Per essere europeisti bisogna essere…Draghi

Siamo colposamente abituati a leggere la storia con gli occhiali deformanti dell’attualità: vale per il passato e per il futuro. Enfatizziamo gli eventi politici del momento assegnando ad essi un significato ed una portata tali da segnare irrimediabilmente la storia degli anni a venire.

La brexit è stata e viene vissuta come una irreversibile sconfitta dell’unità europea; la vittoria di Trump alle elezioni americane come la fine della globalizzazione; l’esito delle elezioni presidenziali francesi come un passaggio decisivo nel processo di unificazione europeo. Non si tratta certamente di eventi marginali, ma nemmeno di questioni decisive.

Così come non credo che l’esito delle elezioni francesi non sia determinato dall’attentato più o meno terroristico e più o meno islamico ai Campi Elisi, ritengo che il risultato elettorale, qualunque sia, non sarà decisivo per il futuro dell’Europa.

Non per il gusto di andare contro corrente, ma se prevarrà un candidato antieuropeista non è detto che si scatenino a livello continentale tutte le pulsioni nazionaliste o sovraniste; potrebbe trattarsi anche di uno choc benefico tale da accelerare il percorso unitario, rivedendo magari quel paralizzante status quo che sembra imbalsamare la Ue imprigionandola in burocratici meccanismi di conservazione; in senso inverso l’affermazione di un Presidente francese europeista potrebbe paradossalmente comportare un rilassamento nelle istituzioni europee tale da sclerotizzare i meccanismi di crescita e di integrazione ulteriore.

Non diamo a Marine Le Pen il carisma e il potere che non ha, vale a dire quello di interrompere o invertire il corso della storia europea; non assegnerei neanche a Emmanuel Macron, pur con tutta la fiducia e simpatia che mi ispira, il ruolo di difensore e sviluppatore dell’Unione Europea. Andiamo adagio. Come nella vita individuale, anche nella vita sociale e politica basta poco per smentire le facili e drammatiche previsioni.

Restando al discorso europeo bisogna convincersi innanzitutto che non ha alternative e che le proposte antieuropee scontano un pressappochismo ed un velleitarismo immediatamente implodenti. Non c’è spazio per fughe all’indietro. La strada è obbligata. C’è modo e modo di percorrerla: qui stanno le questioni serie e qui si gioca il futuro. Sono ridicole le sparate referendarie dei Salvini, dei Grillo e di personaggi italiani e di altri Stati europei.

Perché l’europeismo segna il passo nella mentalità dei cittadini? Perché cammina sulle gambe della classe dirigente e, se questa non è credibile, si aprono praterie per le battaglie strumentali dei disfattisti e dei fascisti vecchi e nuovi.

Quante volte ho sentito ripetere il ritornello lamentoso verso lo strapotere regionale ai danni di Parma: in Emilia-Romagna non contiamo niente, siamo tagliati fuori, veniamo trattati come parenti ricchi e indesiderati…

In parte era ed è la verità, ma soprattutto per colpa nostra perché non abbiamo mai saputo esprimere ai vari livelli e nei diversi settori una classe dirigente all’altezza del compito e spendibile in sede regionale. Laddove non si è autorevolmente presenti diventa impossibile pesare nelle decisioni, si prende quel che arriva e si tace.

Quando ebbi l’occasione, per motivi professionali, di partecipare direttamente e di introdurmi, modestamente ma fattivamente, nell’establishment regionale, capii ancor meglio la situazione e riuscii faticosamente a inserirmi nei meccanismi decisionali nella misura in cui portai un contributo all’altezza del compito che mi era stato assegnato: non contavo in quanto parmigiano, ma se e in quanto sapevo fare il mio mestiere. Di conseguenza ne beneficiava la mia provincia di provenienza e di appartenenza. A chi si intestardiva ad accusare reggiani e modenesi di prevaricazione ero costretto e rispondere: può darsi, ma loro ci sono, noi no! Gli assenti hanno sempre torto.

Questa situazione, a mio avviso, si verifica anche nei rapporti tra Italia e Unione Europea. Faccio tre esempi. All’Italia è spettato di ricoprire l’incarico di Alto rappresentante per la politica estera abbinato ad una vice-presidenza della Commissione. Si dirà: ma il ministro degli esteri europeo non conta nulla dal momento che ogni Stato fa la sua politica estera e l’Unione non riesce a presentarsi con una voce unica. Anche questo è vero, però Federica Mogherini, pur con tutto il rispetto e la simpatia che provo nei suoi confronti, mi sembra “debolina”. Se alla “leggerezza” della carica aggiungiamo la “debolezza” dell’incaricato…Le occasioni di sedersi a certi tavoli internazionali non mancano, la possibilità di far pesare l’opinione e la visione italiana è notevole. Allora forza e coraggio. Se ci siamo, battiamo un colpo e lasciamo da parte le lamentazioni.

Da qualche giorno abbiamo un italiano alla presidenza del Parlamento Europeo, Antonio Tajani, non è uno scherzo. Presiedere questa istituzione democraticamente rappresentativa è non solo prestigioso, ma influente e importante anche per il nostro Paese. Sarà una “gabbia di matti”, un’assemblea pletorica ed afunzionale, un organismo con scarsi poteri: tutto vero. Ma se ci siamo, battiamo un colpo. Staremo a vedere…

La dimostrazione di quanto vado sostenendo la incarna Mario Draghi. È vero che la BCE è una istituzione di forte peso economico e politico, ma avere un italiano di grande e indiscutibile competenza, di idee aperte, convinto europeista, banchiere integerrimo, ci consente di avvalerci di una corretta sponda e di essere autorevolmente in prima linea dove si decidono i destini del nostro continente. Non manca la contestazione nei suoi confronti, non gli vengono risparmiate critiche anche per il solo fatto di essere italiano e sud-europeo, ma la sua competenza e la sua visione prevalgono. Cosa sarebbero l’Europa e l’Italia se in questi anni Mario Draghi non avesse presieduto la BCE?

Permettetemi di ritenere che il futuro europeo dipenda molto più dalla competenza, dall’equilibrio e dalla serietà di Mario Draghi che dalla demagogia da quattro soldi di Marine Le Pen.

La politica cammina sulle gambe degli uomini. Le elezioni e le istituzioni contano, ma conta soprattutto chi vive le realtà dal di dentro e nel tempo.

 

 

 

Il taxi di Grillo e quello di Tarquinio

Ho ereditato da mio padre un forte spirito critico al limite dello scetticismo di stampo quasi anarchico e quindi ho imparato a non fidarmi delle apparenze, a giudicare dopo avere approfondito e scandagliato le situazioni, a leggere in chiave anticonformista gli accadimenti e le vicende.

Non mi scandalizzo e non mi stupisco perciò se in sede politica il dibattito si fa serrato e spigoloso, non sono un osservante del politicamente corretto, amo le provocazioni. Quando però la critica è aprioristica, la polemica è pregiudiziale, il retroscenismo diventa la regola, l’interpretazione dei fatti risponde all’ideologia, non ci sto più al gioco. Era il difetto storico dei comunisti, sta diventando la caratteristica dei “grillisti” (mi piace definirli così proprio per marcare la somiglianza con i comunisti, i quali però sapevano anche fare scelte politiche, cosa assolutamente vietata ai cinque stelle).

Il movimento è partito da Beppe Grillo, dietro di lui continua a non esserci niente (la combriccola dei replicanti alla Di Maio non merita alcuna seria attenzione), ma purtroppo tra il carisma (?) di Grillo e la gente si è instaurata una sorta di schema per cui lui ha sempre ragione a prescindere, in quanto dietro ad ogni questione c’è del marcio e solo lui è capace di dirlo, salvo non essere capace di dimostrarlo (l’importante è dirlo, dimostrarlo non serve…) e di affrontarlo (lo deve fare chi comanda, anche se, quando loro comandano, non lo sanno fare).

L’ultimo esempio è l’attacco ai soccorsi in mare agli immigrati con i taxi del Mediterraneo: dietro le organizzazioni umanitarie, impegnate nel salvataggio di persone che fuggono disperatamente da fame e guerra, ci sarebbe l’affarismo. Ecco lo schema: l’altra faccia della realtà garantita sempre e comunque da Grillo che la sa lunga. Tutti stupidi, tutti ladri, tutti corrotti, tutti in mala fede. Il vangelo secondo Grillo. Se Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, nel fare il suo incauto e inspiegabile assist al M5S, voleva dire che fra dogmatici ci si può intendere, aveva ragione. Se dai dogmi o dai principi astratti scendiamo nella realtà il discorso cambia. Tarquinio, dove collocherebbe infatti questo approccio cinico, altalenante e disumanizzante di Grillo all’immigrazione? Nei tre quarti di omogeneità o nel quarto di diversità rispetto al sentire del mondo cattolico?

Beppe Grillo sembra fare sul serio e dalla sua continua smerdata tende a preservare la Chiesa: tra Chiesa e Chiesetta ci si intende. Nel suo mirino sono entrati i radicali: «Dove ci sono disgrazie ci sono loro, referendum per morire, per divorziare (che è comunque una fine), per uccidere o per aiutare a uccidersi (…) La loro ideologia è la fine, si tirano un po’ su con le coppie di fatto e i matrimoni gay, ma con gli uteri in affitto si finisce di nuovo nel truculento». Sciocchezze simili era da tempo che non si ascoltavano, ma forse saranno musica per le stucchevoli battaglie medievali di Avvenire. Bisogna lasciare a Marco Tarquinio il tempo di pulirsi la scarpa, può capitare e dicono addirittura che porti fortuna, nel caso in questione non saprei a chi. Fatto sta che proprio ieri papa Francesco ha rivolto l’ennesimo appassionato appello a favore dei rifugiati e dell’accoglienza senza se e senza ma, proprio mentre Grillo (o il suo ventriloquo) bacchettava e beffeggiava le ong impegnate in tal senso. La contabilità tarquiniana rischia di andare in tilt. Fosse solo questo il pericolo…Il problema è che va in tilt la politica dietro le cavolate organiche e quotidiane di Grillo. I cattolici recitano “dacci oggi il nostro pane quotidiano”; molti italiani, cattolici e non, supplicano”dacci oggi la nostra cazzata quotidiana”. Gli interlocutori di queste preghiere sono diversi, a parere di Tarquinio, solo per un quarto.

 

Il lavoro non è un sogno

Quando osservavo dall’esterno frotte di ragazze frequentanti la facoltà di psicologia, mi chiedevo: quali prospettive serie di lavoro hanno queste giovani affascinate dall’invadente ruolo di questa disciplina negli assetti della società moderna? È vero che stiamo diventando tutti matti e che dello psicologo avremo sempre più bisogno, ma non al punto da assumerne uno per ogni famiglia o per ogni condominio o per ogni impresa o ente e via dicendo.

Nelle scelte dell’indirizzo scolastico c’è qualcosa che non va. Domina ancora un malcelato senso di rivincita dei genitori, i quali tendono a spingere i propri figli su percorsi più di riscatto sociale che di preparazione professionale. Prevale nei giovani la smania di omologarsi più alla società mediatica che a quella reale, inseguendo profili culturali e figure professionali campati in aria o inflazionati. Prosegue nell’impostazione scolastica lo storico privilegio assegnato all’indirizzo classico: la cultura viene di lì, siamo d’accordo, però fin dalla più tenera età bisogna sapere che cultura non vuol dire solo erudizione, ma anche modo di porsi di fronte alla realtà e quindi coniugare la formazione umanistica con il respiro tecnico-scientifico che prepara e alimenta gran parte degli sbocchi professionali.

«Non abbiamo bisogno solo di computer, ma di braccia. Ci mancano periti industriali, siamo in strutturale difetto di offerta», così afferma l’amministratore delegato di Philip Morris Italia, che ha appena investito mezzo miliardo per costruire una nuova fabbrica a Crespellano in quel di Bologna.

Gli industriali di questa zona prendono dolorosamente atto che dagli istituti tecnici bolognesi escono 280 diplomati l’anno, mentre le aziende del territorio ne cercano almeno 1.500: un dato sconvolgente a fronte del quale bisogna riflettere seriamente, perché se la crisi economica comporta disoccupazione giovanile, forse alla disoccupazione contribuiscono anche scelte sbagliate di altro livello.

Ho letto in questi giorni il parere del preside di un importante istituto tecnico e l’accorato appello della responsabile risorse umane di un importante azienda che sta crescendo, facendo investimenti, cerca personale tecnico e non lo trova.

Emergono alcuni interessanti rilievi critici. Innanzitutto viene stigmatizzata la spinta alla liceizzazione dell’istruzione superiore, l’indebolimento degli istituti professionali e dei programmi degli istituti tecnici, il non puntare sull’istruzione tecnica con più ore di laboratorio, più inglese, più informatica e più matematica. Il discorso dell’alternanza scuola-lavoro può essere di aiuto, ma solo se a monte riacquista piena e crescente dignità la scuola tecnico-professionale.

Conseguentemente non funziona a dovere l’orientamento scolastico e la programmazione si adagia sulle richieste delle famiglie, invece di insistere confortando le scelte e rendendole consapevoli, offrendo percorsi formativi forti a fronte di importanti domande di lavoro. Si rincorre invece un mondo virtuale di cui si rischia di rimanere prigionieri per tutta la vita.

Poi rimane ancora una differenza abissale tra quello che i ragazzi studiano e quello che serve alle aziende, per cui la formazione si trasferisce in azienda con investimenti sui giovani che vengono inseriti.

Non penso si debba programmare il futuro dei propri figli prendendo per oro colato le tabelle occupazionali dell’industria e dei servizi, ma nemmeno aprendo e leggendo il libro dei sogni.

Mi viene spontaneo rispolverare la concretezza ed il buon senso con cui mi orientarono i miei genitori. Ascoltarono con deferenza il consiglio degli insegnanti, ma seppero tenere conto, oltre che delle mie propensioni, anche delle loro limitate disponibilità economiche e della valenza professionale della scelta. A volte un sacrificio ed un ripiegamento   possono tarpare le ali, più spesso imprimono concretezza e possibilità di lavoro. La scuola è un fondamentale preludio, ma se l’opera rischia di fermarsi al pur entusiasmante preludio, non si va avanti.

Le pataccate anti-terroriste

Ho da sempre pensato che le forze di polizia sappiano tutto di tutti: argomento inquietante sul piano del rispetto delle libertà democratiche e della privacy. Si spererebbe che almeno questa schedatura servisse per la lotta alla delinquenza, per la difesa dell’ordine pubblico e, volendo dirla con un’espressione molto in voga, per garantire la sicurezza.

Nutro seri dubbi sulla capacità di utilizzare questi dati. Se mi sbagliassi, avremmo infatti ottenuto risultati apprezzabili nella lotta alla mafia, allo sfruttamento della prostituzione, allo spaccio di stupefacenti. Invece brancoliamo nel buio o tolleriamo il buio (ipotesi piuttosto plausibile) per paura, inerzia, omertà, inettitudine, debolezza.

Il discorso torna di grande e drammatica attualità in materia di terrorismo islamico. Dopo ogni attentato eseguito nei Paesi Europei, ultimo in ordine di tempo quello ai Campi Elisi alla vigilia delle elezioni presidenziali francesi, si viene a sapere che gli esecutori materiali e i loro complici erano da tempo inseriti negli elenchi elaborati dall’intelligence e quindi a disposizione delle forze di polizia. Si tratta cioè di soggetti   attenzionati in quanto radicalizzati a livello dell’islamismo più feroce e combattente, propagandisti della guerra   contro l’occidente, in poche parole potenziali terroristi. E allora?

I casi possono essere tanti. Forse i nominativi sono troppi e non si possono controllare tutti. Si tratta probabilmente di migliaia di persone uscite da una generalizzata scrematura: seguirli tutti significherebbe impiegare mezzi e risorse esagerate. La cautela oltretutto impone di non fare di ogni erba un fascio. Magari in questi elenchi ci sono soggetti che col terrorismo c’entrano come i cavoli a merenda.

Posso essere malizioso? Non vorrei fossero elenchi pletorici in cui c’è dentro di tutto e quindi oggettivamente inutilizzabili. Se è così, a cosa servono? Si finisce col sopportare gente che va dentro e fuori dalla galera, che frequenta moschee a destra e manca, che viaggia indisturbata, che ha tutto il tempo per organizzarsi ed attrezzarsi.

Può darsi che in molti casi queste segnalazioni abbiano funzionato e siano servite direttamente o indirettamente a parare colpi terroristici, a sventare attentati: mi auguro sia così, perché diversamente si tratterebbe veramente di schedature-patacca.

Quando si parla di lotta al terrorismo giustamente si va a finire proprio lì. Se da una parte si ritiene che non sia possibile scatenare una guerra (è quanto vorrebbero i terroristi), instaurare regimi polizieschi ed antidemocratici (sarebbe dargliela vinta), bloccare i flussi migratori (gli immigrati non sono certo tutti terroristi e poi i muri oltre che essere eticamente spaventosi, sono concretamente inutili, servono solo a dare fumo negli occhi), dall’altra parte si punta all’aiuto verso gli Stati da cui provengono i disperati, ad una politica seria di integrazione degli immigrati e ad una azione di intelligence che prevenga e combatta il terrorismo serpeggiante nelle nostre società. Non c’ alternativa!

Poi si scopre che i servizi dei vari Paesi non collaborano   fra di loro, che vengono commesse strane ingenuità, che si conoscevano nomi e cognomi. So benissimo che si lavora nel difficile. Tuttavia forse sarà il caso di darsi una mossa invece di piangere sul latte versato o di pretendere di eliminare il latte. Questi comportamenti “leggeri” finiscono col portare acqua al mulino dei razzisti, dei populisti, dei nazionalisti, pronti a cavalcare la paura e ad illudere di avere in mano le ricette giuste, che non esistono.

Termino questa riflessione col veleno nella coda: come mai siamo così spietati ed efficienti quando si tratta di colpire i no-global (ogni riferimento alle “macellerie genovesi” è puramente casuale) e siamo così titubanti e disorganizzati contro i potenziali terroristi?

La Rai non è un r(a)ing

Una delle contestazioni principali che vengono fatte a Erdogan, tese a dimostrare il graduale passaggio da democrazia a regime autoritario della Turchia, è quella di mettere il bavaglio alla stampa arrivando persino ad arrestare i giornalisti ostili al suo corso. In effetti la libertà di stampa è un dato costitutivo e qualificante della democrazia.

Di conseguenza non è accettabile alcuna censura preventiva o successiva anche sulle trasmissioni televisive che ospitano inchieste su argomenti eticamente delicati e socialmente rilevanti come la vaccinazione contro il papilloma virus.

Se il discorso riguarda il servizio pubblico televisivo, si fa ancora più pesante: servizio pubblico non vuol dire mandare in onda trasmissioni funzionali al sistema, che non ne denuncino cioè le incongruenze e le ingiustizie, ma mettere, senza reticenze e timori reverenziali, a disposizione dell’utente il maggior quantitativo possibile di elementi di giudizio su argomenti e problemi di interesse pubblico.

Restando al discorso della vaccinazione, un inchiesta televisiva non deve essere un mero spot a favore, ma nemmeno una faziosa e vorticosa contestazione. La Rai dovrebbe pretendere dai suoi giornalisti un atteggiamento obiettivo ed equilibrato, che rifugga da tentazioni   meramente scandalistiche da lasciare semmai all’iniziativa delle televisioni private.

Le libertà sono un bene irrinunciabile, ma “inabusabile”. Qualcuno tende ad approfittare salvo gridare allo scandalo e alla censura se una qualsivoglia autorità si permette di contestare il rispetto dei principi di obiettività e correttezza. Non vedo niente di grave se a livello parlamentare ci si chiede se una clamorosa inchiesta targata Rai sia una cosa seria o una gag teatrale. Non giudico una intromissione partitica il sacrosanto diritto di chiedere conto agli amministratori della Rai di cosa va in onda su problematiche fondamentali per la vita dei cittadini, non mi sorprendo se un amministratore Rai chiede conto di ciò al direttore generale e non mi stupisco se il direttore generale pretende spiegazioni dal direttore di rete e dal responsabile del programma per poi eventualmente adottare decisioni adeguate alla situazione.

Sui vaccini non si possono fare polemica fine a se stessa, informazione settaria, mera provocazione. Il problema è troppo importante per essere sbrigativamente liquidato con la registrazione unilaterale di gravi conseguenze indesiderate del vaccino, che hanno tutto il diritto di essere espresse e testimoniate, ma non possono essere l’unica voce che fa testo e orienta la pubblica opinione inoculandole dubbi e perplessità. Con tutto il rispetto per le capacità professionali e la verve giornalistica di Sigfrido Ranucci, attuale conduttore di Report, la trasmissione entrata nell’occhio del ciclone, sul discorso vaccini vorrei sentire anche il parere delle autorità scientifiche, di quelle sanitarie e di quelle politiche, possibilmente in modo contestuale e non en passant rispetto alle informazioni critiche ed alla messa in discussione dell’utilità dei vaccini.   Mi è dovuto come cittadino e Ranucci non può cavarsela, magari dicendo di avere invitato le Istituzioni, Ministero della Salute e Istituto superiore di sanità, che non hanno raccolto tale sollecitazione.

Sarebbe un errore far chiudere i battenti a una trasmissione rea di essere andata oltre il seminato dell’obiettività e della completezza informativa: potrebbe diventare addirittura lo sfogo per altri regolamenti di conti tra politica e televisione pubblica, un avvertimento per evitare critiche al sistema. Chi di dovere vigili attentamente: vigilare non vuol dire intromettersi né prevaricare. Chi ha la responsabilità di gestire l’informazione Rai esamini la situazione e, se del caso, corregga il tiro, prendendo le più opportune misure in linea con la libertà di stampa, con l’etica professionale e con il diritto dei cittadini ad essere informati correttamente, senza peli sulla lingua ma anche senza pelo sullo stomaco.

I giornalisti devono fare un bagno di orgoglio per quanto concerne le libertà costituzionali inerenti il loro mestiere, ma anche un bagno di umiltà per come utilizzano queste libertà a sevizio degli utenti. La Rai non è una qualsiasi emittente televisiva, è un servizio pubblico e chi ci lavora dentro deve saperlo e comportarsi di conseguenza, altrimenti può cambiare mestiere o emittente. Non saranno padri eterni i politici, ma non lo sono certamente nemmeno i giornalisti Rai e i loro strumentali difensori d’ufficio. La Rai non diventi l’interposta persona tramite la quale si scatena l’ira critica verso il sistema o la pregiudiziale difesa del sistema stesso.

In questi giorni, parlando di altre cose, mi è venuto spontaneo definire il “senso politico” come la capacità di prevedere le conseguenze pubbliche dei propri pronunciamenti istituzionali e professionali e financo dei propri comportamenti privati. Quando si dice fuori la politica dalla Rai, si dice una solenne minchiata. La Rai è politica, quella vera, quella a servizio dei cittadini e non ad uso dei partiti, dei dirigenti e dei giornalisti. Quando si ipotizzano formule neutre e tecnocratiche di gestione Rai, resto molto perplesso. Tutto sommato preferisco che a sovrintendere siano le Istituzioni col rischio della partitizzazione, piuttosto che lasciare il tutto nelle mani dei cosiddetti esperti   col rischio della giubilazione.

La contestualizzazione dei vaffa

È in atto un’escalation, quantitativa e qualitativa, di attenzione mediatica nei confronti del Movimento Cinque Stelle e del suo leader Beppe Grillo. Questo atteggiamento va ormai ben oltre la normale cronaca politica o la dietrologia editorialistica: non capisco tuttavia fino a che punto si tratti della solita opportunistica preparazione a salire sul carro del possibile vincitore e fin dove si vogliano snidare i grillini dallo splendido e velleitario isolamento in cui lucrano la generica rendita protestataria dell’antisistema, dell’antipolitica, dell’antiestablishment, dell’anti tutto insomma.

Sta avvenendo un cambio di passo giornalistico nella critica al M5S: dalla contestazione delle evidenti contraddizioni nella condotta istituzionale all’analisi dei massimi sistemi della (non) proposta politica. Anche Grillo, aiutato dalla fantasia di Casaleggio junior e da quel poco o tanto di intellighenzia mobilitata, sta uscendo abilmente e frettolosamente dall’ostentata ritrosia per buttarsi nel dialogo intellettualoide, seppure attestandosi sulla furbesca non-strategia che gli consente di dire e fare tutto e il contrario di tutto, tentando di capovolgere il percorso tradizionale   della richiesta del consenso (non più   dai partiti alla gente via voto, ma dalla gente ai movimenti via web).

La mega-intervista rilasciata ad Avvenire, il quotidiano cattolico per eccellenza, accompagnata da un abile e intrigante profilo del personaggio, con tanto di immediata eco sul Corriere della sera (intervista sull’intervista a Marco Tarquinio direttore di Avvenire), conferma in modo emblematico la tendenza di cui sopra. Consideriamo inoltre il pulpito da cui viene la predica. Sì, perché l’omelia in questo caso non l’ha fatta Grillo, che ha (s)parlato bene, ma il quotidiano dei vescovi: stia molto attento perché le strumentalizzazione dei preti rischiano di tornargli indietro con gli interessi anatocistici.

Trattandosi di un’autorevole voce della Chiesa cattolica italiana, che si muove in modo felpato, ma non a vanvera o per puro caso, considerato che l’atteggiamento risultante è quello di una seppur parziale apertura di credito verso i grillini, viene spontanea una domanda: siamo alla solita e “simoniaca” ricerca di un futuro ombrello protettivo, siamo ad una studiata trappola coinvolgente e devitalizzante o siamo nel campo di un mero e provocatorio confronto a trecentosessanta gradi sui temi che più stanno a cuore alla gerarchia cattolica (povertà-reddito di cittadinanza; primato del sacro-apertura festiva dei supermarket; pace-neutralismo tra est e ovest; equità-potere finanziario; giustizia-globalizzazione; difesa della vita-testamento biologico; immigrazione-trattamento dei clandestini; Europa dei popoli-Europa delle banche).

Ne esce una radiografia da cui si cerca a tutti i costi di ricavare un interessante stato di salute del M5S, partendo magari da questioni marginali ma socialmente e religiosamente (?) sensibili (il lavoro domenicale) per staccargli un prematuro ed affrettato certificato di buone intenzioni. Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, pur non tacendo alcune significative incongruenze politiche, arriva ad affermare che il M5S è un interlocutore del mondo cattolico. E fin qui niente di straordinario, trattasi di un dato oggettivo. Ma aggiunge: «Se guardiamo ai grandi temi (dal lavoro alla lotta alla povertà), nei tre quarti dei casi abbiamo la stessa sensibilità». E allora il discorso si fa piuttosto ammiccante e compromettente.

Potrebbe trattarsi della solita manovra scambista e politicamente scorretta: se con Berlusconi si era arrivati alla contestualizzazione delle bestemmie, con Grillo si può ben parlare di contestualizzazione dei “vaffanculo”.

Se la Chiesa vuole giudicare seriamente le forze politiche, deve avere il coraggio di analizzarne approfonditamente le proposte di metodo e di merito, anche se non sarebbe suo compito in una visione laica della politica. Se invece vuol far pesare la sua forza di orientamento elettorale, chiarendo fin dall’inizio che chi vuol governare deve fare i conti con lei, rischia un pericoloso tuffo nel passato remoto e recente.

A Beppe Grillo interessa solo catturare l’attenzione dei delusi della politica: siccome questo senso di sfiducia è certamente molto forte nei cattolici e dal momento che la Chiesa sta recuperando una certa influenza sulla mentalità della gente, la scalata al governo val bene un’intervista pelosa ad Avvenire con tutto quel che ne può seguire. Ma stia attento perché la danza non la condurrà lui e inoltre potrebbe trattarsi della prima vera buccia di banana.

I diversamente democratici

Si tratta di un problema vecchio come il cucco: come ci si deve porre nei confronti di un Paese a regime autoritario, dittatoriale o comunque che non rispetti i canoni fondamentali della democrazia, almeno quelli ritenuti basilari nella nostra concezione.

Si deve puntare al suo isolamento oppure si devono tenere rapporti di dialogo; è meglio rompere ogni e qualsiasi legame o è più giusto, almeno opportuno, mantenere i collegamenti.

Il problema si ripropone, per la verità da parecchio tempo, per quanto concerne i rapporti dell’Unione Europea con la Turchia.   Questo Paese da una parte si è candidato all’ingresso nella Ue, dall’altra ha imboccato una deriva autoritaria sempre più netta e marcata, di cui il recente referendum – tra l’altro celebrato sul filo del rasoio del rispetto della correttezza elettorale e con il preludio di scaramucce diplomatiche con alcuni Paesi europei – segna un ultimo e deciso, se non decisivo, passo.

Credo che i canoni a cui richiamarsi possano essere sostanzialmente due: coerenza e dialogo senza cedimenti. Sul piano della coerenza non ci siamo proprio. Non si può un giorno prendere “ideologicamente” le distanze ed il giorno dopo stringere “opportunisticamente” alleanze, non è corretto e leale distinguere il piano politico da quello economico e militare.

Con la Turchia esistono paradossalmente tre livelli di rapporti: l’adesione alla Ue viene tenuta in frigo e non si ha il coraggio di dichiarare apertamente che, stante la palese e patente violazione dei principi democratici, essa è improcedibile. Si preferisce tenere la Turchia sulla corda: una bacchettata di qua, una carezza di là. Questo atteggiamento piuttosto debole della Ue è dovuto forse anche al fatto che all’interno dell’Unione esistono Paesi che non sono certo stinchi di santo in materia di principi democratici e che minano dall’interno la credibilità europea: l’Ungheria e, per certi versi anche la Polonia, non sono in ordine riguardo ai principi democratici. Nemmeno l’Europa occidentale è esente da tentazioni populiste ed antieuropeiste, per ora solo a livello di intenzioni ellettoralistiche, ma in futuro…

Poi c’è il discorso delle alleanze militari: la Turchia è membro della Nato, anche se flirta a corrente alternata con la Russia e, nei rapporti con il mondo medio-orientale, adotta strane, sguscianti e zigzaganti tattiche.

Viene di seguito il problema dell’immigrazione: ebbene, l’Europa ha stipulato “pragmatici” patti con la Turchia considerandola un’essenziale barriera (non importa con quali metodi) al flusso dei disperati in fuga dalla guerra, dalla fame, dalla tortura. Così facendo ci si è esposti al ricatto turco che affiora continuamente. Fior di miliardi di euro a condizione che da quel fronte non arrivino migliaia di migranti. Il prezzo oltre tutto potrebbe anche aumentare.

Senza considerare i soliti interessi economici di fronte ai quali si piega ogni e qualsiasi intransigenza a livello di principi. A chi fa affari con la Turchia interessano poco le minoranze curde, il pluralismo, la libertà di stampa, la separazione dei poteri, il rispetto della libertà di voto, etc. Si è disposti a chiudere un occhio, forse anche due, pur di concretizzare commesse di lavoro e interessi commerciali. D’altra parte i recenti colloqui tra Donald Trump e il leader cinese hanno dato una clamorosa dimostrazione (se ce n’era ancora bisogno) che i diritti degli uomini vengono ben dopo gli interessi commerciali.

La coerenza si va a far benedire, la credibilità della critica ne soffre vistosamente, il dialogo procede tra impuntature teoriche e cedimenti pratici, assai lontano da lealtà e chiarezza. Aggiungiamoci pure un quadro internazionale estremamente intricato, delicato, complesso e in continuo cambiamento: la Turchia in questo contesto è un elemento di ulteriore grave incertezza. Erdogan gioca su parecchi tavoli con carte più o meno truccate: prima o dopo pagherà il conto, ma intanto crea solo confusione.

Di fronte a questi scenari la politica perde spessore, si ha la sensazione che tutto si giochi a prescindere da essa e dalla democrazia sottostante o sovrastante ad essa. Con gli Usa nelle mani di un antipolitico, con la Russia e la Cina politicamente capaci di tutto, solo l’Europa, pur con tutte le sue debolezze e contraddizioni, può tenere accesa la luce della politica e della democrazia. Responsabilità enorme!

 

Europa tra elogi e rimproveri

«L’Italia oggi è ammirata da tutta l’Europa, salvo che dagli italiani. Non siete abbastanza fieri del vostro Paese. Gli italiani danno sempre l’impressione di essere frustrati, quando in realtà sono dei campioni. (…) L’Italia meriterebbe il Nobel per la pace in considerazione di quello che fa per salvare vite umane nel Mediterraneo». Sono due passaggi di una recente intervista rilasciata dal presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker.

Il forte senso autocritico a livello individuale e collettivo evita certamente di cadere nella presunzione di superiorità molto pericolosa e che a livello nazionale può essere foriera di autentici disastri nei rapporti con gli altri Paesi. La storia passata e presente ce lo insegnano. Al riguardo preferisco l’esagerata e ingiustificata frustrazione italiana all’aria di   sufficienza che pervade l’atteggiamento tedesco e del Nord-Europa.

L’eccesso di auto-disistima anziché funzionare da stimolo al miglioramento può però rappresentare un freno all’impegno ed alla partecipazione e comportare il rischio di crogiolarsi e paralizzarsi nei propri difetti.

Non è comunque il caso di psicanalizzare gli italiani, ma di cercare i punti critici delle nostre difficoltà oggettive che non sono generalizzabili in un gap totale rispetto al resto dell’Europa, ma individuabili in alcune questioni peraltro tra loro strettamente collegate: l’inefficienza della macchina burocratica pubblica, l’evasione fiscale, il fenomeno della corruzione, il divario nord-sud. Il pesante filo causa-effetto di collegamento è il debito pubblico, che zavorra la nostra navigazione.

Nonostante i reiterati tentativi di semplificazione e di modernizzazione, l’apparato burocratico rimane pesante, frenante e condizionante, esposto, nella sua macchinosità e impenetrabilità, al vento della corruzione, farraginosa copertura e comodo alibi per tutti i fenomeni di evasione fiscale e contributiva. Il sostegno al meridione non ottiene risultati apprezzabili anche per effetto della piovra mafiosa che divora gli investimenti e assorbe le spinte imprenditoriali. Tutto si ripercuote sul debito pubblico.

Dice ancora il presidente della Commissione Europea: «Mi rattrista vedere che l’Italia perde competitività di giorno in giorno, di anno in anno. Ci sono riforme strutturali importanti che vanno fatte, sia pure con saggezza. L’Italia deve ritrovare un tasso di crescita che oggi è troppo debole. L’Europa le ha dato spazi che occorre saper sfruttare. La flessibilità ha permesso al Paese un margine di manovra senza che la mannaia del patto di stabilità gli cadesse sul collo. I bassi tassi praticati dalla Bce offrono una tregua di cui deve saper approfittare. Abbiamo apprezzato la riforma del mercato del lavoro. Osservo con simpatia la serietà e gli sforzi con cui il governo Gentiloni affronta la crisi delle banche. Noi vogliamo che il sistema bancario italiano esca più forte e robusto da questa fase difficile. Vedo gli sforzi per correggere i conti pubblici. Se prende le iniziative giuste, l’Italia ha tutti gli strumenti per diventare una forza motrice dell’Europa».

Quando Juncker ci chiede riforme strutturali credo faccia riferimento alle piaghe di cui sopra. Nelle sue parole non vedo acredine. Dopo gli aperti elogi, arrivano i sommessi rimproveri. Impariamo ad ascoltare ed a fare tesoro degli uni e degli altri. Impariamo a stare in Europea, senza architettare impossibili e assurde vie di fuga, senza vittimismi e senza velleitarismi, senza furbizie e senza debolezze, con grande dignità e impegno.

Liturgia o parodia

Qualcuno sostiene che, paradossalmente, coloro che deprecano papa Francesco lo danneggiano quanto coloro che lo esaltano acriticamente. Non faccio parte sicuramente della prima categoria, ma non voglio nemmeno rientrare nella seconda, cioè di quanti personalizzano la riforma della Chiesa, attendendola miracolisticamente e improvvisamente in tutto e per tutto dal Papa, pensando che possa smuovere le montagne della conservazione senza il coinvolgimento metodico di vescovi, sacerdoti, religiosi e laici.

Tuttavia in questi giorni mi viene spontaneo rivolgergli una critica, evidenziare una contraddizione. Ho assistito televisivamente alle liturgie pasquali, che si sono svolte a Roma in San Pietro, dalla messa Crismale, alla celebrazione della Passione, alla Veglia, alla Messa nella Risurrezione.

Il sacro triduo pasquale si è però aperto il Giovedì Santo con la Messa in Coena Domini, celebrata dal Papa tra i detenuti del carcere laziale di Palliano, in provincia di Frosinone, durante la quale Francesco ha lavato i piedi a dodici reclusi, tra cui tre donne, due ergastolani e un musulmano, rivolgendo ai carcerati parole toccanti in un clima affettuoso e famigliare. Giustamente le telecamere non sono state ammesse proprio per non rovinare l’atmosfera ed anche l’omelia non si è potuta mediaticamente ascoltare e nemmeno la si è letta nel testo integrale ma la si è intuita dalle sintesi riportate piuttosto sbrigativamente dai giornali. Sono trapelate, tuttavia e indirettamente, l’intensità e l’autenticità di quella liturgia, calata nella realtà di una casa di pena: il dramma di Cristo inserito pienamente nel dramma umano. La lavanda dei piedi è stata pienamente riscattata dal folclore rituale per diventare segno efficace di comunione con chi soffre realmente.

Questa esperienza di “carnale” partecipazione liturgica è rimasta però un lieve e isolato preludio, una mera parentesi tra i riti celebrati in Vaticano, in S. Pietro, con tutta la loro pesante e ingessante spettacolarizzazione. Tornati precipitosamente e aristocraticamente in basilica, si ha la sensazione di assistere ad assurde messe in scena degne del miglior Franco Zeffirelli: tutto accuratamente predisposto, perfettamente eseguito, professionalmente interpretato, cerimoniosamente (non) vissuto.

Persino l’impareggiabile e densa sciorinata del predicatore pontificio assume i toni della “sviolinata” al sovrano attento e compiaciuto. Anche la Via Crucis al Colosseo finisce col soffrire questa impostazione, austera sì, ma fiacca nei gesti, bella, stimolante ma intellettualoide nei testi.

Dove voglio arrivare? Eccomi! Ho l’ardire di rivolgermi provocatoriamente al Papa: «A quando una ventata di aria fresca anche in questo campo? A quando il licenziamento dell’insopportabile ed impettito maestro di cerimonie, protagonista instancabile di un marcamento papale a uomo? A quando un uso più contenuto della musica sacra che tanto vale e piace? Sembra di assistere ad un concerto di musica sacra inframmezzato da qualche azione teatrale o viceversa.   L’arte e la musica dovrebbero essere al servizio della liturgia e non il contrario. A quando una scenografia più sobria ed essenziale? A quando un minimo di partecipazione del popolo di Dio? Si va ad assistere ad uno spettacolo o si partecipa ad un evento salvifico? Le parole delle omelie papali, sempre così palpitanti, rischiano di perdersi nell’atmosfera artificiosa e rarefatta in cui il pontefice ritorna ad essere un “re” (cattedra di un padre ascoltato dai figli o trono di un re ossequiato dai sudditi?) attorno a cui si svolge una mastodontica parata. Parata o parodia?».

Non insisto. Ho avuto però l’impressione che la “liturgia carceraria” sia stata sommersa e sciolta dalla “liturgia teatrale”. Credo che l’Eucaristia fosse molto più a suo agio, molto più libera, bella e sanguigna in carcere, tra gli ultimi che saranno i primi, che non in basilica, imprigionata nei riti anemici, asettici e pomposi, tra i primi che saranno gli ultimi.

Pasqua di coraggio

Il sentimento popolare e individuale che caratterizza la presente fase storica è la paura. Le nostre scelte di vita rischiano di esserne condizionate a tutti i livelli ed in tutti i sensi. Abbiamo una tremenda paura di non trovare o perdere il lavoro e, prima ancora, di cadere in povertà (a volte si tratta solo di timore per un minore ricchezza): la crisi economica ci allarma, molto probabilmente ci rendiamo conto che non riusciremo più a tornare al benessere di qualche tempo fa, che dovremo, poco o tanto, tirare la cinghia e tutto ciò ci preoccupa e ci inquieta.

Alla paura economica però aggiungiamo quella sociale: abbiamo cioè, per dirla brutalmente, paura degli altri. Un tempo cercavamo nelle altre persone gli interlocutori a livello culturale, i sodali a livello sindacale, i compagni a livello politico. Oggi ci sentiamo drammaticamente soli, ci chiudiamo in difesa, negli altri vediamo solo pericolosi contendenti: questi atteggiamenti trovano la loro egoistica esplosione soprattutto nei confronti dei migranti, percepiti come usurpatori del nostro quieto vivere.

Abbiamo paura della violenza, della delinquenza, del terrorismo. Ci sentiamo insicuri, precari, deboli e soli. Pensiamo di difenderci con i muri, con le armi, con le condanne, con le carceri. Più ci preoccupiamo, più ci isoliamo, più ci chiudiamo in noi stessi e più restiamo attanagliati e paralizzati dalle nostre paure.

A ben pensarci anche i discepoli e gli apostoli di Gesù, di fronte alla “brutta piega” che stava prendendo la vita del Maestro e quindi anche la loro storia, furono presi e dominati dalla paura, dalle paure di cui sopra. Delusi da uno strano Messia che non li rassicurava affatto nei loro problemi, che non dava alcuna prospettiva interessante alle loro ansie di riscatto politico, economico e sociale. Spaventati dal clima conflittuale che si era scatenato intorno a loro, dalla contestazione che stava montando verso il loro capo, dall’estrema incertezza sul loro futuro. Terrorizzati dall’attacco forsennato e violento contro la loro piccola comunità che stava implodendo nel tradimento e nel rinnegamento. Rimasero totalmente spiazzati dagli avvenimenti, scapparono, si chiusero in casa: la paura li aveva sconvolti.

Solo alcune donne ebbero il coraggio di non fuggire, volevano vedere, capire, soffrire assieme al loro leader che le aveva emancipate: gli dovevano un minimo di riconoscenza. Vinsero la paura con la condivisione, fino in fondo, fin sotto la croce, fin verso la tomba. Rischiavano grosso. Pensiamo a Veronica, un personaggio assai plausibile anche se non documentato nei vangeli: si accosta a Gesù che sta salendo al Calvario, piange, lo guarda con dolcezza, gli deterge il viso, la scostano brutalmente, ma lei sa solidarizzare, anche solo con un gesto di pietà verso questo uomo distrutto dalla umiliazione e dalla sofferenza. Furono le prime a rendersi conto della Risurrezione e non furono credute. Non ebbero paura della paura. E noi continuiamo a non credere alle donne e a torturarle…

Mi piace interpretare la Pasqua come la sconfitta della paura, la vittoria del coraggio che si esprime nella solidarietà verso gli altri, nel servizio, nel dono.

O, credenti e non credenti, sapremo recuperare questo senso della vita o rimarremo prigionieri della paura, vittime dei nostri limiti, in balia degli illusionisti.

Auguro quindi una Pasqua di coraggio per vincere le paure, tutte riconducibili, stringi-stringi, a una, quella di morire.