostrando tutti i suoi limiti; il panorama politico è confuso tra una destra forte che soffre però di conventio ad excludendum, una sinistra radicale che non riesce a bucare le urne, un presidente, con tante macchie e sostanzialmente senza partito, che non si rassegna  e resta in carica sul filo del rasoio tagliente  eccome per  la pelle dei francesi; la piazza in preda alle proteste impossibili da interpretare, rappresentare e sintetizzate. Un casino pazzesco!

Mi sembra che in Francia si stiano scatenando tutti i tuoni e lampi della democrazia occidentale: meno male che non esiste un personaggio carismatico alla Donald Trump. Sarebbe per noi italiani un cugino oltre modo scomodo: se Parigi piange, Roma non ride e viceversa.

Credo che occorrerebbe partire da una riforma istituzionale, ma chi la può portare avanti se i partiti sono affetti da schizofrenia totale? La società civile si sfoga nelle piazze, ma chi la può veramente ascoltare e minimamente rassicurare. La destra è estremisticamente inaffidabile per i francesi, mentre la sinistra è troppo popolare e poco rassicurante. Emmanuel Macron ha deluso tutte le aspettative all’interno e all’estero.

Non vorrei che i francesi si stancassero della situazione insostenibile e finissero per cedere alla tentazione di un governo di destra, guardando magari all’Italia che ha disgraziatamente superato il fattore NZ (nazifascista) e alla conseguente fasulla stabilità italiana.

Non vorrei che la sottile vena nazionalista si trasformasse in vero e proprio antieuropeismo con effetti catastrofici sul già debole impianto della Ue.

Se fossi un francese e avessi voglia di esercitarmi in geopolitica, farei fatica districarmi nel casino, forse mi schiererei con la sinistra radicale per chiedere le sacrosante dimissioni di Macron per poi sperare che resti in vigore la conventio ad excludendum e si trovi un candidato presidente che risvegli la democrazia francese e scelga un europeismo definitivo e convinto. L’Europa, che ha avuto nel francese Schuman un pioniere dell’europeismo assieme ad Adenauer e de Gasperi, potrà trovare un altro pioniere che sappia magari fare squadra con nuovi pionieri italiano e tedesco da individuare? Tutto da rifare. Sognare, sperare e tentare non nuoce!

PIL, povertà internazionale lordata

Visto da sinistra, quella che dovrebbe guardare ai problemi reali della gente

Gli ultimi numeri contenuti nel position paper sono impietosi: oltre 2,2 milioni di famiglie (8,4%) – pari a 5,7 milioni di individui, in pratica una persona su dieci – vive in povertà assoluta. Una platea in cui si contano più di 1,3 milioni di minori. Quasi un bambino su sette in Italia cresce in condizioni di privazione materiale grave. A essere colpite sono soprattutto le famiglie numerose, quelle monogenitoriali e quelle con almeno un componente straniero. Ma quasi nessuna categoria può considerarsi davvero immune dallo scivolare in una condizione di miseria.

«La povertà è ormai un fenomeno strutturale e intergenerazionale, aggravato da due fattori principali: la riduzione del sostegno pubblico – con il passaggio dal Reddito di cittadinanza all’Assegno di inclusione, che ha escluso una parte significativa dei beneficiari – e una forte accelerazione dell’inflazione (in particolare per i beni alimentari e per gli affitti), che ha eroso il potere d’acquisto delle famiglie vulnerabili», ha affermato il portavoce dell’Alleanza contro la povertà, Antonio Russo. (da “Avvenire” – Luca Mazza)

 

Visto da destra, quella che sparge virtuale e illusoria ricchezza

Fitch Ratings ha migliorato il rating di lungo termine dell’Italia a ‘BBB+’ da ‘BBB’. L’outlook è stabile. Fitch ha anche migliorato il rating di breve termine dell’Italia a ‘F1’ da ‘F2’. L’upgrade del rating riflette i seguenti driver:

  1. i) Resilienza fiscale migliorata grazie ad una crescente prudenza fiscale e un forte impegno nel raggiungimento degli obiettivi fiscali a breve e medio termine; 
  2. ii) Performance fiscale superiore alle attese con una graduale riduzione del deficit nel 2025-2027, sostenuta da miglioramenti strutturali nelle entrate e da un rigido controllo della spesa. Si prevede un deficit del 3,1% del PIL quest’anno (rispetto al target ufficiale del 3,3%), grazie a performance solide delle entrate fiscali, in linea con una base imponibile in espansione (merito del miglioramento del mercato del lavoro) e dell’aumento della compliance fiscale;

iii) Contenimento della spesa: le autorità rimangono impegnate nel contenimento della spesa, puntando a ridurre il deficit al 2,6% nel 2027 e sotto il 2 % entro il 2029;

  1. iv) Debito stabile: Il debito dell’Italia è tornato ai livelli pre-pandemia più rapidamente del previsto (a differenza di molti paesi dell’eurozona).

Fitch prevede un aumento modesto del debito dal 135,3% del PIL nel 2024 al 137,5% nel 2026, principalmente a causa di aggiustamenti di stock – flow legati in particolare al superbonus.

Previsto un rapporto debito/PIL in discesa di circa 1 punto percentuale all’anno (fino al 134% nel 2030), grazie ad avanzi primari sostenuti e a una crescita nominale moderata (vicina al 3%). (da websim.it)

 

Visto da un presidente Usa, che ammazza la politica

Ho lasciato un’era di calma e stabilità” al termine del primo mandato, che ha poi lasciato spazio a una delle “grandi crisi dei nostri tempi”, con una “serie di disastri”.

Ma ora, in soli otto mesi, “siamo nell’età dell’oro dell’America”.

Lo ha detto Donald Trump intervenendo all’assemblea dell’Onu. Il presidente, che interviene all’Onu per la prima volta dalla rielezione, è stato accolto dagli applausi dell’aula.

Visto da un quasi-presidente Usa, che fu ammazzato perché disturbava una certa politica

In piena campagna elettorale, il 18 marzo 1968, Robert Kennedy parlò alla Kansas University. Con questo discorso mirò al cuore della platea con parole semplici, invitando chi lo ascoltava ad attuare un cambiamento nella scala di valori e negli strumenti utilizzati dagli statisti per valutare il livello di ricchezza e di benessere di un paese. In particolare criticò duramente il Prodotto interno lordo (PIL) come indicatore di benessere in un’epoca in cui il concetto non era ancora così noto e dominante.

Secondo Kennedy il PIL, pur essendo un indicatore che misura il valore complessivo dei beni e servizi finali prodotti all’interno di un Paese in un certo intervallo di tempo (solitamente un anno solare) destinati al consumo finale, indica soltanto quanto viene prodotto ma non indica se ciò che viene prodotto serva effettivamente, venga consumato per necessità oppure sia frutto di bisogni immaginari creati ad hoc dal sistema dei media.

«Con troppa insistenza e troppo a lungo, sembra che abbiamo rinunciato alla eccellenza personale e ai valori della comunità, in favore del mero accumulo di beni materiali. Il nostro PIL ha superato 800 miliardi di dollari l’anno, ma quel PIL – se giudichiamo gli USA in base a esso – quel PIL comprende l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le autostrade dalle carneficine. Comprende serrature speciali per le nostre porte e prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende la distruzione delle sequoie e la scomparsa delle nostre bellezze naturali nella espansione urbanistica incontrollata. Comprende il napalm e le testate nucleari e le auto blindate della polizia per fronteggiare le rivolte urbane. Comprende il fucile di Whitman e il coltello di Speck e i programmi televisivi che esaltano la violenza al fine di vendere giocattoli ai nostri bambini.»

Robert Kennedy si chiede quale possa essere l’utilità di un indicatore di ricchezza che misura solo ciò che producono le industrie e non invece la quantità e la qualità del patrimonio immateriale come la creazione dell’intelletto o la ricchezza delle relazioni interpersonali.

«Eppure il PIL non tiene conto della salute dei nostri ragazzi, la qualità della loro educazione e l’allegria dei loro giochi. Non include la bellezza delle nostre poesie e la solidità dei nostri matrimoni, l’acume dei nostri dibattiti politici o l’integrità dei nostri funzionari pubblici. Non misura né il nostro ingegno né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione per la nostra nazione. Misura tutto, in poche parole, eccetto quello che rende la vita degna di essere vissuta. Ci dice tutto sull’America, eccetto il motivo per cui siamo orgogliosi di essere americani.» (da Wikipedia – Discorso sul Pil)

 

Visto da un incallito (cristiano) utopista

A chi avrà avuto la pazienza di leggere le citazioni di cui sopra rivolgo un ringraziamento ed un invito a riflettere. Da parte mia aggiungo soltanto che mi schiero “demagogicamente” dalla parte dei poveri e “idealisticamente” dalla parte dei sogni kennediani.

Perbenismo di mente o spregiudicatezza di cuore

Giorgia Meloni lancia una stoccata alla Cgil e al sindacato di base Usb, promotori di uno sciopero generale per la Global Sumud Flotilla, la missione umanitaria diretta a Gaza e fermata da Israele. “Mi sarei aspettata che almeno su una questione che reputavano così importante non avessero indetto uno sciopero generale di venerdì perché il weekend lungo e la rivoluzione non stanno insieme”, ha spiegato la presidente del Consiglio al suo arrivo a Copenaghen (Danimarca) per il vertice della Comunità politica europea.

L’iniziativa presa dall’Usb e dal sindacato guidato da Maurizio Landini “non porterà alcun beneficio al popolo della Palestina, in compenso porterà molti disagi al popolo italiano. Lo stesso popolo italiano che ancora ieri veniva ringraziato dai palestinesi per il lavoro che sta facendo”, ha spiegato Meloni. “Ricordo che per esempio ieri siamo stati la prima nazione ad aprire un corridoio per i ricercatori. Ricordo che siamo la nazione non islamica che ha evacuato più persone per essere curate nei propri ospedali e siamo una delle prime nazioni al mondo per consegna di aiuti”. (today.it)

(…)

Confermato lo sciopero generale dopo il fermo degli attivisti della Global Flotilla. Le organizzazioni sindacali presenteranno un ricorso al giudice del lavoro contro la delibera della Commissione di garanzia sugli scioperi che lo ha dichiarato illegittimo per la mancanza di preavviso. L’esame, in questo caso, richiederà alcuni giorni.

“Il nostro sciopero è pienamente legittimo perché noi l’abbiamo fatto rispettando la legge 146 che prevede che di fronte a violazioni costituzionali, la messa in discussione della salute e sicurezza dei lavoratori c’è la possibilità di fare lo sciopero senza il preavviso” ha detto a RaiNews24 il segretario generale della Cgil Maurizio Landini confermando l’agitazione. “Anzi – ha aggiunto Landini – impugniamo la delibera della Commissione e se questa dovesse comportare verso l’organizzazione sindacale delle sanzioni siamo pronti a impugnare anche quelle”. “Non si stanno rispettando le nostre norme costituzionali”, non sono tutelati “nostri connazionali arrestati in acque libere” da Israele. (today.it)

Senza scadere nel manicheismo, si può commentare schematicamente: “visto da destra e visto da sinistra”. Ci sono infatti due modi di interpretare la Costituzione e il rispetto costituzionale delle leggi, quello del perbenismo burocratico e quello della spregiudicatezza democratica.

Di fronte alla macelleria israeliana e a chi osa provocatoriamente chiedere la chiusura di questo macabro negozio in cui si attua un vero e proprio massacro del popolo palestinese, che senso ha nascondersi dietro il dito della legittimità dell’esercizio del diritto di sciopero? Non uno, ma mille scioperi in difesa di chi rischia il massacro! Se non si fa uno sciopero generale per simili sacrosanti motivi, quando mai si potrà e dovrà fare?

Sì, perché, oltre la sorte dei partecipanti alla Flotilla, c’è in ballo innanzitutto e soprattutto quella dei palestinesi, dei quali – al di là degli equilibrismi pattizi dei mistificatori col cuore di pietra e degli esitanti e paralizzanti razionalismi adottati dai prudenti caga-dubbi (chiedo scusa a Davide Rondoni – “Avvenire”) a costo dell’inazione – non frega niente a nessuno. La vicenda della Flotilla altro non è che l’ulteriore prova del fatto che, se ci sarà un rinnovamento, questo potrà nascere solo dalla base popolare-civica e non dalla politica. Ecco perché la questione palestinese val bene uno sciopero generale.

Del perbenismo meloniano i palestinesi non sanno di che farsene, mentre penso abbiano almeno qualche ristoro sapendo che tanti italiani non si girano dall’altra parte di fronte alla loro disperazione senza fare calcoli di convenienza economica e politica.

Il diritto di protestare, con l’iniziativa della Flotilla e con gli scioperi conseguenti, non ha soltanto un significato di mera seppure importantissima difesa degli interessi dei lavoratori, ma ha un valore educativo di deterrenza etico-culturale contro l’indifferenza.

Proprio la senatrice Liliana Segre, in un discorso del 27 gennaio 2020 al Memoriale della Shoah di Milano, affermò: «L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò disprezzo, temo e odio gli indifferenti. Le parole di Antonio Gramsci rendono bene il senso di una malattia morale che può essere anche una malattia mortale. (…) Perché quando credi che una cosa non ti riguardi, allora non c’è limite all’orrore. L’indifferente è complice dei misfatti peggiori. L’alternativa, diceva don Milani, è “I care”, me ne importa, mi sta a cuore».

Stiamo scivolando nella globalizzazione dell’indifferenza e della meschinità del “chi me lo fa fare”: se reagire a questo vomitevole andazzo vuol dire essere un tantino anarchici, se per svelare le ipocrisie del potere e scrollarsi di dosso l’indifferenza occorre un po’ di sana spregiudicatezza, mi sento tranquillamente di correre questo rischio.

D’altra parte mio padre non era forse quasi anarchico nella sua insolente e spontanea parmigianità? Quasi sempre i suoi messaggi mantengono intatta la loro attualità, la loro abbondante dose di ironica, per non dire graffiante, provocazione, in una gustosa miscela di anticonformismo, radicalismo, anarchia, trasgressione, etc.: il tutto insaporito da una spruzzata di autentica parmigianità, molto soft, poco ostentata ma sottilmente e gradevolmente percettibile.

In Italia l’invito a reagire lanciato dalla Flotilla ha trovato accoglienza in una larga fascia della popolazione, ma non nel governo che parandosi dietro a superiori ragioni di Stato ha sostanzialmente esortato i naviganti a rinunciare ai loro propositi.

Ma così facendo il nostro governo ha reso un pessimo servizio non solo al popolo palestinese, ma alla stessa democrazia che già si trova in crisi profonda. Il continuo riempirsi la bocca di principi altisonanti a cui, però, fanno seguito scelte in direzione opposta, provoca nei cittadini non solo disorientamento culturale e morale, ma anche una paralizzante chiusura in sé stessi che spalanca la strada a ogni forma di sopruso e di orrore.

Il doppio standard verbale, morale e politico, che da un paio di anni si è affermato in Europa, per cui lo stesso tipo di gesto è ora condannato, ora approvato, a seconda se a commetterlo è uno Stato amico come Israele o nemico come la Russia, genera nell’opinione pubblica uno sconcerto tale da indurla a bollare come ipocrita l’intera classe politica, rinunciando a qualsiasi forma di partecipazione. Una deriva forse gradita a quei politici interessati solo al potere, ma che risulta disastrosa per una serena convivenza sociale. La messa in discussione di questa impostazione è un altro contributo reso dalla Global Sumud Flotilla di cui dobbiamo essere grati. (Francesco Gesualdi – “Avvenire”)

 

 

 

 

La sinistra francescana per antonomasia

Per festeggiare san Francesco vado a prestito dal mio carissimo amico Pino che mi regala le sue riflessioni.

Tutti vogliono riappropriarsi della figura di San Francesco. Ci ha provato Grillo, adesso la stronzetta-furbetta. Due libri, uno di Cazzullo, l’altro dello storico laico Barbero, sono in cima ai libri più venduti. Se da una parte mi fa piacere perché San Francesco ci sta davanti come esempio (lo diceva Ernesto Balducci), dall’altra parte “m’incazzo” moltissimo perché mi dispiaccio che i rincretiniti cattolici di sinistra se lo lascino scippare senza battere ciglio. Scherziamo? San Francesco è “sinistra” (anche se figura universale); quelli dopo di lui, penso da ultimi a papa Giovanni, madre Teresa di Calcutta, don Tonino Bello, papa Francesco o figure politiche come Giorgio La Pira, ne seguono in qualche maniera le orme: povertà e poveri, gli ultimi. Non si può mescolare il diavolo (Trump) con l’acqua santa (San Francesco). Se tu ti ispiri ad un santo, anche in piccola parte, devi cercare di seguirne le orme, non come la Meloni che è agli antipodi ed è quindi una mistificatrice.

San Francesco è un contestatore-provocatore, forse, dopo Gesù, il più grande contestatore-provocatore di tutti i tempi. Tento quindi di coglierne la forza d’urto in campo ecclesiale ed in campo politico-civile.

  • «Diventate coscienza critica del mondo. Diventate sovversivi. Non fidatevi dei cristiani “autentici” che non incidono la crosta della civiltà. Fidatevi dei cristiani “autentici sovversivi” come San Francesco d’Assisi» (don Tonino Bello, vescovo e profeta, ai giovani).

Papa Francesco aveva scelto il suo nome per onorare il santo italiano noto per la sua umiltà, la povertà e il suo amore per il prossimo e la creazione. Questa scelta simboleggiava un programma per una Chiesa più vicina ai poveri e più attenta ai valori di giustizia e misericordia, in contrasto con la visione di una Chiesa più mondana e burocratica. L’occasione è propizia per dare uno sguardo “francescano” a quanto sta succedendo nella Chiesa a livello del papato, che purtroppo mantiene una doppia natura, autorità religiosa e morale da una parte, signoria mondana dall’altra. Questa doppia natura, ci si è sempre chiesti, è coerente col comandamento del Signore circa l’essere «nel mondo, ma non del mondo»? In altre parole, il papa-sovrano che accetta la logica del potere mondano è il san Pietro che ama il Signore, o quello che lo tradisce? Tante porcherie della Chiesa si possono fare risalire a questa ambivalenza. A ciò papa Francesco aveva dato una risposta scardinante: quella della profezia. Un papa non secondo il mondo, ma secondo il Vangelo: capace di spiazzare ogni suo interlocutore perché la profezia e la potestà papale non avevano forse mai coinciso, nella storia bimillenaria della Chiesa. Il suo parlare era sì, sì, no, no: così contravvenendo alla prima regola del potere terreno, quella di una sistematica menzogna. Leone XIV saprà essere un profeta? Ho la maliziosa impressione che con lui il papato rischi di tornare nell’alveo ordinario dell’esercizio del potere. Fin qui, purtroppo, nulla di strano: ‘strano’ era Francesco e prima di lui san Francesco. (libera citazione di Paola Caridi e Tomaso Montanari).

 

  • «Quale Francesco? È l’eterna domanda che investiga e interroga il rapporto tra il carisma profetico e la sordità del potere istituzionale. Non è difficile sentirla attuale oggi, quando ci chiediamo se un altro Francesco vada riconosciuto nel candore evangelico di affermazioni e atti che appaiono rivoluzionari, o invece nella vischiosità ineludibile di un potere mondano che processa giornalisti e non accredita ambasciatori perché omosessuali. O quando ci chiediamo se Assisi sia un epicentro di vita spirituale o, invece, una grande macchina da soldi, e se gli affreschi stessi della Basilica siano ancora un testo vivo o solo un’attrazione moralmente afona» (Tomaso Montanari recensione su Chiara Frugoni – Quale Francesco? – Ed. Einaudi).

San Francesco è patrono d’ Italia e d’Europa. Forse prima e più che proteggerci ci contesta. Proviamo a pensare cosa direbbe delle politiche italiane ed europee e facciamoci aiutare da Liliana Cavani e da papa Francesco.  «(…) Dobbiamo essere grati a questo papa perché ci sta riportando vicino a Gesù Cristo, al ‘nostro posto’ accanto a lui. Dobbiamo essergli grati perché ha rimesso il Vangelo al centro della Chiesa, anzi al posto principale di una Chiesa che era un po’ troppe altre cose. (…) Gesù Cristo non è un padre padrone, eppure per secoli la Chiesa per la maggior parte del tempo si è sentita ‘padrona’. Per questo papa Bergoglio si è defilato dal Palazzo e vive in una casa normale. Questa scelta è uno dei primi discorsi di papa Bergoglio, un fatto che pare abbia fatto arrossire alcuni cardinali e anche incavolare altri cardinali o prelati di rango. (…) Papa Wojtyla si è battuto tenacemente contro la dittatura sovietica, ma papa Bergoglio non ha un nemico più facile: ‘l’ideologia del mercato’, un’ideologia subdola come le malattie nascoste. (…) Aumentare il patrimonio nel modo più speculativo è diventato un merito. Se ciò può provocare sofferenza poco importa. Accumulare è un vanto e la dimostrazione più formidabile di intelligenza. In realtà a ben guardare molte ricchezze sono l’esito di politiche economiche rozze, autoritarie, sostenute da speculatori spregiudicati. (…) La politica per Roma era sacra. Il loro Dio non era in un luogo e in un tempo metafisico. Pietro e Paolo riescono a seminare il Vangelo perché lo testimoniano con una visione della vita nuova, nuovissima, piena di senso. E così fece Francesco di Bernardone camminando nei paesi dell’Italia centrale. E papa Francesco fa uguale. Possibile? Possibile seminare lo stesso messaggio in tempi tanto distanti? La stessa visione della vita? A Roma nel 40-50 d.C., nel 1200 ai tempi di Francesco, nel 2017? È così. Andremo su Marte e sarà necessario portarsi il Vangelo» (Liliana Cavani, intellettuale, regista teatrale e cinematografica, da un suo saggio contenuto nel libro “Francesco e noi” a cura di Francesco Antonioli, Edizioni Piemme).

 

  • In conclusione niente celebrazioni blasfeme, ma esami di coscienza privati e pubblici. Niente fiori, ma opere di “pace e bene”. San Francesco non è al di sopra delle parti, ma sta da una parte ben precisa: quella dei poveri e degli ultimi. Santa demagogia!!!

Alla conferenza stampa nella sala polifunzionale della Presidenza del Consiglio, sulle celebrazioni per l’ottavo centenario della morte di San Francesco si respirava un clima, raro di questi tempi, di vera condivisione: «Dal primo gennaio del prossimo anno si aprirà l’ottavo centenario, un’esperienza che si muove in continuità con l’anno giubilare ancora in corso», spiega Mantovano. Ieri il definitivo via libera del Senato con una sostanziale unanimità al ripristino della festa, «a conferma che San Francesco pur nei frangenti più complicati della nostra storia è punto di unità tra le persone. Che San Francesco sia di tutti non significa, però, che tutti possano annoverarlo sotto le proprie bandiere: l’uso strumentale dei santi è pratica particolarmente sgradevole», conclude Mantovano. (“avvenire.it)

Dissento categoricamente! San Francesco non è punto di unità e non è e non può essere di tutti. Non si tratta di fare un uso strumentale del messaggio francescano, ma di prenderlo sul serio e ciò comporta il venire a galla di tutte le contraddizioni.

Raccomando al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano un corso accelerato sul Vangelo.

La frase “Non sono venuto a portare pace sulla terra ma divisione” è citata nel Vangelo secondo Luca (Lc 12,49-53), dove Gesù afferma che la sua venuta non porterà una pace universale, ma divisioni, anche all’interno delle famiglie (figuriamoci tra e nei partiti politici), perché la sua predicazione impone una scelta tra il bene e il male, tra chi abbraccia il suo messaggio e chi no, generando così separazioni.

Il discorso calza a pennello per san Francesco. Infatti ribadisco quanto afferma l’amico Pino: san Francesco è di sinistra! A destra e al centro se ne facciano una ragione. A sinistra però si diano una scrollata di coscienza e una mossa di carità.

 

 

 

 

L’uovo del secolarismo e la gallina del fondamentalismo

Una cultura che assolutizza la libertà individuale finisce per generare conflitti insanabili, fratture etiche, dilemmi insolubili. La libertà, se sganciata da ogni riferimento al bene comune, rischia di trasformarsi nel suo contrario: nell’arbitrio che mina le basi stesse della convivenza. C’è una strada diversa, che non coincida né con le sirene del fondamentalismo religioso né con il secolarismo radicale? Una via è quella del riconoscimento del valore pubblico delle religioni, intese non come esperienze esclusivamente private ma come dimensioni collettive che, senza avere la pretesa di sostituirsi allo Stato o di imporre la propria visione del mondo, apportano un contributo prezioso alla rigenerazione di un comune tessuto etico. Invece del modello francese – basato sulla rimozione del religioso dallo spazio pubblico – serve un’idea di laicità che riconosce il ruolo pubblico della religione.

Si tratta di uscire dalla contraddizione in cui siamo intrappolati: da un lato l’illusione di una secolarizzazione autosufficiente, dall’altro la tentazione del fondamentalismo. La sfida è trovare un equilibrio che consenta di valorizzare il patrimonio spirituale delle religioni senza trasformarlo in strumento di dominio. (Mauro Magatti – “Avvenire”) 

 

Non vorrei essere tacciato di semplicismo di fronte al problema sollevato dal sociologo Mauro Magatti, ma mi viene spontaneo parafrasare il suo dubbio di fondo chiedendomi: è nato prima l’uovo del secolarismo o la gallina del fondamentalismo.

Secolarismo e fondamentalismo sono infatti due atteggiamenti pseudo-culturali che si giustificano e si sostengono a vicenda. Il secolarismo viene esorcizzato per motivare comunque la reazione al nuovo che avanza e rifugiarsi nel rassicurante vecchiume dei nazionalismi e dei fascismi.

Ne volete un esempio? A mio zio sacerdote impegnato in modo non violento nella resistenza al nazi-fascismo, sua sorella eccepiva la noncuranza dell’appoggio concesso da Mussolini alla Chiesa cattolica tramite il concordato. Come era possibile schierarsi dalla parte degli oppositori al regime nelle cui fila militavano socialisti, comunisti e radicali? Mio zio non rispondeva a queste deboli e petulanti obiezioni e andava avanti per la sua strada: al mattino celebrava la messa in una chiesa di collina per poi andare in montagna a combinare scambi di prigionieri con i partigiani. Troppo comodo chiudersi in sagrestia a difendere i valori cristiani, così come è assurdo ammantare di cristianesimo i nazionalismi di Trump e Putin, creando un paradossale (?) collegamento tra ultras cattolici Maga e ultras ortodossi russi.

Purtroppo è sbagliato anche prendere provocatoriamente a scatola chiusa tutto quanto sa di clericale per cestinarlo in nome di una laicità che diventa inevitabilmente laicismo. Ne volete un esempio? Elly Schlein, seppure in buona fede e senza secondi fini, rischia di cadere nell’errore di consegnare la sinistra unicamente alle pur sacrosante battaglie per i diritti civili, dimenticando che tali diritti vanno coniugati con la solidarietà e l’impegno sociale. Il partito democratico, che doveva essere, in senso positivo e costruttivo, l’alternativa allo scontro manicheo tra reazione cattolica e progresso laico, sta fallendo il suo obiettivo regalando i cattolici, complice il movimentismo fondamentalista di Comunione e Liberazione, alla destra populista e nazionalista.

Come se ne esce? I cattolici devono svegliarsi, affrancarsi dalle ancestrali paure verso la sinistra e abbandonare il comodo torpore politico che li paralizza. I cosiddetti laici devono superare ogni prevenzione ed accogliere le istanze etico-culturali del mondo cattolico, sfrondate dal bigottismo e rilanciate sul piano della lotta alle povertà e dell’impegno per la giustizia e la pace.

Il Vangelo non è una dottrina politica, ma un’ispirazione per chi si impegna in politica; non è il baluardo contro una deriva secolare, ma un contributo dialogico alla crescita della società nel rispetto dei valori della persona umana.

A ben pensarci è tutto scritto nella Costituzione italiana: il compromesso al più alto livello tra i valori portati avanti dai partiti democratici ed antifascisti. Gira e rigira bisogna ripartire da lì.

Disturbiamo i manovratori

Il 28 agosto erano stati oltre 30mila i sanitari a digiunare in segno di protesta per chiedere la fine dello sterminio a Gaza. Giovedì 2 ottobre, all’iniziativa “Luci sulla Palestina”, le previsioni dicono che potranno essere 50mila. Alle 21, torce, lampade, lumini e candele si accenderanno in oltre 200 ospedali del Paese, per illuminare simbolicamente la notte della Striscia. Un flash mob per ricordare gli oltre 60mila palestinesi uccisi in questi ultimi due anni dall’esercito israeliano, tra cui 1.677 sanitari, i cui nomi verranno letti dai colleghi italiani, in una staffetta che percorrerà tutta la Penisola.

Le reti si stanno coordinando dal basso. Le 15 chat regionali hanno migliaia di iscritti. Tutti partecipano, tutti collaborano e si mobilitano per dimostrare l’indignazione del mondo della sanità verso il massacro che sta compiendo Tel Aviv, nella complicità silenziosa dei governi occidentali. “Stiamo protestando da mesi e non ci fermeremo fino a che le istituzioni non agiranno concretamente e a tutti i livelli per fermare il genocidio palestinese – commenta ancora Gianelli -. Siamo un’onda dilagante, che monta ogni giorno. Come sanitari e sanitarie non possiamo rimanere a guardare, è nostro dovere mobilitarci”.

Pretendono azioni concrete da governo, regioni, comuni e aziende sanitarie. Non più tiepide dichiarazioni di biasimo, ma atti e impegni formali: “Chiediamo che sia avviato il boicottaggio immediato della azienda farmaceutica israeliana Teva, che non solo è complice del governo israeliano nelle politiche di occupazione e apartheid, da cui trae profitti, ma è anche attivamente coinvolta nel genocidio palestinese”, prosegue la referente. Anche la richiesta per l’esecutivo di Giorgia Meloni è chiara: fare pressione su Israele e interrompere accordi e forniture militari. “Questo è il senso della nostra mobilitazione. Ci uniamo a tutti i movimenti che in Italia e in tutta Europa chiedono di fermare il genocidio, a partire dalla Global Sumud Flottilla la cui iniziativa umanitaria e politica seguiamo e sosteniamo con forza e ammirazione”, conclude Gianelli. “Luci sulla Palestina”, l’appuntamento di giovedì sera davanti agli ospedali italiani, sarà l’occasione per i sanitari di alzare ancora una volta le loro voci all’unisono, per unirsi da terra alla Flotilla e rendere omaggio ai loro colleghi, uccisi mentre assistevano e curavano la popolazione di Gaza. (da “ilfattoquotidiano.it)

Da una parte c’è la sacrosanta protesta, l’ansia di partecipare, la voglia di gridare, dall’altra la vergognosa indifferenza dei governanti, di chi li sostiene acriticamente e di chi li vota più o meno convintamente, il delinquenziale intento di mettere la sordina a chiunque osi far sentire la propria voce.

L’esperienza mi fa pensare che prima dei conflitti c’è la corruzione delle coscienze, il vuoto della cultura, l’inconsapevolezza e l’indifferenza dei più, gli egoismi e le paure.
Dopo vengono i conflitti, i più devastanti. Prima c’è la disumanità nei pensieri, e poi nelle scelte politiche. Anzi, oggi non c’è più neppure la politica, disprezzata e marginalizzata. Ci sono solo gli interessi e la concentrazione degli interessi: del potere, delle armi, dell’economia, della finanza, della comunicazione, della tecnologia. Se è così, la responsabilità non è solo dei capi delle nazioni, ma dei popoli stessi. Della coscienza di ciascuno di noi. Noi responsabili della corruzione dello spirito, dell’ignoranza, della perdita del senso del noi. Della perdita della responsabilità politica, ad ogni livello, in ciascuna delle nostre vite. (ex senatrice Albertina Soliani)

Ed ecco, puntuale come un orologio svizzero, la nostra premier: la prima gallina che canta inni alla pace dopo aver fatto le uova della guerra, che tesse gli elogi dell’anti-democratico Trump dopo aver venduto ad esso la storia democratica dell’Italia e dell’Europa per un piatto di elogi inodori, incolori e insapori.

Giorgia Meloni prova a incastrare le opposizioni su Gaza, con un invito plateale a votare insieme alle destre un testo comune domani in Parlamento, dopo le comunicazioni del ministro degli Esteri Tajani. Lo fa da un comizio in Calabria, e poco dopo si scaglia contro la Flotilla con toni veementi: «La speranza di pace che si è aperta con il piano di Trump poggia su un equilibrio fragile, che in molti sarebbero felici di poter far saltare. Temo che un pretesto possa essere dato dal tentativo della Flotilla di forzare il blocco navale israeliano». La missione navale «dovrebbe fermarsi ora e accettare una delle diverse proposte avanzate per la consegna degli aiuti: ogni altra scelta rischia di trasformarsi in un pretesto per impedire la pace e alimentare il conflitto».

Parole che rendono ancora più strumentale l’appello lanciato poco prima: «Mi piacerebbe che l’Italia votasse compatta per dimostrare che la pace la si vuole davvero». Parole condite dall’irrisione verso i sindacati e le loro piazze: «La pace non arriverà perché Landini o l’Usb indicono lo sciopero». E ancora; «Nelle Marche il Pd ha trattato i cittadini da stupidi dicendo “vota per noi e avrai lo Stato in Palestina”». Tajani rincara la dose: «Vorremmo che giovedì in Parlamento tutti sostenessero il piano degli Usa». (da “il manifesto” – Andrea Carugati)

 

Non sono mai stato un movimentista, un patito delle lotte di massa, ma in democrazia guai a irridere alle proteste e ad imbrigliarle: in certi frangenti assumono un’importanza fondamentale per smuovere le acque stagnanti della politica. La spontanea mobilitazione della gente in difesa di una causa come quella della fine dello sterminio a Gaza deve essere attentamente valutata e considerata e non certo messa strumentalmente in contrapposizione ad eventuali azioni diplomatiche.

Non disturbare il manovratore è un invito che in democrazia non ha alcun senso: è più che opportuno che la politica senta il fiato sul collo e si sottoponga all’esame finestra per quanto concerne la serietà delle azioni diplomatiche.

Ben vengano quindi le mobilitazioni come quella del mondo sanitario per la Palestina, che hanno un valore etico, culturale e politico.

Le recenti elezioni regionali nelle Marche hanno registrato un calo enorme di affluenza alle urne: è la risposta ad una politica chiusa in se stessa, che non vede i problemi, non sente le proteste e non parla di proposte.

Qualcuno dice che la sinistra ha perso perché ha parlato troppo di Gaza e poco dei problemi dei marchigiani, mentre la destra ha trionfato cavalcando il pragmatismo che piace alla gente: non sono d’accordo. Si è parlato poco di politica e si è continuato a dare la netta impressione del distacco della politica dai problemi di tutti i tipi e di tutti i livelli.

Si rende conto chi di dovere che, se un italiano su due non si reca alle urne, è in atto una vera e propria auto-delegittimazione della politica dagli effetti inquietanti e devastanti? Altro che stigmatizzare le proteste, altro che auto-vittimizzarsi presuntuosamente, altro che cavalcare furbescamente la sfiducia all’insegna del “chi non vota ha sempre torto”.

Questo andazzo fa brodo ad una destra sempre più illiberale ed autoritaria basata su una sorta di istituzionalizzazione dell’egoismo e del qualunquismo e crea crisi di identità e di consenso ad una sinistra che dovrebbe basarsi sulla partecipazione e sulla solidarietà.

E lo chiamano piano di pace…

C’era una volta un mio bravissimo e impegnatissimo collega che, infervorato nella soluzione di un complesso problema fiscale, abusava dell’intercalare “O.K.”, chiedendo agli ascoltatori un cenno di assenso alle sue proposte. Ad un certo punto un collega anziano, ferratissimo in materia, sbottò dicendo: «O.K! O.K! ma non ci ho capito un cazzo!».

Gaza. Netanyahu ha accettato il nuovo piano Trump e si è scusato per l’attacco in Qatar. Oltre tre ore di colloqui alla Casa Bianca. Il presidente Usa esulta: giorno storico. Gelo di Hamas: «Blair come garante dell’intesa per noi è inaccettabile». L’Italia sosterrà il piano. (“Avvenire” – Elena Molinari, inviata a Washington lunedì 29 settembre 2025)

Fin qui l’invitante titolo con il relativo sommario di un articolo incoraggiante. Leggendo però i contenuti di questo ipotetico piano devo ammettere di non averci capito un cazzo, ma di avere colto soltanto l’ansia trumpiana di spacciare la sua scoperta dell’acqua calda come grande successo diplomatico, il retropensiero di Netanyahu di ritornare a brevissimo termine al punto di partenza, la muta perplessità di Hamas, l’opportunistica adesione dei Paesi arabi, la solita sbruffonata italiana, il silenzio attendista dei Paesi europei.

Al momento, con tanta fantasia, lo chiamano piano di pace…

La rottura delle acque è la rottura del sacco amniotico, che rilascia il liquido amniotico che circonda il feto. L’evento può manifestarsi come un getto improvviso o come un lento gocciolamento di liquido, solitamente incolore e inodore, dalla vagina. Sebbene possa essere un segno del travaglio, in alcuni casi può verificarsi prima dell’inizio delle contrazioni e richiede un intervento medico, con la necessità di recarsi in ospedale per controlli e monitoraggio.

Siamo a questo delicatissimo iniziale punto del parto pacificatore: tutti gli sviluppi sono ancora aperti e possibili, compreso l’aborto, considerati gli interventi medici che potranno seguire. Temo che tutto possa risolversi appunto in un aborto spontaneo (?) di fronte al quale gli ostetrici allargheranno le braccia dicendo: abbiamo dovuto lasciar morire il feto per salvare la madre dei nostri sporchi interessi.