Le castrazioni del PD

La cancellazione dello spirito originario del Pd è stata completata con l’elezione di Elly Schlein alle primarie, nonostante gli iscritti le abbiano preferito un altro candidato, e con gli apprendisti stregoni della ditta rottamati definitivamente. Ora però il Pd di Schlein è una succursale del movimento populista, e un veicolo per riportare la sinistra radicale in Parlamento.

Al suo interno resiste una componente di dirigenti politici che credono ancora nel progetto originale del Partito democratico, ma ogni giorno che passa, ogni cedimento a Giuseppe Conte, ogni balbettio sulla Russia, ogni silenzio su Milano, ogni presa di distanza dalla famiglia socialista e democratica europea, costoro si rendono conto di quanto la residuale testimonianza riformista non sia più sufficiente a rallentare l’involuzione, né a pescare nell’altro schieramento i consensi necessari a vincere le elezioni.

Che fare, quindi? Come può la componente adulta del Partito democratico provare a incidere politicamente?

Non ci sono strade alternative alla sfida diretta alla Segretaria che ha occupato il Pd, nonostante le probabilità di vincerla siano pochine. Si vedrà. Ma anche se l’ala originalista del Pd dovesse perdere contro gli occupy Pd, una volta che si sarà contata e pesata al termine di una battaglia nobile, leale e aperta, avrebbe davanti a sé l’occasione e la condizione per far nascere una nuova formazione politica di centrosinistra, saldamente legata alla famiglia politica socialista e democratica europea, capace di rivendicare lo spirito del Lingotto e di rilanciare le ragioni che portarono alla fondazione del partito oggi occupato da Schlein.

Insomma, la strada è uscire dal Pd per farne un altro. Non per riesumare la Margherita, non per inseguire Renew, non per esercitarsi in alchimie politiche. La strada è rifare il Pd. Quello originale.

(linkiesta.it – Christian Rocca)

Troppi medici impietosi fanno le piaghe del Pd sempre più puzzolenti. Troppi schemi teorici rischiano di relegare il Pd in un infinito e stucchevole laboratorio più partitico che politico.

Credo di vedere una dicotomia tra il velleitario riformismo e il radicaleggiante nuovismo. Innanzitutto occorrerebbe chiarire cosa si intende per riforme e per il conseguente ritorno al riformismo: concetti in cui rientra tutto e di più. Dall’altra parte sarebbe necessario capire cosa possa essere una sinistra populista e radicale.

Sulla prima impostazione scalpiterebbe la vetero-dirigenza in vena di rivincita; sulla seconda resisterebbe Elly Schlein forte di un mandato extra-partitico e puntato al nuovo di zecca.

In mezzo a questi due fuochi sta l’impostazione culturale originaria del partito democratico: la problematica ma affascinante fusione tra idealità cattolica e socialista. Alla prova dei fatti questa operazione non ha funzionato: non ho ancora capito se a causa di gelosie correntizie e di resistenze dirigenziali o per effettiva incompatibilità valoriale.

Bisognerebbe ricominciare tutto daccapo, perché a mio giudizio l’intuizione di fondo era e rimane valida. Se restiamo impiccati al dualismo tra riformismo alla franceschiniana e nuovismo alla schleiniana, finiamo come Coppi e Bartali al campionato del mondo.

Se è vero che le idee camminano sulle gambe degli uomini, dopo avere rispolverato il senso originario della sinistra e averlo coraggiosamente attualizzato, sarebbe indispensabile mettere il progetto riveduto e corretto in mani buone. Come ho già scritto, vedo due personaggi in grado di portare avanti una simile rifondazione del Pd tutto intero, senza sciocche scissioni e senza pulizie politiche: Gianni Cuperlo e Graziano Delrio. Avranno voglia di cimentarsi in questa impresa?

Qualcuno comincia subito col temere che non abbiano il carattere e la convinzione necessari: proviamo innanzitutto a chiederglielo e poi aiutiamoli. Qualcosa di buono comunque ne dovrebbe sortire. Da cattolico e da cittadino di sinistra a questo nuovo eventuale Pd mi iscrivo al buio. Sì, perché sono stanco di assistere alla castrazione della sinistra fatta chimicamente col moderatismo dei miei stivali e/o chirurgicamente con le forbici populiste delle mie e altrui rabbie.

Un vecchio Trumpone nella banda mondiale

Non ci sono segnali che Putin sia disposto ad accettare un summit con Trump e Zelensky. Dopo settimane di contatti telefonici e minacce di ritorsioni se Putin non si fosse piegato a una tregua o a un vertice trilaterale, Trump ha dunque ufficialmente messo da parte la richiesta di cessate il fuoco nella guerra in Ucraina e si è allineato alla posizione di Putin. La chiusura dell’incontro di Anchorage in assenza di passi avanti concreti per la pace non ha portato con sé le «durissime conseguenze economiche» che il presidente americano aveva promesso contro la Russia. Mosca dunque può continuare a combattere, ad attaccare civili (il loro rispetto era stata un’altra linea rossa tracciata da Trump per Putin e poi abbandonata) e a strappare terre mentre si svolgono i colloqui per una soluzione finale al conflitto. Il leader del Cremlino ancora una volta è riuscito a guadagnare tempo ed evitare sanzioni punitive, mentre la calorosa accoglienza di Trump l’ha sdoganato dall’angolo in cui era stato spinto da tutti i leader occidentali.

Un esito, fa notare il New York Times, che ricorda il risultato dell’incontro di Trump con Kim Jong-un, durante il primo mandato del tycoon «caratterizzato da abbracci, strette di mano e lettere di ammirazione» mentre il leader nord coreano continuava a far crescere il suo arsenale nucleare. Mosca ha infatti intravisto nell’applauso e nell’assenso di Trump a Putin di venerdì un’opportunità di allontanare ulteriormente l’America dai suoi tradizionali alleati: «Una nuova architettura di sicurezza internazionale è all’ordine del giorno e l’Europa deve accettarla», ha detto Andreij Klishas, un senatore russo, dopo il vertice. (da “Avvenire” – Elena Molinari)

Niente cessate il fuoco, niente sanzioni, niente summit con la partecipazione di Zelensky: Trump esce a mani apparentemente vuote dall’incontro con Putin al di là delle reciproche carinerie e dello scaricamento delle responsabilità del barile belliche addosso a Biden.

Se è tutta qui l’abile potenza trumpiana, c’è sinceramente da ridere (meglio dire da piangere) e da deridere gli americani che l’hanno votato (meglio dire che gli americani sono dei perfetti imbecilli).

Temo però che ci sia di peggio: una sporca intesa per la quale Putin ottiene un allontanamento degli Usa dall’Europa e un addomesticamento della Nato, concedendo soltanto l’abbassamento della propria cresta imperialistica. Il tutto condito da segrete intese economiche: altro che sanzioni…

Cosa aveva promesso Trump in campagna elettorale? La fine dei due conflitti in corso: Ucraina e striscia di Gaza. Se andiamo avanti così, a Gaza faranno un resort turistico di lusso dove gli europei andranno a svernare e scaricare le tensioni diplomatiche e in Ucraina una dependance russa in cui tra l’altro portare in visita le scolaresche per spiegare loro che il comunismo si evolve ma non muore mai.

 

 

 

 

Le torte in faccia agli uomini di sicure speranze

Dopo giorni di anticipazioni e tre ore di colloqui, Donald Trump e Vladimir Putin non si sono intesi su alcun passo avanti concreto verso la fine della guerra in Ucraina.

Alla fine del vertice in Alaska — il primo faccia a faccia fra i due dal 2018 — i presidenti americano e russo hanno menzionato vagamente «molti punti concordati», ma non hanno annunciato nessun accordo, tanto meno il cessate il fuoco che il capo della Casa Bianca insegue da mesi e Putin rifiuta.

Parlando a fianco dell’omologo russo dalla base Usa Elmendorf-Richardson di Anchorage, Trump ha assicurato che progressi sono stati fatti: «Molti elementi sono stati concordati, e ne restano solo pochissimi», ha detto, ma non ha spiegato quali. Poi ha concluso: «Non c’è accordo finché non c’è un accordo».

Poco prima, Putin aveva riaffermato le sue richieste per mettere fine alle ostilità. «Siamo convinti che per rendere un accordo duraturo, dobbiamo eliminare tutte le cause principali del conflitto», ha detto: una frase che dall’inizio dell’invasione usa per riassumere le sue pretese sull’Ucraina. Vale a dire, che Kiev ceda a Mosca il territorio che la Russia controlla, anche in parte, si disarmi, rinunci all’adesione alla Nato e alla Ue e cambi il suo governo. «Ci aspettiamo che Kiev e le capitali europee non ostacolino i lavori» ha concluso il capo del Cremlino.

Il leader russo ha poi concesso a Trump un punto che ripete dal 2022: «Il presidente ha affermato che se fosse stato presidente allora non ci sarebbe stata la guerra, e sono abbastanza sicuro che sarebbe effettivamente così — ha detto Putin —. Posso confermarlo».

Nessuno dei due ha risposto alle domande delle centinaia di giornalisti presenti, ma si sono salutati calorosamente, promettendosi di rivedersi molto presto. «A Mosca», ha detto Putin in inglese. «Questo è interessante — ha risposto Trump —. Mi farò criticare, ma può succedere».

Più tardi, in un’intervista a Fox News, Trump è sembrato volersi defilare dal suo ruolo di mediatore, dicendo che sta a Volodymyr Zelensky e Putin organizzare un incontro per raggiungere un cessate il fuoco. «Ora spetta davvero al presidente Zelenskiy farlo», ha detto. (da “Avvenire” – Elena Molinari)

C’è un detto scurrile ma significativo in dialetto parmigiano che dice: “Co’ vôt pretendor da un cul ‘na romanza?”. Lo potremmo aggiornare in “Co’ vôt pretendor da du cul un duètt?”. Questa in estrema sintesi la conclusione del tanto sbandierato incontro al vertice fra Trump e Putin.

Si fa grande fatica a raggiungere seri accordi quando si parte da rette intenzioni e corrette premesse, figuriamoci quando tutto è lasciato a trattative basate sulla ricerca di equilibri di puro potere.

Probabilmente i due avranno raggiunto inconfessabili accordi sottobanco, nel senso che ognuno possa continuare a fare “i cazzi suoi”, vale a dire l’esatto contrario di pace, ma persino questa sorta di brutale spartizione di torte lascia il tempo che trova, in quanto prescinde dalla presenza di un pasticciere molto forte sul mercato, vale a dire la Cina.

Sento in giro speranzose espressioni sul clima di dialogo, ma quale dialogo? Quello fra Trump e Putin non è e non può essere un dialogo, ma soltanto una strizzata d’occhi fra patentati e delinquenziali bugiardi. Il resto è commedia mediatica, che copre i più sporchi giochi di potere.

Come ha recentemente affermato Massimo D’Alema la politica anche a livello internazionale prescinde ormai completamente dai valori ma anche dai pur legittimi interessi di parte: come appare quotidianamente dalle dichiarazioni contraddittorie dei capi di governo, la navigazione si svolge senza bussola, i potenti (?) non sanno quel che vogliono e brancolano nel buio totale in cui la guerra non può che farla da padrona.

E allora? Nonostante tutto bisogna sperare. “Spes contra spem” è una locuzione latina, nonché un motto di san Paolo, che significa letteralmente “speranza contro speranza”. In pratica, si riferisce alla capacità di sperare anche quando non ci sono ragioni apparenti per farlo, o quando le circostanze sembrano indicare il contrario. È un’espressione che indica una speranza che persiste nonostante le difficoltà, spesso legata alla fede e alla determinazione.

Nonostante il fragore delle armi che risuona a Gaza come a Kyiv, e non solo, oggi «la speranza c’è: dobbiamo cercarla anche attraversando l’oscurità, le difficoltà, i problemi». È quanto ha assicurato il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana. «La speranza non è qualcosa che si afferma immediatamente, richiede di attraversare i problemi che possono e debbono essere risolti», ha spiegato il porporato ai giovani partecipanti.

Quando a livello internazionale, a proposito della guerra in Ucraina, è stato annunciato un incontro in Alaska tra il presidente statunitense Donald Trump e quello russo Vladimir Putin, Zuppi ha auspicato che «il dialogo prevalga e un incontro così importante possa dare i frutti desiderati». «La comunità internazionale si è molto preoccupata di garantire la difesa dell’aggredito»: al contempo, ha riflettuto, è necessario «favorire un dialogo» che «onestamente c’è stato molto poco». Guardando ai conflitti di oggi, ha ricordato, Papa Leone XIV «chiede di fare quanto prima un vero cessate-il-fuoco»: «Non lasciamolo da solo, diamo forza all’appello» del Pontefice, è stata la sollecitazione del porporato. Di qui un invito a fare proprio l’appello di Papa Prevost – che, ha evidenziato, «si è coinvolto» in prima persona per fare «della Sede Apostolica un luogo di vera ricerca della pace» – a «combattere ogni inimicizia con l’amicizia. (da Vatican News)

Papa Francesco parlava spesso della speranza, sottolineando che è una virtù fondamentale per i cristiani e per il mondo intero, specialmente in tempi difficili. Egli la descriveva come una forza che non delude, basata sulla fede nella risurrezione di Cristo e capace di illuminare anche i cuori più oscuri. La speranza, per Papa Francesco, non era un’illusione passiva, ma una virtù combattiva e paziente che ci spinge ad agire, a seminare il bene e a cercare il cambiamento.

Il cardinal Carlo Maria Martini, in un discorso tenuto a Vallombrosa nel 1984, sosteneva in termini provocatoriamente critici come la prassi cristiana non riesca a trovare il giusto rapporto tra la speranza escatologico-messianica e le speranze, le aspettative degli individui e delle comunità, in relazione alla giustizia, ai diritti umani e così via.

In conclusione dobbiamo cimentarci nella sfida della speranza a prescindere dalle pantomime dei potenti della terra, come appunto il recente incontro svoltosi in Alaska tra due galli, che ci vogliono far passare tutti da galline.

 

 

 

 

Le gufate anti-sindacali

È notte fonda per la Cgil. Il primo sindacato italiano, costola del Partito democratico, guidato da Maurizio Landini, ormai proiettato verso un futuro in politica, mette in fuga gli iscritti. La svolta anti-Meloni non piace alla base Cgil. I dati sono impietosi. Dal 16 ottobre 2024 all’8 agosto 2025 sono 45mila i lavoratori che hanno deciso di strappare la tessera d’iscrizione al sindacato. In dieci mesi, quasi 50mila lavoratori hanno salutato Landini e company. Una media negativa di circa 5mila lavoratori al mese. C’è molto lavoro da fare agli uffici di Corso Italia, che è a Roma. Fioccano le lettere di disdetta inviate alla segreteria nazionale. La fuga è omogenea e non colpisce solo un’area dell’Italia. Un po’in tutte le regioni i lavoratori decidono di dare picche a Landini. (da “Il giornale”)

È notte fonda per l’Italia se un sindacato dei lavoratori perde iscritti e viene messa in discussione, almeno quantitativamente, la sua rappresentatività. È notte fonda se qualcuno gode di ciò, lasciando intendere la sua opzione autocratica in cui non c’è posto per le cosiddette forze intermedie, ma solo per il popolo che consegna deleghe in bianco (o in nero) al governo.

Del resto l’aria che tira in Italia, e non solo in Italia, è questa. Ciò non toglie che anche il sindacato più rappresentativo dei lavoratori e dei pensionati abbia le sue responsabilità non tanto perché si interessi di politica, ma forse per essersene interessato poco.

È noto come all’interno della CGIL ci siano iscritti con idee politiche diverse, parecchi di fede leghista ed è quindi più che naturale che, quando il sindacato scende da battaglie meramente corporative e rivendicazioniste per passare a discorsi globali, il dissenso arrivi fino all’abbandono del sindacato stesso. Non ci trovo niente di scandaloso né tanto meno di soddisfacente.

Forse però il sindacato si dovrebbe interrogare sull’aver fatto o meno fino in fondo il proprio dovere tra occupati e disoccupati, tra lavoratori e pensionati, tra lavoratori superprotetti e lavoratori precari, tra italiani e immigrati, tra scioperi ingiustificati e omertose difese di tutti (fannulloni compresi), tra battaglie unitarie e tattiche separate rispetto alle altre organizzazioni sindacali.

Forse dovrebbe interrogarsi anche sull’aver fornito o meno servizi e assistenza adeguati agli iscritti e se non abbia svolto la propria funzione in modo piuttosto burocratico e anonimo. Ho lavorato per tanti anni in un sindacato di imprese cooperative e so per certo come gli associati prima di tutto chiedano ascolto e aiuto per i propri problemi.

Probabilmente il ruolo del sindacato va rivisto togliendolo dalle secche della mera conflittualità per andare verso la costituzione di massa critica in difesa del lavoro: dirlo è facile, farlo no.

Maurizio Landini è un galantuomo e non credo stia agendo col secondo fine personale della carriera politica e per ridurre il suo sindacato a ruote di scorta del PD o per sostituirsi ad esso: non è facile guidare un sindacato in mezzo al marasma politico, sociale ed economico della odierna società.

Può darsi infine che una certa cura dimagrante non sia del tutto nociva alla salute della CGIL, così come apprezzo l’intento di portare chiarezza critica sui problemi del lavoro di fronte a certo insopportabile trionfalismo governativo. Come si spiega infatti che l’occupazione aumenta ma aumenta anche la povertà?

La mia storia politica la dice lunga sulla sensibilità ai problemi del lavoro affrontati sulla scorta della spinta sindacale: militavo nella DC aderendo alla corrente della sinistra sindacal-aclista. Il mondo è cambiato, ma i problemi del lavoro rimangono e tendono ad ingigantirsi. Auspico un rilancio del ruolo sindacale ed una maggiore sensibilità politica della sinistra verso di esso e mi accontenterei che il governo dialogasse con esso senza faziosità e col dovuto rispetto.

Ferragosto, madonna mia non ti conosco

Il giorno di ferragosto segna in due sensi l’apoteosi del consumismo, quale dissennata fuga turistica dalla quotidianità e quale velleitaria cancellazione dei problemi con un tuffo nel finto benessere vacanziero.

La Chiesa cattolica tenta di togliere il mondo da questo rito profano, proponendo la celebrazione dei valori ultraterreni incarnati nella vita di una donna, Maria di Nazaret.

Purtroppo questo evento religioso ha finito col tradire Maria donna del popolo, mettendo anch’essa nel tritacarne consumistico: “regina”, donna-dea, Madonna, principessa, come è venerata da tanti cattolici, con devozioni esagerate, a volte superstiziose, spesso tollerate dalla nostra Chiesa, quando non, addirittura, incoraggiate.

Riavvolgiamo il nastro e facciamo l’identikit di Maria, seguendo i suoi biografi: Luca e Matteo. Maria era del popolo povero non già come chi discende dall’alto del trono per dare un piccolo aiuto, una piccola elemosina ai poveri sventurati là in basso. Era del popolo perché viveva la stessa vita di tutti. Non era ricca né potente (cfr. Lc 1, 52-53), ma povera, sposata con un giovane povero, Giuseppe, immigrato o figlio di immigrati. Aveva un figlio povero, Gesù, che non aveva dove posare il capo (cfr. Lc 2,7). Vi sono dei poveri che, sebbene poveri, stanno dalla parte dei ricchi e dei potenti e disprezzano i compagni poveri. Maria non era così. Il cantico composto da lei in casa di Elisabetta mostra molto bene da che parte ella aveva scelto di stare: dalla parte degli umili (Lc 1, 52), di quelli che hanno fame (Lc 1, 53) e di quelli che temono Dio (Lc 1, 50). E prese chiaramente le sue distanze dagli orgogliosi (Lc 1, 51), dai potenti (Lc 1, 52) e dai ricchi (Lc 1, 53). Per Maria, essere del popolo di Dio significava vivere una vita povera e assumere la causa dei poveri, che è la causa della giustizia e della liberazione.

L’attuale situazione storica ci dovrebbe indurre a recuperare Maria come donna povera, ma anche come donna di pace. Proprio il giorno di ferragosto avverrà l’incontro al vertice Trump-Putin per fingere una ricerca della pace. Anche questi personaggi, secondo la logica mariana, dovrebbero essere rovesciati dai loro troni, invece tutti penderanno dalle loro labbra per scorgere quale sarà il futuro del mondo. Molto meglio affidarsi alla preghiera assieme a Maria, che di sofferenze e di conflitti se ne intende.

Una preghiera per la pace in uno dei luoghi che nel nostro Paese testimoniano con più eloquenza la tragedia disumana della guerra. Il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei e arcivescovo di Bologna, ha scelto i ruderi della chiesa di Santa Maria Assunta a Casaglia, nel Parco regionale storico di Monte Sole, a Marzabotto, per convocare una iniziativa di «preghiera per la pace in nome delle vittime innocenti in Terra Santa – come informa una nota dell’Arcidiocesi petroniana –. Durante la celebrazione, proposta dalla Chiesa di Bologna insieme alla Piccola Famiglia dell’Annunziata, saranno letti i nomi dei bambini israeliani e palestinesi morti il 7 ottobre 2023 e successivamente nei territori della Striscia di Gaza. (da “Avvenire” – Nello Scavo)

Quale migliore preghiera se non quella dell’’Ave Maria del riscatto, dell’Ave Maria dei nostri giorni:

Ave Maria, che porti in seno le aspirazioni dei nostri poveri, il Signore è con te. Tu sei benedetta fra gli oppressi. Benedetti sono i frutti di liberazione del tuo seno.

Santa Maria, prega per noi perché confidiamo nello Spirito di Dio adesso che il nostro popolo assume la lotta per la giustizia e nell’ora di realizzarla nella libertà per un tempo di pace.

Amen.

 

 

 

 

 

L’altra faccia del benessere

Ad inaugurare la mistificazione del benessere è stato, alcuni decenni or sono, Silvio Berlusconi: le pizzerie e i ristoranti pieni zeppi erano per lui sintomo incontestabile di benessere e riscontro positivo per le sue politiche populiste.

Esistono due modi di approcciare la realtà sociale: farsi guidare dalle immagini virtuali e dalle statistiche trilussiane o andare impietosamente al sodo sulla base dei comportamenti effettivi della gente.

I dati occupazionali sono in crescita, ma purtroppo sono in crescita anche i dati sulla povertà. Allora bisogna dedurne che troppe persone lavorano con stipendi da fame e in condizioni precarie.

In questi giorni è scoppiata la polemica sulle vacanze italiane: il governo si accontenta di registrare arrivi in crescita e milioni di visitatori nelle nostre strutture ricettive; per altri ci sarebbe stata una perdita di presenze tra il 20 e il 30 per cento, esclusa la domenica, rispetto allo scorso anno, con complessivamente il 15% in meno di ombrelloni occupati.

Anche mio padre cadeva nella semplificazione sociale: quando osservava il mare di automobili in viaggio per le vacanze estive, diceva ironicamente: “L’é tùtta cólpa adl’ miseriä…”.

Da una parte molte famiglie italiane hanno salari troppo bassi per andare in vacanza, dall’altra parte il governo blocca l’adozione di un salario minimo.

A volte sento reazioni pseudo-sociologiche, simili a quella di mio padre, che operano paragoni impossibili fra periodi economico-sociali di tempi troppo lontani e diversi fra di loro: “’Na volta sì cl’andava mäl, miga adésa…”.

Forse il parametro delle vacanze, così come le presenze in pizzeria, non è dei più adatti per misurare il livello di benessere di una popolazione, mi sembrano molto più significative e mi colpiscono molto di più le interminabili file alle mense della Caritas, messe magari in contrapposizione con il ritorno di Barbara D’Urso sul piccolo schermo Rai, che sarebbe accompagnato da un cachet compreso tra i 50mila e i 70mila euro a puntata (ne girano anche di più esagerati).

Di fronte a queste paradossali ingiustizie sociali scattava uno sferzante dialogo con mia madre. “Ag vriss un po’ äd comunisom…” esordivo polemicamente e lei aggiungeva: “Sì, ma äd coll dùr dabón!”.

Mio padre invece commentava sarcasticamente: “Mo co’ nin farani äd tutt chi sòld li, magnarani tri galètt al di?”.  Scherzi a parte era portatore di un’etica del dovere e del servizio e reagiva, alla sua maniera, alle incongruenze clamorose della società.

Se il comunismo, duro o morbido che sia, ha fatto il suo tempo, la sinistra politica dovrebbe riprendere a fare il suo mestiere, vale a dire a farsi carico delle difficoltà sociali non solo per rappresentarle occasionalmente e polemicamente, ma per assumerle nelle proprie credibili ed agibili proposte politiche.

 

 

 

 

La pace di Cristo fa sempre paura

É stato fermato e autorità trattenuto all’aeroporto di Tel Aviv don Nandino Capovilla, esponente di Pax Christi, che dovrà passare la notte in una struttura delle israeliane e verrà rimpatriato domani con il primo volo disponibile. Il sacerdote veneziano, parroco a Mestre, è noto per le sue iniziative in favore dei diritti umani e dei più deboli, sempre improntate alla nonviolenza. Nei 22 mesi di guerra a Gaza non ha mancato di esprimere la sua preoccupazione denunciando gli attacchi sui civili inermi e condannando le operazioni militari che hanno prodotto una catastrofe umanitaria. Don Capovilla faceva parte di una delegazione giunta in Israele con due voli dall’Italia, guidata dal presidente di Pax Christi, il vescovo Giovanni Ricchiuti che sta seguendo da vicino il caso. Nel documento di espulsione delle autorità israeliane, che Avvenire ha potuto visionare, è precisato che il sacerdote verrà allontanato «il prima possibile» si legge, «e fino ad allora sarà trattenuto in un luogo designato». Il provvedimento è stato preso in forza di non meglio precisate «ragioni di sicurezza nazionale», che dunque il sacerdote avrebbe messo a rischio, secondo le autorità israeliane, partecipando a iniziative di sensibilizzazione contro la guerra e per il dialogo e la pace tra i due popoli. La decisione potrà essere impugnata davanti alla Corte d’appello israeliana. Intanto don Capovilla se in futuro vorrà tornare in Terra Santa «dovrà presentare una richiesta in anticipo, che verrà presa in considerazione in base alle circostanze del momento». (da “Avvenire” – Nello Scavo)

Proprio ieri ho pubblicato un commento provocatoriamente intitolato “Il dio degli Ebrei non ha pietà per i Palestinesi”. Temevo di avere esagerato, invece purtroppo devo persino aggiungere che gli Ebrei sono ancora intolleranti verso Cristo ed il suo messaggio di pace.

Occorre vigilare per non farsi sorprendere e aggredire dal fanatismo, per resistere a questa tentazione da sempre presente in tutte le religioni, per tenere gli atteggiamenti giusti in questo periodo di paura e di terrore. Basti pensare alla vergognosa accusa di “deicidio” (=uccisori di Dio) con la quale la nostra Chiesa ha fatto soffrire per secoli migliaia e migliaia di fratelli Ebrei; la stessa sorte, per altri motivi, è toccata e tocca oggi ad altre minoranze etniche e religiose.

Se è vero che per secoli i cristiani hanno demonizzato gli ebrei, oggi le parti si sono invertite e gli ebrei, oltre che tormentare i palestinesi, mantengono una certa allergia verso i cristiani impegnati nella denuncia delle loro malefatte belliche. Evidentemente la verità scotta e fa male.

Il discorso religioso viene prima o dopo quello politico? Nel caso di Israele il comportamento politico è improntato alla fede religiosa, che funge anche da fondamento storico-culturale per le loro azioni di carattere politico. Ciò è stato in passato malauguratamente vero per i cristiani, oggi non è più così, almeno per i cattolici vista la manfrina ortodossa in appoggio a Putin.

Quindi penso che la emblematica vicenda di don Capovilla non sia un poliziesco incidente di percorso o un eccesso di zelo del controspionaggio o un opportunistico alt ad una propaganda antisemita o una manifestazione di onnipresenza del Mossad, ma il rifiuto categorico di ogni spinta religiosa verso la pace da parte di chi pratica la guerra senza alcuna disponibilità a mettersi anche minimamente in discussione.

Israele non teme le reazioni politiche del mondo occidentale, si sente al riguardo forte e inattaccabile, forse ha paura del messaggio cristiano impersonificato da Pax Christi, un movimento cattolico internazionale per la pace, nato alla fine della Seconda Guerra Mondiale, che si impegna nell’educazione alla pace e alla nonviolenza, nel disarmo, nell’economia di giustizia e nella salvaguardia del creato.

D’altra parte Gesù Cristo aveva previsto tutto quando diceva: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo» (Giovanni 14,27) e ancora: «Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada» (Matteo 10,34). Spada oggi non significa forse condannare apertamente e senza attenuanti il genocidio israeliano?

La tentazione di operare un parallelismo storico-religioso con la vicenda di Gesù Cristo è fortissima, ma non bisogna buttare benzina sul fuoco bensì allungare la mano per dialogare nonostante tutto, come intendeva fare don Capovilla in missione di pace, il quale, dopo la sua liberazione, ha aggiunto: «Per piacere: dite a chiunque scriva che basta una riga per dire che sto bene. Le altre vanno usate per chiedere sanzioni allo Stato che tra i suoi “errori” bombarda moschee e chiese mentre si continua a fingere sui suoi orrori». Il prete ha poi postato il messaggio che stava scrivendo quando gli è stato sequestrato il cellulare dalle autorità di Tel Aviv. Era la preghiera del giorno del patriarca Michel Sabbah, così intitolata. «La giustizia si affacci dal cielo. Presto, oggi stesso, Signore!».

Peccato, un’altra occasione apparentemente sprecata per uscire dal tunnel bellico in cui Netanyahu e c. hanno infilato Israele, il Medio-Oriente che è direttamente coinvolto e tutto il mondo che sta “complicitariamente” od omertosamente a guardare.

 

 

 

 

 

Il dio degli Ebrei non ha pietà per i palestinesi

Il comportamento dello Stato di Israele non è assolutamente difensivo, ma fortemente aggressivo al limite dell’annientamento di un popolo (chiamiamolo genocidio, sterminio o come si vuole). Al di sotto esiste una sorta di fanatismo religioso che lo giustifica? Al fanatismo islamico di Hamas si sta rispondendo col fanatismo ebraico? Per spiegare quanto sta avvenendo è sufficiente il sionismo? Non ho la capacità di intromettermi nel dibattito in corso su ebraismo, sionismo e semitismo: mi manca la preparazione culturale per affrontare simili problematiche. Tuttavia non posso chiudere gli occhi davanti al massacro dei palestinesi e mi limito quindi a due riflessioni.

Il sionismo è il movimento politico-religioso, sviluppatosi alla fine del sec. XIX in seguito all’inasprirsi dell’antisemitismo in Europa, inteso a ricostituire in Palestina uno stato che offrisse agli Ebrei dispersi nel mondo una patria comune e, dopo la proclamazione dello stato di Israele (15 maggio 1948), al suo consolidamento. Non siamo attualmente in presenza di un sionismo impazzito che ben si sposa col fanatismo religioso?

Ricordiamoci che lo Stato confessionale o giù di lì è la peggior forma istituzionale di un governo che confessa ufficialmente una data religione, la quale esercita influenza sulle scelte politiche del Paese. Tutto diventa lecito in nome di Dio: ne consegue un impazzimento politico-religioso per il quale non si può più chiedere a Dio che ce ne scampi e liberi.

Le analisi socio-politiche sullo stato di Israele sostengono che la casta religiosa sia molto potente ed influente. Mi chiedo allora: i maggiorenti dell’ebraismo sono d’accordo sullo sterminio in atto? Per loro il miglior perdono è la vendetta?

Seconda riflessione. La Bibbia nell’antico testamento porta in sé delle enormi e sconvolgenti contraddizioni: un Dio spietato e vendicativo verso i popoli nemici di Israele, l’intransigenza verso i nemici, la violenza a salvaguardia del popolo eletto, una filosofia bellica che sottende tutta la storia degli ebrei, etc. etc.

Se devo essere sincero, leggendo certi salmi non riesco ad evitare parallelismi con la storia attuale di Israele.  Qualcuno sostiene che la Bibbia abbia comunque un impatto immediato e fruttifero sull’ascoltatore o sul lettore attento, prescindendo dalla sua spiegazione, dal suo commento e dalla sua attualizzazione. Non lo so se sia vero in tutto o in parte, ma so soltanto che, di fronte a certe pagine della Bibbia, resto colpito per la loro sconvolgente violenza (si pensi agli interventi vendicativi di un Dio a uso e consumo del popolo ebreo).

Posso essere provocatorio e forse poco interreligioso? Se togliamo la chiave interpretativa ed esistenziale di Gesù di Nàzaret, rischiamo, a mio incompetente e discutibilissimo giudizio, di pestare l’acqua nel mortaio. Non so fino a che punto fosse eretico Marcione nella sua schematica contrapposizione fra Dio degli Ebrei e Dio di Gesù.

L’indubbio risorgente antisemitismo può essere considerato uno sciagurato fontanazzo dell’alluvione nazista e non anche una istintiva, semplicistica e barbara reazione verso chi da vittima si sta trasformando in carnefice?

Quindi mi sento in coscienza di esprimere molti dubbi che rendono ancor più inaccettabile la guerra in corso e ancor più colpevole l’atteggiamento di chi eticamente giustifica tutto con il terrorismo di Hamas, ma in realtà dimostra troppa passiva comprensione verso lo strapotere israeliano col progressivo redde rationem da esso operato, che si sta avvicinando al giudizio finale sull’esistenza del popolo palestinese.

 

Le osterie senza l’oste

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha messo in guardia contro qualsiasi “decisione presa senza l’Ucraina”, ribadendo che gli ucraini “non abbandoneranno la loro terra agli occupanti”. “Qualsiasi decisione presa contro di noi, qualsiasi decisione presa senza l’Ucraina, sarebbe una decisione contro la pace”, ha avvertito sui social, in vista dell’incontro che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il suo omologo russo Vladimir Putin avranno in Alaska il 15 agosto per cercare di porre fine alla guerra.

Zelensky ha sottolineato che le decisioni prese senza l’Ucraina sono contrarie alla pace e “non possono funzionare”. “Tutti abbiamo bisogno di una pace vera e autentica. Una pace che la gente rispetti”, scrive in un messaggio in inglese pubblicato su X.

Zelensky, che aveva chiesto di essere presente a un vertice dei leader sulla fine della guerra al quale partecipasse anche l’Europa, ha indirettamente accennato a informazioni trapelate sulla presunta proposta di Trump a Putin, che, secondo alcuni media, comporterebbe il congelamento del conflitto in cambio della revoca delle sanzioni contro Mosca. “Non ricompenseremo la Russia per ciò che ha perpetrato”, ha detto, aggiungendo che tutti i partner internazionali devono capire “cosa sia una pace dignitosa”.

Zelensky ha sottolineato che deve essere la Russia a porre fine alla guerra, poiché è Mosca che l’ha iniziata e la sta prolungando, e ha respinto ancora una volta la possibilità che un accordo implichi una cessione, almeno formalmente, dei territori ucraini occupati di Crimea, Donetsk, Luhansk, Zaporizhia e Kherson.

“La risposta alla questione territoriale ucraina è già contenuta nella Costituzione ucraina. Nessuno si discosterà da essa e nessuno potrà farlo. Gli ucraini non cederanno il loro territorio all’occupante”, ha detto, ribadendo la disponibilità a collaborare con Trump per una pace “reale e, soprattutto, duratura” che non rischi di “crollare a causa della volontà di Mosca”. (da “Avvenire” – Vito Salinaro)

Sarebbe curioso se non fosse ormai normale: si tratta una pace in assenza di una delle due parti interessate e alla fine addirittura sulla sua pelle. L’immediata conseguenza è una sacrosanta irritazione da parte degli esclusi e il loro ovvio irrigidimento.

Le due superpotenze (gli Usa forse lo sono ancora mentre la Russia si atteggia) troveranno sicuramente un’intesa che l’Ucraina dovrà ingoiare. Stupisce la totale assenza della Ue, che potrebbe almeno fare da sponda all’Ucraina, anche perché una sconfitta a tavolino del Paese invaso sarebbe un’umiliazione per l’Europa che lo ha, bene o male, sostenuto.

L’Europa ha sbagliato tutto fin dall’inizio: anziché fornire armi a più non posso, avrebbe dovuto e potuto svolgere il ruolo di playmaker in difficili ma inevitabili trattative di tregua se non di pace. Adesso è tardi! Purtroppo anche per Zelensky, che anziché limitarsi a pietire armamenti, cadendo in un gioco bellico internazionale senza vie d’uscita, avrebbe dovuto e potuto chiedere aiuto sul piano diplomatico a costo di qualche ragionevole sacrificio.

L’unico personaggio che faceva questi ragionamenti era papa Francesco, il quale fu per questo più volte criticato quale assurdo propugnatore di una inaccettabile resa: non era così e la storia lo sta già dimostrando.

Chi osava parlare di trattative diplomatiche era immediatamente bollato come amico del giaguaro russo: adesso di giaguari ne abbiamo due che si sostengono a vicenda, Trump e Putin.

Anzi, di giaguari ne abbiamo tre. Finirà più o meno all’osteria senza l’oste anche per la striscia di Gaza. Suscita orrore il piano di Netanyahu: i palestinesi fatti sloggiare e dirottati, con il concorso degli Stati Uniti, in una sorta di “metropoli umanitaria” nel Sud, dove si trova attualmente circa un milione di persone e dove verrebbe spinto un altro milione di sfollati da spingere poi ad accettare il trasferimento in altri Paesi.

Mia madre direbbe: meglio morire piuttosto che essere sballottati da un posto all’altro abbandonando tutto e tutti.

Anche in questo teatro l’Europa brilla per la sua assenza. Non è nemmeno riuscita a condannare apertamente e convintamente la prepotenza massacrante di Israele, men che meno ad adottare contromisure verso gli autori di un autentico genocidio. La storia ce ne chiederà conto.

Per i palestinesi il discorso è ancora più drammatico rispetto agli ucraini: sono senza uno Stato, sono senza alleati, sono senza un barlume di classe dirigente, sono ostaggi di Hamas tanto come i prigionieri israeliani.

Trump aveva promesso la pace e ce la sta proponendo: la pace dei sepolcri! Trattata con i becchini di turno…

 

 

 

Il carcere degli orrori

La procura di Milano indaga su quattro anni di gestione del carcere Beccaria di Milano: dal 2021 al 2024. Ci sono anche due ex direttrici del carcere Minorile Beccaria di Milano, Cosima Buccoliero e Maria Manenti, e una vicedirettrice che ha assunto per un breve periodo la reggenza Raffaella Messina nell’inchiesta per maltrattamenti, torture e falso. Un altro ex direttore, Fabrizio Rinaldi, seppur non presente nella richiesta di incidente probatorio, è a sua volta coinvolto nell’indagine. Le dirigenti dell’istituto penale minorile sono accusate in particolare di aver tenuto condotte omissive. Perché, «non esercitando i poteri di vigilanza e controllo e coordinamento agli stessi conferiti, omettevano di impedire le condotte reiterate, violente e umilianti all’interno dell’Ipm Beccaria».

Oltre alle ex direttrici, tra gli indagati ci sono un sovraintendente del carcere e due comandanti della penitenziaria. Anche tre operatori sanitari sono coinvolti nell’inchiesta sui soprusi e i pestaggi all’interno dell’istituto minorile. Il coordinatore sanitario, il medico e il coordinatore infermieristico del carcere sono accusati in particolare di aver redatto «referti falsi o concordati con gli agenti di polizia penitenziaria» per nascondere le lesioni riportate dai detenuti e «assistendo a plurime aggressioni» da parte degli agenti.

In tutto sono 42 gli indagati, 21 dei quali comparivano già nell’ordinanza cautelare dell’aprile 2024 con la quale erano stati disposti gli arresti per 13 agenti della penitenziaria e altri otto erano stati sospesi dal servizio. Oltre 30 gli appartenenti alla polizia penitenziaria indagati. I reati contestati sono stati commessi nei confronti di 33 ex-detenuti dell’istituto, parti lese che saranno sentite con la formula dell’incidente probatorio. È quanto risulta appunto dalla richiesta di incidente probatorio firmata dalla procuratrice aggiunta Letizia Mannella e dalle pm Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena. Sputi in faccia, calci e pugni sferrati sull’intero corpo – in un caso anche un colpo alla testa con uno stivale – il tutto condito da insulti irripetibili e spesso razzisti. Sono le scene che la richiesta di incidente probatorio – avanzato dalla Procura di Milano – restituisce di quanto avvenuto, per mesi, nel carcere minorile Beccaria. Maltrattamenti, lesioni, torture e un caso di violenza sessuale, che ora vedono salire la lista dei presunti responsabili e mettono in fila più episodi di violenza, dal 2021 al marzo 2024. Si tratta della fase 2 di un’indagine partita nell’aprile 2024 che aveva già portato a 13 arresti e 8 sospensioni.

Nel novembre 2023 un ragazzo di origine araba è stato colpito da alcuni agenti della penitenziaria con «più cinghiate anche sulle parti genitali fino a provocarne il sanguinamento». Frequenti le violenze psicologiche e fisiche e le umiliazioni: in più occasioni i detenuti vengono portati all’interno di una stanza priva di telecamere e aggrediti in gruppo, anche utilizzando le manette per immobilizzarli. «Compare, io ti mangio il cuore» è una delle frasi pronunciate da un poliziotto della penitenziaria prima di colpire un ragazzino. Nel gennaio 2024 un altro detenuto che stava dando in escandescenze in cella veniva picchiato con particolare violenza: «Lo colpivano con calci e pugni al volto e alla schiena e gli premevano un ginocchio sul collo; poi si spostavano nella cella dove ammanettavano il detenuto con le mani dietro alla schiena e, mentre lo stesso si trovava sdraiato a faccia in giù sul pavimento, lo colpivano con un calcio alla schiena». Sono alcuni dei casi documentati nella richiesta. (da “Avvenire” – Simone Marcer)

Perché tanta violenza, peraltro tollerata e addirittura fomentata, all’interno di un carcere oltre tutto minorile?

Durante la mia vita professionale, avendo l’occasione di svolgere funzioni direttive, raccomandavo ai colleghi tolleranza e correttezza in base al seguente ragionamento minimalista, ma assai realista: lavorare è inevitabilmente faticoso, cerchiamo di non renderlo tale ancor di più con atteggiamenti e comportamenti aggressivi e insofferenti…

Facciamo le debite proporzioni ed eccoci all’interno di un carcere, luogo di sofferenza: non aggiungiamoci violenza verbale e fisica da parte di chi vive e lavora in questo ambiente.

Violenza chiama violenza: più il carcere viene impostato come luogo di mera punizione e più vi sarà la istintiva reazione di scaricare in qualche modo la tensione su chi vive in quell’ambiente. Come sempre a farne le spese saranno i soggetti più deboli che verranno investiti da una sorta di ciclone paradossalmente vendicativo. Non occorre scomodare la psicologia per capirlo.

Cosa fare? Innanzitutto occorrerebbe che ciascuno facesse il proprio dovere a cominciare dai dirigenti delle carceri, ma sono convinto che non possa bastare.

Da qualche tempo, di fronte agli enormi problemi che stiamo vivendo, mi sento sempre più in dovere di partire dall’enorme portata culturale della nostra Costituzione. Vale per la guerra (ripudio), per i pubblici amministratori (disciplina ed onore), per l’accoglienza ai migranti (diritto d’asilo), per ogni e qualsiasi tentazione razzistica e discriminatoria (uguaglianza di tutti i cittadini), per le derive nazionaliste (cooperazione con gli altri Stati), per le spinte populiste (equilibrio democratico e meccanismi di controllo e bilanciamento dei poteri), per la mancanza di lavoro e per i morti sul lavoro ( lavoro valore fondante della Repubblica), per i femminicidi e le violenze contro le donne (uguaglianza fra uomini e donne), per la sanità pubblica (salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività), per la pubblica istruzione (scuola  aperta a tutti, istruzione obbligatoria e gratuita, diritto dei capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti degli studi), per i partiti politici (concorrere con metodo democratico a determinare la politica, divieto di ricostituzione del partito fascista), per la magistratura (autonomia e indipendenza).

In questo impegno alla riscoperta dei principi costituzionali un posto importante riguarda la pena carceraria. Nel contesto della Costituzione italiana, essa è soggetta a principi fondamentali che ne regolano l’esecuzione e la finalità. L’articolo 27 della Costituzione, in particolare, stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Questo implica che la detenzione non può essere fine a sé stessa, ma deve mirare al reinserimento sociale del reo. Il tutto, a maggior ragione vale per i minori.

Dobbiamo partire di qui per rivedere l’impostazione del carcere, per salvaguardare i diritti del condannato, per regolare il comportamento di chi opera nell’ambito carcerario, per evitare ogni e qualsiasi tipo di violenza, per prevenire i suicidi, per riportare cioè l’istituto carcerario nell’ambito del sistema democratico di cui è specchio fedele.

A carico di un cittadino condannato a qualsiasi pena detentiva non è ammissibile alcuna violenza fisica o psicologica, ma vige l’obbligo dell’assoluto rispetto dei diritti fondamentali della persona. Non resta che rimboccarsi le maniche: non è tollerabile che un carcerato venga torturato o indotto più o meno direttamente al suicidio. Servono amnistia e indulto? Si faccia ricorso anche a queste possibilità. Non ci si limiti a queste, ma non le si escluda. Non ci siano omertà e opacità. Si faccia qualcosa di concreto e di programmaticamente fondamentale per ovviare a questa vergogna della nostra malata democrazia.

Papa Francesco (meno se ne parla e più mi sento in dovere di ricordarlo), quando visitava le carceri, si chiedeva provocatoriamente in riferimento ai carcerati: “Perché loro e non me…”. Sarebbe opportuno che tutti ci ponessimo questa domanda e ne scopriremmo delle belle…