La benzina della guerra sul fuoco dell’odio

L’esercito israeliano lotta contro il fuoco degli incendi boschivi, accanto ai vigili del fuoco. E il ministro della Difesa, Israel Katz, ha dichiarato l’emergenza nazionale. Complici le temperature elevate e la siccità, il Paese è nella morsa delle fiamme. Nel giorno in cui si celebrava la memoria dei caduti nelle guerre, quasi tutti gli eventi sono stati cancellati a Gerusalemme e a Tel Aviv. Saltato anche il raduno in piazza degli ostaggi organizzato dal Forum dei familiari. Annullate tutte le manifestazioni in programma per il 1° maggio, Giorno dell’Indipendenza. Evacuate comunità a una trentina di chilometri da Gerusalemme, almeno 7mila gli sfollati. Il fumo nero ha interrotto l’autostrada 1, che collega Tel Aviv a Gerusalemme. Il premier Benjamin Netanyahu, in un video dal suo ufficio, ha rincarato l’allarme: «Il vento da ovest può spingere le fiamme facilmente verso la periferia di Gerusalemme e anche verso la città stessa». Chiesto l’aiuto internazionale a Italia, Cipro, Grecia, Croazia e Bulgaria. Dall’Italia sono partiti due Canadair. Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha raccomandato a Tel Aviv di chiedere a Bruxelles che sia attivato il meccanismo di protezione civile dell’Unione Europea.

E non è solo un sospetto che dietro il fuoco, ad alimentarlo, ci sia la mano di Hamas. Nelle stesse ore in cui sono divampati i primi roghi sulle colline di Gerusalemme, in almeno cinque focolai, su Telegram è spuntato un messaggio del gruppo terrorista palestinese che incitava a «bruciare tutto: boschi, foreste e case dei coloni… Gaza attende la vendetta dei liberi». Dalla Cisgiordania, sempre su Telegram, Jenin News Network ha esortato a «bruciare i boschi vicino agli insediamenti»: «La benzina e una scintilla possono trasformare un’entità in un inferno di fuoco. Gli insediamenti e le loro foreste sono il tuo obiettivo». (da “Avvenire” – Anna Maria Brogi)

Come volevasi dimostrare: la guerra, oltre che creare morte e distruzione, incendia gli animi, dai quali si scatena l’odio incontenibile, che a sua volta crea disastri irreparabili e il cerchio vizioso non si chiude mai. Non serve cercare la prima gallina che ha fatto l’uovo, perché le uova si moltiplicano e il pollaio diventa comunque un inferno.

Presumo che Israele darà la colpa delle fiamme, che lo stanno pericolosamente devastando, alle follie terroristiche di Hamas: probabilmente non si saprà mai l’origine di questi incendi. Resta la triste realtà di un assetto bellico che non lascia scampo a vincitori e vinti.

O si ha il coraggio di interrompere la spirale di odio che la giustifica (?) altrimenti la guerra non finirà mai. Le vittorie saranno quelle di Pirro e le sconfitte quelle che non insegnano niente.

Quando papa Francesco insisteva sul concetto devastante della guerra sembrava un uomo fuori dalla realtà, un pacifista assurdo, un seminatore di utopie. Ci accorgeremo sempre più che era e che rimane l’unico realista: il Vangelo intima l’amore per i nemici (porgere l’altra guancia!). Sembra una virtù impossibile da praticare mentre invece è una necessità assoluta di cui prendere doverosamente e coraggiosamente atto.

 

La stoltezza artificiale

Siamo tutti politicamente coinvolti, che lo vogliamo oppure no, in una forbice; da una parte  la situazione internazionale tale da far tremare le vene ai polsi, che Mattarella ha ben sintetizzato nella democrazia senza popolo con le autocrazie alle porte e con il sistema capitalistico in debolezza istituzionale colmata col ricorso al potere economico vestito alla muskiana; dall’altra parte la situazione italiana con una luna di miele meloniana in rapido esaurimento ed un 2025 in cui presumibilmente esploderà la crisi nel mondo del lavoro a causa dei cambiamenti epocali sgovernati (transizione ecologica, intelligenza artificiale, concorrenza spietata da parte cinese, ridisegnamento dei rapporti economici con gli Usa).

In mezzo a questa autentica bufera cosa combinerà il governo italiano? La domanda è questa e non tanto quella riguardante le scorribande dialettiche di una premier che abbaia alla luna, terrorizzata da una opposizione che non c’è (forse preoccupa proprio perché non c’è e chissà dov’è…), dalla paura dei fantasmi del passato (leggi Romano Prodi, al quale basta brandire un libro-intervista per sconquassare la psiche meloniana), dalla preoccupazione della tenuta di una maggioranza sempre più irrequieta e insofferente (la Lega rema contro e Forza Italia tace, ma non acconsente), dalla prospettiva di un anno sindacale piuttosto caldo (Maurizio Landini comincia a diventare un vero e proprio incubo).

Non sono un esperto cinofilo, ma un amico, che se ne intende, mi ha spiegato tempo fa che i cani non abbaiano per loro aggressività congenita ma per paura, da qui il famoso detto “cane che abbaia non morde”. Ed allora ecco il perché di un comportamento di Giorgia Meloni così sgangherato sul piano stilistico e del rispetto verso chiunque azzardi anche sommessamente una qualche critica. Come detto quindi non è importante capire la pescivendola romana, ma la sua nullità a livello nazionale ed internazionale. Per quanto tempo potrà durare questo falso potere costruito su un ossessionante immagine mediatica e su uno snervante cerchiobottismo?

Il 2025 potrebbe essere l’anno in cui si avvera l’esclamazione “Giorgia Meloni è nuda!” (con tanto di libero adattamento della fiaba culminante appunto nell’urlo “il re è nudo”).

Il tutto prende origine da una fiaba scritta nel 1837, dal poeta danese Hans Christian Andersen, che trae spunto da una novella spagnola, scritta nel tredicesimo secolo. Narra di un imperatore vanitoso, dedito solo, alla cura del suo aspetto esteriore. Alcuni commercianti giunti in città fanno trapelare, ad arte, di essere abili tessitori, di avere a disposizione un tessuto sottile, leggero, invisibile solo agli stolti e agli indegni. I cortigiani, inviati dal re a palazzo, non riescono a vederlo. Ma come succede spesso, per non essere giudicati male, decantano la magnificenza del tessuto. L’imperatore, convinto e felice, si fa cucire dagli abili tessitori un abito. Quando gli viene consegnato, però, il Re si rende conto di non essere neanche lui in grado di vederlo, come i suoi cortigiani prima di lui, decide di fingere, di mostrarsi estasiato per il lavoro dei tessitori. La decisione quindi è presa, con il suo nuovo vestito sfila per le vie della città, di fronte a una folla di cittadini che lodano a gran voce l’eleganza del sovrano. L’incantesimo, però, è spezzato da un innocente bambino che, con gli occhi sgranati, urla a gran voce: “ma il Re è nudo, non ha nessun abito addosso”. Da questa frase deriva il famoso detto “il Re è nudo!”. (da Wikipedia)

Non si può continuare una vita a galleggiare sopra un mare di problemi, prima o poi la barca si rovescia con disastrosi naufragi. La risposta polemica è pronta e viene sistematicamente adottata: chi fa questi ragionamenti è un gufo, è l’amico del giaguaro…

Se guardare la realtà vuol dire gufare, allora sono in buona compagnia, dal momento che il Capo dello Stato, fa da tempo ragionamenti analoghi anche se in modo morbido e, a volte, indiretto.

“Tante famiglie non reggono l’aumento del costo della vita. Salari insufficienti sono una grande questione per l’Italia”. È l’allarme lanciato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, durante la sua visita a Latina all’azienda BSP Pharmaceuticals S.p.a. in occasione della celebrazione della Festa del lavoro. Il Capo dello Stato entra nel merito delle “questioni salariali” sottolineando quanto queste siano “fondamentali per la riduzione delle disuguaglianze, per un equo godimento dei frutti offerti dall’innovazione, dal progresso”.

 “Si registrano segnali incoraggianti sui livelli di occupazione”, ricorda Mattarella, sottolineando però che “permangono, d’altro lato, aspetti di preoccupazione sui livelli salariali, come segnalano i dati statistici e anche l’ultimo Rapporto mondiale 2024-2025 dell’Organizzazione internazionale del lavoro”. Salari insufficienti che “incidono anche sul preoccupante calo demografico”, ricorda il Capo dello Stato, “perché i giovani incontrano difficoltà a progettare con solidità il proprio futuro. Resta, inoltre, alto il numero di giovani, con preparazione anche di alta qualificazione, spinti all’emigrazione. Questi fenomeni impoveriscono il nostro capitale umano”. (da “Il Fatto Quotidiano”)

E poi, parliamoci chiaro, come si può fare a non vedere la paradossale nullità che l’Italia sta mettendo in campo e che si accompagna alla carenza di altri protagonisti all’altezza della situazione. In fin dei conti è questa la “fortuna” di Giorgia Meloni. Se ci fossero ancora un’Angela Merkel a Bruxelles e un Nicolas Sarkozy a Parigi, basterebbe un loro sorrisetto ironico per farla sprofondare nel ridicolo, come successe a Silvio Berlusconi.

 

Chiesa avanti marsc’, anzi indietro Trump

«Mi piacerebbe essere Papa, sarebbe la mia prima scelta». Così risponde con una battuta Donald Trump ai giornalisti che gli hanno chiesto chi vorrebbe vedere come prossimo Pontefice. «Non lo so, non ho preferenze» ha poi continuato più serio. «Devo dire che abbiamo un cardinale in un posto chiamato New York che è molto bravo. Vedremo quello che succede», ha aggiunto riferendosi all’arcivescovo di New York, il cardinale Timothy Dolan, che ha guidato la preghiera all’insediamento del presidente lo scorso gennaio. (ildubbio.news)

Sembra una barzelletta, ma purtroppo non la è. La prima parte dimostra, in modo clamoroso al limite del ridicolo, la megalomania di cui soffre il presidente statunitense. Si sente l’Unto del Signore, a maggior ragione dopo l’attentato subito con tanto di scampato pericolo, che lui attribuisce a un intervento dell’Altissimo per consentirgli di salvare gli Usa e non solo.

Spero che il Padre Eterno abbia una visione del mondo un po’ più seria ed articolata di quella ipotizzata da Donald Trump. Fin qui si potrebbe anche sorridere: siamo infatti tutti un po’megalomani e non è un caso che gli americani si siano sentiti particolarmente rappresentati da questo incantatore di serpenti.

La seconda parte riguarda invece l’ignobile connubio che si sta delineando e concretizzando fra un certo cattolicesimo reazionario e una certa destra nazionalista e sovranista, trionfante in larga parte del mondo. Non vorrei che gli schizzi potessero arrivare anche al conclave, condizionando comunque in senso retrivo la scelta del nuovo papa.

Secondo Baldo Reina, il cardinale di Roma che ha presieduto nella basilica di San Pietro la Messa in suffragio di Papa Francesco, celebrata nel terzo giorno dei Novendiali, «non può essere, questo, il tempo di equilibrismi, tattiche, prudenze, il tempo che asseconda l’istinto di tornare indietro, o peggio, di rivalse e di alleanze di potere, ma serve una disposizione radicale a entrare nel sogno di Dio affidato alle nostre povere mani».

In questo senso, il porporato ha invitato a non avere «paura delle perdite connesse ai cambiamenti necessari». «Penso – ha spiegato – ai molteplici processi di riforma della vita della Chiesa avviati da papa Francesco, e che sconfinano oltre le appartenenze religiose». «La gente – ha aggiunto – gli ha riconosciuto di essere stato un pastore universale e la barca di Pietro ha bisogno di questa navigazione larga che sconfina e sorprende. Questa gente porta nel cuore inquietudine e mi pare di scorgervi una domanda: che ne sarà dei processi avviati?». (da “Avvenire”)

La scelta del nuovo papa, pur dovendo prescindere da schemi mondani (entrando nel sogno di Dio), è affidata alle mani di chi ha, gerarchicamente parlando, la responsabilità di guidare la Chiesa: ecco allora spuntare tre criteri a cui fare riferimento, continuità, universalità, unità.

La continuità non dovrebbe ammettere fughe né all’indietro né in avanti: mentre non ho il timore di affrettate accelerazioni (sarebbe troppo interessante che si ponesse questo problema…), la paura dell’indietrismo (così lo ha definito papa Francesco) mi fa tremare le vene ai polsi. E potrebbe venire proprio da questo mondo, che non esito a definire clerico-fascista, capeggiato dagli Usa di Trump: una devastante intromissione della politica in campo ecclesiale, con tanto di revisionismo storico ai principi della laicità dello Stato e dell’autonomia della Chiesa.

Allora potrebbe venire in soccorso di questa svolta reazionaria la strumentale applicazione degli altri due criteri di cui sopra, vale a dire l’universalità e l’unità. Non so fino a che punto sia diffusa nel mondo e nella cattolicità l’aria che tira a destra, esiste senza ombra di dubbio e, anche se non potrà impadronirsi del papato post-bergogliano, avrà magari la possibilità di influenzare e spaventare il Vaticano nei suoi giochi di potere, ventilando l’ipotesi di striscianti diaboliche divisioni.

In nome del tutti insieme forzosamente potrebbe farsi strada una soluzione di compromesso piuttosto anti-evangelico e qualche candidatura al riguardo non sarebbe così difficile da individuare e sostenere. Qualcuno la sta già ventilando…

C’è poco da fare, papa Francesco dava molto fastidio ai potenti della terra, che lo incensavano obtorto collo, ma che lo vedevano bene come i “beghi” nella minestra. Anche in ambito ecclesiale trovava paradossalmente parecchie ostilità negli Usa e in Africa, nel mondo sviluppato e in quello in via di sviluppo. D’altra parte cos’era la sua insistente personale richiesta di preghiera se non la domanda di una orante solidarietà davanti ai subdoli attacchi interni ed esterni.

Chi sta dalla parte dei poveri è destinato, prima o poi, a finire umanamente male: persino i poveri restano vittime a volte della sindrome del beneficiato.

E il popolo che sembra così schierato in difesa della pastorale di Francesco? Non dimentichiamoci che fa molto in fretta a cambiare parere. Pensiamo a Gesù osannato come re la domenica delle Palme e fatto o lasciato morire in croce pochi giorni dopo.

Oltre tutto, forse con un pizzico di malizia, vedo rispuntare nella Chiesa un certo devozionismo bigotto accompagnato da un falso desiderio di certezza dottrinale (come se il Vangelo non fosse l’unica e vera dottrina cristiana): l’uso liturgico del latino e la giubilazione della riforma liturgica ne sono un sintomo inquietante. Ma le cause di fondo dell’indietrismo, comunque camuffato, sono in realtà la contrarietà verso gli immigrati, la paura degli islamici, l’insofferenza nei confronti dei diversi, l’egoismo dilagante, i poveri che non devono rompere i coglioni più di quel tanto, etc. etc.: i cavalli di battagli di Trump. Ed ecco che il cerchio si potrebbe chiudere.

E lo Spirito Santo in cui credo fermamente? Lo faranno arrivare in ritardo o sosterranno che era d’accordo pur di mantenere salda e compatta la Chiesa.

Ricordo al proposito una gustosa barzelletta, che dicono piacesse molto a papa Giovanni Paolo ll.

“Dio Padre osserva, con attenzione venata da una punta di scetticismo, l’attivismo dei cardinali di Santa Romana Chiesa, ma non riesce a capire fino in fondo lo scopo della loro missione. Con qualche preoccupazione decide di interpellare Dio Figlio in quanto, essendosi recato in terra, dovrebbe avere maggiore dimestichezza con questi importanti personaggi a capo della Chiesa da Lui fondata. Dio Figlio però non fornisce risposte plausibili, sa che sono vestiti con tonache di colore rosso porpora a significare l’impegno alla fedeltà fino a spargere il proprio sangue, constata la loro erudizione teologica, la loro capacità diplomatica, la loro abilità dialettica, ma il tutto non risulta troppo convincente e soprattutto rispondente alle indicazioni date ai discepoli prima di salire al cielo.  Anche Dio Figlio non è convinto e quindi, di comune accordo, decidono di acquisire il parere autorevole di Dio Spirito Santo, Lui che ha proprio il compito di sovrintendere alla Chiesa.  Di fronte alla domanda precisa anche la Terza Persona dimostra di non avere le idee chiare, di stare un po’ troppo sulle sue ed allora il Padre insiste esigendo elementi precisi di valutazione, minacciando un intervento diretto piuttosto brusco e doloroso. A quel punto lo Spirito Santo si vede costretto a dire la verità ed afferma: «Se devo essere sincero, anch’io non ho capito fino in fondo cosa facciano questi signori cardinali, sono in tanti, ostentano studio, predica e preghiera. Pregano soprattutto me affinché vada in loro soccorso quando devono prendere decisioni importanti. Io li ascolto, mi precipito, ma immancabilmente, quando arrivo col mio parere, devo curiosamente constatare che hanno già deciso tutto!»”

 

 

La ragion di Nordio

Non si sono ancora esaurite le implicazioni del caso Almasri che già un nuovo “giallo” politico contribuisce a increspare ulteriormente le relazioni fra la Corte penale internazionale e il governo italiano. Stavolta riguarda il più noto dei ricercati a livello internazionale, il presidente russo Vladimir Putin, sul cui capo pende appunto un mandato di arresto spiccato dalla Corte dell’Aja per crimini contro l’umanità commessi in Ucraina. Mandato che però in Italia, e qui sta il punto da chiarire, non potrebbe al momento essere eseguito (sempre che Putin decidesse di uscire dalla Russia e venire nel Bel Paese, ovviamente) perché il ministero della Giustizia non lo ha ancora trasmesso alla Procura generale di Roma affinché lo inoltrasse alla Corte d’Appello, titolata a renderlo esecutivo.

Il caso viene sollevato al mattino dal Corriere della Sera e da Repubblica, che segnalano come il mandato emesso dalla Cpi attualmente non abbia efficacia in Italia a causa della mancata trasmissione degli atti ai magistrati capitolini da parte del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Ricostruzioni alle quali tuttavia il Guardasigilli, nel primo pomeriggio, ribatte con una nota stringata in cui argomenta le proprie ragioni: «Il Presidente russo Vladimir Putin, nei cui confronti vi è una richiesta della Corte penale internazionale, non è mai transitato in territorio italiano, né mai si è avuta notizia che fosse in procinto di farvi ingresso – si legge nel comunicato di via Arenula -. La presenza della persona o il suo imminente ingresso nel territorio dello Stato sono, infatti condizioni essenziali per i provvedimenti conseguenti». Se ne desume come, effettivamente, il mandato sia al momento “congelato” o comunque non sia stato trasmesso dal ministro alla magistratura, per ragioni che Nordio ritiene essenziali ai fini del proseguimento della procedura.

(…)

Resta comunque il dubbio che la vicenda possa far aumentare le frizioni sotto traccia sull’asse Roma-L’Aja, innescate dal caso Almasri (non ancora chiuso, visto che l’esecutivo italiano ha chiesto ulteriore tempo per rispondere alle domande della Corte sul perché il torturatore libico, dopo l’arresto a Torino su mandato della Corte, sia stato rilasciato e riportato a Tripoli con un volo di Stato). Anche in quel caso, fu il dicastero di via Arenula a non trasmettere ai giudici la documentazione dell’Aja, determinando di fatto la scarcerazione. Nel dossier Putin, potrebbe giocare un peso ancor più rilevante la volontà di non deteriorare ulteriormente le relazioni diplomatiche con Mosca, così come avvenuto per un altro mandato d’arresto dell’Aja tuttora fermo in via Arenula: quello a carico del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, accusato per i crimini di guerra commessi a Gaza. Capi di Stato e di governo contro cui Palazzo Chigi potrebbe aver deciso di non voler procedere, almeno finché saranno in carica. (dal quotidiano “Avvenire” – Vincenzo R. Spagnolo)

Questa si chiama realpolitik? Questa è la ragion di Stato che va contro il diritto internazionale? Questa è pelosa pignoleria giuridica di un ministro che la sa lunga? Carlo Nordio continua a fare le pulci alla Corte penale dell’Aia: non si rende conto che così facendo dà una mano ai delinquenti di Stato?

Papa Francesco quando entrava nelle carceri pensava: “Perché loro e non io?”. Il ministro italiano della Giustizia vuole maccheronicamente imitare il papa e pensa di scopiazzarlo di fronte ai criminali di Stato?

Sappia però che Bergoglio non aveva atteggiamenti teneri verso questi massacratori: non è un caso che Netanyahu e Putin non siano venuti a Roma per partecipare ai funerali di papa Francesco. Qualcuno pensava che temessero di essere bloccati in quanto passibili di arresto. Potevano venire tranquillamente, Nordio aveva indirettamente concesso loro una sorta di paradossale immunità. Papa Francesco si sarebbe scaravoltato nella bara.

 

Il Vangelo fra mitizzazione e scristianizzazione

«È in atto un processo di scristianizzazione, da non confondere assolutamente con la secolarizzazione, che sarebbe tutta dentro la logica del cristianesimo, la religione più laica e secolare. La scristianizzazione invece è il venir meno di tutti quei principi che fanno la paradossalità, il valore, il significato, il sale dell’annuncio evangelico» (Massimo Cacciari – intervista rilasciata ad “Avvenire”)

Fra i tanti, troppi, commenti sulla vita di papa Francesco, ho scelto quello di un filoso laico, perché mi aiuta, a fari spenti, ad uscire dal pericoloso e scivoloso rischio della fanfaronata per tacere, riflettere e pregare. Infatti forse son proprio io lo scristianizzato di turno.

Speriamo che il patrimonio a noi consegnato non vada perduto: sono sicuro che indietro non si debba e non si possa tornare. Vale per ognuno di noi, vale per il mondo e vale per la Chiesa.

Questo non vuol dire che papa Francesco fosse perfetto e che la sua azione abbia risolto tutti i problemi. Durante la sua vita ho criticato certi suoi atteggiamenti, ma quante cose importanti ha detto e fatto!!! Non finiremo mai di scoprirne la portata. Invece che esaltarlo e mitizzarlo sarebbe però molto meglio che traessimo dai suoi insegnamenti, esempi e comportamenti, qualche concreta conseguenza per la vita personale, sociale ed ecclesiale.

Faccio qualche esempio: che senso ha dire che è stato il papa dei migranti per poi continuare a vedere queste persone come un inciampo per il quieto vivere della nostra società; che senso ha dire che è stato il papa dei carcerati per poi accettare un sistema carcerario ingiusto e auspicare la galera ad ogni piè sospinto; che senso ha dire che è stato il papa dei poveri per poi fregarcene altamente di chi è povero; che senso ha dire che è stato il papa della pace per poi accettare di vivere in una logica di guerra a tutti i livelli, etc. etc.

Bene ha fatto il suo elemosiniere a disporre che fossero i poveri, immigrati e non, e i carcerati a fargli corona durante i funerali: da una parte i potenti, dall’altra gli ultimi della pista.

Non si tratta di fare demagogia. Maria Vergine, che non era una demagoga, nel Magnificat esalta così il suo Dio: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili”. Sicuramente papa Francesco si è occupato degli umili per innalzarli. Noi dovremmo fare altrettanto e magari però avere il coraggio di rovesciare i potenti dai troni…

La versione farsesca della pace

Un Silvio Berlusconi sorridente la raccontò di fronte a una platea divertita: “Il Cavaliere muore e, sulla base delle cronache dell’Unità, finisce all’inferno dove non funziona nulla. Aggiusta le cose e sale al Purgatorio dove risolve altri problemi. Arriva così in Paradiso dove però i cherubini litigano. A questo punto arriva il colloquio con il Padreterno che, però, al posto di quindici minuti dura tre ore. Al termine Berlusconi esce con la mano sulla spalla di Dio. Che esclama: Carina l’idea sul Paradiso SpA. Ma c’è una cosa che non ho capito: perché io dovrei fare il vicepresidente?”.

Ebbene Donald Trump la barzelletta non l’ha raccontata, ma l’ha vissuta in diretta ai funerali di papa Francesco. In debito di protagonismo rispetto a Bergoglio, ha voluto salire sul palcoscenico proponendo un curioso siparietto con Zelensky. La politica si è ripresa la scena, è riuscita a disturbare Bergoglio anche dopo la sua morte, mettendo in gioco due personaggi che, fra l’altro non avevano un gran feeling col papa: Zelensky lo voleva faziosamente e pregiudizialmente schierato a suo favore, Trump era una sorta di antipapa più laido che laico. E adesso…

Assediati dalla vasta penombra, sorvegliati dalle incombenti architetture che fanno sembrare piccoli i cosiddetti “grandi”, tra la Porta Santa e la Pietà di Michelangelo il presidente ucraino e quello americano finalmente si ritrovano. L’uno sporto di fronte all’altro, senza interpreti né consiglieri. Per quindici minuti non sono più Trump e Zelensky, ma Donald e Volodymyr. (Nello Scavo su “Avvenire”)

Il resto è fantapolitica e, in prospettiva, fantastoria. Mi stupisce il clamore suscitato da questa autentica buffonata dal sapore quasi blasfemo. D’altra parte non ho mai letto e ascoltato un cumulo di sciocchezze politichesi paragonabile a quello snocciolato dai media in occasione del funerale di Bergoglio e in vista del conclave (si sta superando ogni limite di decenza e buongusto).

Mi stupisce però ancor più che i responsabili della Basilica di S. Pietro si siano prestati a questa manfrina, consentendo una simile farsesca intromissione, pensando magari di proporre in diretta un (quasi) miracolo. Anziché “Santo subito!”, “Pace subito!”. Magari! Speriamo che il tutto non rientri in un delirante dopo-Francesco.

Mia madre avrebbe sentenziato: “Chi vàgon a tôr in gir quälcdòn ätor, miga al Sgnôr…”.

La pace non può dipendere da queste vergognose trappole mediatiche. «Pace: parola viva che oggi muore nelle ipocrisie, nelle case distrutte, negli ospedali bombardati, nelle file infinite per l’acqua sporca nella tanica, nelle pozzanghere di fango dove i bambini riescono ancora a vedere il cielo» (padre Ermes Ronchi).

Forse papa Francesco, fresco di arrivo in Paradiso, si sarà umilmente rivolto a Dio dicendo: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”.

Sparla Musumeci, rilancia Mattarella

Sergio Mattarella sceglie Genova per gli 80 anni della Liberazione, un 25 Aprile che però è un po’ nel segno di papa Francesco, citato nel discorso che Mattarella fa al Teatro Nazionale. «Non ci può essere pace soltanto per alcuni. Benessere per pochi, lasciando miseria, fame, sottosviluppo, guerre, agli altri. È la grande lezione che ci ha consegnato Papa Francesco. Nella sua “Fratelli tutti”, ci ha esortato a superare “conflitti anacronistici” ricordandoci che “ogni generazione deve far proprie le lotte e le conquiste delle generazioni precedenti e condurle a mete ancora più alte… -dice Mattarella – Non è possibile accontentarsi di quello che si è già ottenuto nel passato e fermarsi, e goderlo come se tale situazione ci facesse ignorare che molti nostri fratelli soffrono ancora situazioni di ingiustizia che ci interpellano tutti». Il capo dello Stato ricorda poi – e dalla platea è partito un applauso – che «è sempre tempo di Resistenza», e «sono sempre attuali i valori che l’hanno ispirata». (da “Avvenire” – Alessia Guerrieri e Angelo Picariello)

Ecco l’ennesimo capolavoro del nostro Presidente della Repubblica, capace di coniugare etica e politica, storia e impegno nel presente, passato glorioso e futuro problematico. Non si tratta solo di riconoscersi nei valori dell’antifascismo, testimoniati eroicamente nella Resistenza, ma di tradurli in teoria e prassi attuali: ci sono due modi per obnubilare la Resistenza, quello di scioglierla negli strumentali equivoci della storia passata e quello di relegarla nel mito e in un immobilistico pantheon.

Chi tende ad enfatizzare la vittoria degli anglo-americani vuole subdolamente misconoscere l’apporto fondamentale della Resistenza quale esperienza di popolo, sulla base della quale è nata la nostra democrazia, che non ci è stata né importata né regalata, ma che è stata conquistata dagli italiani con eroici sacrifici cominciati nella eloquente clandestinità durante il ventennio e culminati nella coraggiosa lotta partigiana.

C’è però anche il rischio di fermare le lancette del tempo in una sorta di impagabile nostalgia e di irripetibile esperienza: forse è questo sostanziale tradimento che sta portando la politica a finire nel pantano di un irrefrenabile ed inquietante egoismo. Non mi fanno paura i rigurgiti nazifascisti sparsi per il mondo, temo il mondo che sta perdendo la bussola della giustizia sociale e sta vivendo la politica come un inutile e fastidioso orpello.

Qualcuno ha temuto che la celebrazione della Liberazione potesse interferire in quella della vita e della morte di papa Francesco. Mattarella ha risposto a questi penosi menagramo operando una mirabile sintesi fra le due celebrazioni. Altro che sobrietà!

Il lutto si addice ai potenti

Quando in una famiglia succede un evento luttuoso, scatta immediatamente un senso particolare di appartenenza e di solidarietà fra i suoi componenti e le interferenze dall’esterno, se non sono dettate da vera amicizia e solidarietà, creano solo disturbo e fastidio.

Forse è ciò che sta succedendo, almeno per quanto mi riguarda, per la Chiesa colpita dalla morte di papa Francesco: non mi sono mai sentito così inserito, seppure criticamente, in essa come in questo frangente e quindi non posso sopportare le incursioni della politica, della cultura laicista e del circo mediatico.

Il mondo politico sta salendo ipocritamente sul carro papale dopo averne ignorato o addirittura osteggiato i messaggi, soprattutto quelli sul problema dei migranti, dei carcerati e del commercio delle armi. Sono improvvisamente diventati tutti pacifisti, progressisti e solidaristi, non vogliono perdere la ghiotta occasione di cavalcare il lutto.

Paradossalmente il personaggio più coerente mi sembra Benjamin Netanyahu: irritato assai dalle sacrosante invettive di papa Francesco in merito ai massacri del popolo palestinese, ha il coraggio di restare indifferente alla sua morte. Meglio la sua ostentata insofferenza della opportunistica partecipazione trumpiana, che copre di tradizionalismo cattolico l’offensiva reazionaria in atto nel mondo, capeggiata proprio dalla politica statunitense più o meno subita e/o addirittura ispirata dalla gerarchia cattolica e seguita pedissequamente da un popolo bigotto.

Ho evitato sdegnosamente di seguire la seduta parlamentare in ricordo di papa Francesco: una insopportabile gara a coniugare la popolarità papale con il populismo delle destre, il coccodrillismo dei centristi e il fancazzismo delle sinistre. Il governo usa il lutto nazionale per cancellare i propri peccati in opere, le sinistre usano le loro parole per alleggerire i peccati di omissione. Siamo arrivati all’eloquente lapsus freudiano del ministro Musumeci sulla sobrietà delle celebrazioni del 25 aprile.

E che dire dello scatenamento del totopapa, condito da teorizzazioni pseudo ecclesiali, che in realtà ripropongono i frusti schemi della politica politicante applicandoli ad una Chiesa reformanda sì, ma non in mano a dilettanti allo sbaraglio. Non dimentichiamoci infatti che, nonostante tutto, la Chiesa ha nelle sue mani un jolly capace di far tornare anche i giochi più difficili e spericolati: nientepopodimeno che lo Spirito Santo.

Nella sarabanda del dopo-francesco non tutto è “burla”, c’è un dato confortante anche se un tantino “inquietante”: la gente comune dimostra di avere capito e di essere in sintonia con le proposte di papa Francesco molto più delle classi dirigenti laiche e cattoliche. Qualcuno si è lanciato nel giudicare questo fenomeno come un pericoloso populismo pseudo-evangelico. Le persone, credenti, non credenti, diversamente credenti, non sono così stupide come possa credere o far credere chi esercita il potere, sanno cogliere e giudicare nelle loro coscienze.

Resta un interrogativo? Perché questa gente di fronte alla politica si lascia turlupinare, non partecipa, non va a votare o vota in base a criteri opposti rispetto alla cultura emergente dalla tanto osannata proposta bergogliana? Evidentemente c’è, come si suole dire, qualcosa che tocca. Se lo chiedano i cattolici a cominciare dalle più alte gerarchie: la fede senza le opere non vale niente…Se lo chiedano le classi dirigenti in generale e quelle politiche in particolare: si stanno svuotando le chiese e i seggi elettorali. Va bene così fino alla prossima morte di papa?

Trump che abbaia non morde

Ammesso e non concesso che Donald Trump abbia in testa una strategia al di là dell’indubbia e straripante megalomania, la si può intuire contenuta nel suo abbaiare contro la Cina.

La Nato, per dirla con papa Francesco, continua, direttamente e indirettamente, ad abbaiare alle porte della Russia. Il papa usando questo termine ha centrato in pieno la questione: mi risulta che i cani abbaino più per paura che per aggressività ed infatti un po’ tutti i protagonisti del panorama internazionale reagiscono alla paura preparandosi alla guerra, senza capire che lo schema di guerra non può che incutere paura, che paura chiama paura, che un clima di reciproca paura non può rimanere freddamente nervoso ma porta inevitabilmente alla bollente e interminabile guerra.  Un gatto con gli anfibi che si morde la coda.

Trump ha cambiato l’indirizzo, ma non lo stile: si tratta di un’abbaiata globale che potrebbe avere sviluppi impensabilmente tragici se non apocalittici. La Cina fa paura e costituisce per Trump una vera e propria ossessione e tutte le sue mosse possono essere ricondotte a questo infernale quadro imperialista-bellicista.

Della pace in Ucraina a Trump non frega niente, gli interessa soltanto togliere la Russia dalla sfera di influenza cinese, offrendo ad essa una buona via d’uscita assieme a buone prospettive di collaborazioni economiche: l’Ucraina pacificata a suon di sfruttamento bilaterale. Tre piccioni con una fava: tacitare in qualche modo le “pretese” di uno strapazzato Zelensky; accontentare il più possibile le mire zariste del compagno Putin; impostare una inesorabile ripartizione delle merende nell’ambito della relazione pragmatica con la Russia.

L’unione europea è vista come il fumo negli occhi, ma l’importante è impedire ad essa ogni e qualsiasi patto significativo di collaborazione con la Cina. Giorgia Meloni sta facendo al riguardo la parte dell’utile idiota.

I dazi sono uno strumento, non il più importante, di disturbo verso la Cina, più un avvertimento che un atto ostile. Tutto viene pensato e deciso per ricuperare il ruolo dominate degli Usa ai danni del crescente ed esorbitante potere della Cina a livello mondiale.

Questa strategia trumpiana trova però diverse controindicazioni che la rendono politicamente piuttosto semplicistica e velleitaria oltre che inaccettabile dal punto di vista etico.

Innanzitutto Putin è più intelligente e furbo di lui e sta cavalcando la situazione, alzando il prezzo di eventuali accordi man mano che si vengono approssimativamente delineando: un tira e molla senza capo né coda.

Quanto all’Europa, è vero che non ha una strategia comune e si trova spiazzata dagli attacchi americani, però ricordiamoci che ha molta più cultura e storia degli Usa e alla lunga questi elementi contano più della potenza economica e militare. Trump non si illuda quindi di fare un sol boccone dell’Ue, di imprigionarla nella Nato, di paralizzarne la vita economica e di chiuderle gli sbocchi internazionali.

La Cina ha peraltro una visione imperialista molto più aperta, moderna e articolata del mero protezionismo che connota l’attuale imperialismo americano: i rapporti col mondo cinese sono quindi molto complessi e vanno ben al di là delle sbruffonate trumpiane.

Oltre tutto è da tempo in atto un autentico rimescolamento delle carte imperialiste e le somiglianze, seppure invertite, rendono totalmente anacronistica la contrapposizione tra le super-potenze sul piano della democrazia e del rispetto del progresso civile. La Cina gioca da tempo a fare il verso al capitalismo più spietato, mentre gli Usa fanno la parodia alla democrazia politica. Gli estremi si toccano. Persino lo stile diplomatico delle due potenze si è invertito: alla moderazione cinese fa riscontro l’aggressività americana.

Che differenza fa la clamorosa rimozione di un anziano timido dissidente durante un congresso del partito cinese (preso e letteralmente portato fuori dalla sala) e il minacciato drastico licenziamento del capo della Federal Reserve Jerome Powell, colpevole di essersi permesso di rivendicare e difendere il proprio ruolo istituzionale?  La democrazia è diventato un optional, è proprio il caso di riaffermare che tutto il mondo è paese.

Tutto ciò rende quasi ridicole le velleitarie intenzioni americane così come gli opportunistici appoggi occidentali a paradossali salti nel buio mondiale.

 

 

 

Un conclave senza chiave e intra omnes

La morte di papa Francesco ha inevitabilmente aperto un certo dibattito sul futuro conclave anziché creare i presupposti per una forte presa di coscienza critica sulla situazione ecclesiale in tutti i suoi aspetti. Da una parte è scattata come una molla la sacrosanta ammirazione per un papato tutto da scoprire, dall’altra la gossipara previsione in chiave politica del dopo Bergoglio, fino ad arrivare al toto-conclave imbastito sulle fazioni cardinalizie in campo. Il tutto rischia di rientrare in un battage mediatico esterno e nella solita impenetrabile liturgia gerarco-clericale all’interno. Occorre perciò sforzarsi di trasformare questo passaggio vitale per la Chiesa in un momento di consapevole crescita di tutto il Popolo di Dio.

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Innanzitutto è auspicabile che, anche per merito delle innegabili novità introdotte dall’impostazione pastorale di Bergoglio, possa essere, almeno in parte, superata la visione unilaterale e verticistica del “papacentrismo”: la Chiesa Cattolica è una comunità ed al suo interno esistono carismi (servizi) fra i quali c’è anche quello del Vescovo di Roma. A tutti i livelli, la Chiesa deve esprimere, all’interno e all’esterno, la piena e totale adesione allo stile evangelico, liberata dalle incrostazioni della tradizione e dai lacci dell’esercizio del potere. Quindi la procedura della scelta e l’impostazione dell’alta funzione papale devono essere rivisti sostanzialmente e formalmente in un bagno di partecipazione e condivisione coinvolgente: bisognerebbe partire dall’assoluto primato della dimensione  pastorale rispetto a quella istituzionale; al centro dello stile ecclesiale si dovrebbe porre la collegialità episcopale; la vita dell’istituzione e la stessa pastorale andrebbero sclericalizzate, liberate dall’affarismo, ridotte all’essenziale in senso economico ed organizzativo e subordinate alle esigenze evangeliche; occorrerebbe puntare al forte coinvolgimento del laicato ed alla imprescindibile valorizzazione della presenza femminile. Molto è stato fatto in questi dodici anni, ma molto resta ancora da fare.

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Nonostante l’impegno instancabile profuso da papa Francesco rimane la difficoltà della Chiesa nel leggere i segni dei tempi e nell’andare incontro ai problemi dell’uomo, della donna, della società, del mondo. Non basta un papa aperto per superare il dramma di una Chiesa che si piange addosso, che si guarda l’ombelico, che arranca rispetto alle sfide del mondo contemporaneo, che si rifugia nello sterile dogmatismo e nel penoso rigorismo, che si limita a rammaricarsi della scarsità degli operai nella vigna e della propria appassita capacità all’impegno evangelico, che vive spesso di campanilismo ecclesiale o di retrograda contrapposizione alla modernità, che non rispetta la laicità dello Stato, che si compromette col potere, che difende ipocritamente la vita con i principi irrinunciabili senza condividere i drammi delle persone.

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Occorre proseguire nel raccogliere le provocazioni del Concilio Vaticano II per andare anche oltre: la collegialità vissuta come partecipazione di tutti, la centralità del Popolo di Dio, l’apertura al ruolo della donna nella pastorale e nei sacramenti, una visione nuova e gioiosa della sessualità nel rispetto delle tendenze personali e intime e, soprattutto, una Chiesa povera, trasparente a livello economico, esperta in comprensione, quella di Gesù, e non in condanne e anatemi. Su questi temi papa Francesco è stato molto ficcante in materia di povertà, misericordia e superamento del clima di caccia alle streghe; non altrettanto sulla piena valorizzazione del ruolo della donna e soprattutto per quanto concerne la sessualità.

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Non si può evitare di toccare gli aspetti più scabrosi della vita della Chiesa che risalgono al rapporto tra magistero ecclesiale e sfera della sessualità con assurdi imbarazzi e storici pregiudizi: dalla colpevolizzazione della masturbazione a livello adolescenziale alla esorcizzazione dei rapporti pre-matrimoniali, dalla condanna del divorzio con la conseguente emarginazione sacramentale dei divorziati, alla demonizzazione dell’aborto sempre e comunque, dal rifiuto aprioristico del controllo delle nascite a quello paradossale  dell’uso del preservativo anti-aids, dalla sottovalutazione delle unioni di fatto, dalla testarda difesa del celibato sacerdotale alla visione formalistica e statica del concetto di castità. Parecchi Padri della Chiesa aborrivano la sessualità, ne erano inorriditi e terrorizzati. L’atto sessuale era follemente bollato nella sua esecrabile impurità, la riproduzione doveva avvenire senza provare alcun piacere, come atto razionale e scevro da ogni passionalità. Una storia simile spiega molte delle gravi devianze, anche attuali, da parte di uomini di Chiesa. Sessuofobia fa rima con sessuomania e con viziosa omosessualità, purtroppo di casa in Vaticano e ambienti collegati. La pur minore ostilità dimostrata da papa Francesco verso l’omosessualità non fa totale giustizia di quella dichiarata e vissuta in una tensione sentimentale finendo col lasciare spazio alla sporca indulgenza verso l’omosessualità dell’intrigo e del favoritismo mercenario. Occorre quindi ripartire da un concetto aperto della sessualità vissuta come dono di Dio, come espressione di amore e dono, come talento da impiegare al meglio secondo coscienza. Basta con gli assurdi e vessatori codici di comportamento!

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In estrema sintesi si è aperto un frettoloso e semplicistico dibattito in base alla schematica contrapposizione tra continuismo e indietrismo. L’impostazione data da Bergoglio verrà proseguita e magari migliorata almeno nelle sue linee fondamentali oppure si tenderà a voltare pagina secondo lo sbrigativo detto del “morto un papa se ne fa un altro”? La configurazione del Sacro Collegio è stata ben implementata, articolata ed equilibrata da papa Francesco e dovrebbe essere tale da escludere colpi di coda reazionari, anche se certe tentazioni sono sempre in agguato e le velleità conservatrici pronte a cavalcare ogni e qualsiasi momento di incertezza.  Certe scelte di campo, come stare sempre e concretamente dalla parte dei poveri, difendere coraggiosamente i diritti dei migranti, lavorare radicalmente in favore della pace e contro ogni e qualsiasi guerra, favorire il dialogo ecumenico e inter-religioso, concepire una Chiesa aperta ai problemi della persona e pronta a schierarsi in sua difesa a livello individuale e sociale, appaiono consacrate dalla teoria delle encicliche e dalla prassi ecclesiale, ormai irreversibili e così forti da escludere la loro messa in discussione. Le correnti di pensiero possono anche essere positive purché non siano, come succede spesso in politica, un modo elegante per coprire manovre ed assetti di potere. L’azione dello Spirito Santo dovrebbe consistere proprio nell’evitare che i signori cardinali mandino in soffitta i testi evangelici e si lascino guidare dai manuali della curia vaticana.

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La forte presa di coscienza ed il coraggio del dialogo interno ed esterno dovrebbero essere il miglior viatico per un conclave che, al di là della teatrale liturgia, sappia promuovere un rinnovamento di metodo e di merito. La Chiesa ha bisogno di evolvere e la scelta del nuovo Papa deve esserne un’occasione importante. Non basta pregare e tacere. Credere e obbedire. Ogni cristiano ed ogni comunità deve portare il proprio contributo critico alla vita della Chiesa. All’attesa si devono accompagnare la riflessione, la provocazione, la protesta, la proposta, l’impegno, la testimonianza, la condivisione.