Chi di realpolitik ferisce di realpolitik perisce

La Libia orientale controllata dal generale Khalifa Haftar è il teatro di un acceso scontro diplomatico con l’Italia e l’Europa, dopo che il governo di Bengasi ha respinto una delegazione di ministri europei al loro arrivo in città, tra i quali anche il titolare dell’Interno Matteo Piantedosi.

(…)

La vicenda rischia ora di compromettere la strategia Ue volta a coinvolgere entrambe le autorità libiche in una gestione concertata dei flussi migratori. Bruxelles valuta l’invio di un emissario tecnico a Bengasi o la convocazione di un incontro in sede neutrale per superare lo stallo. Nel frattempo, il caso ha fatto esplodere le polemiche politiche in Italia, con l’opposizione ad alimentarne il fuoco nonostante fonti qualificate abbiano sottolineato ripetutamente che la vicenda “non ha mai riguardato la componente italiana della delegazione, men che mai i rapporti bilaterali con l’Italia”. Il leader di Iv Matteo Renzi e il Pd parlano di “figuraccia internazionale” mentre Angelo Bonelli di Avs ha attaccato Tajani: “Ha ragione, è proprio ‘sfigato'”, ha affermato, aggiungendo che “questa volta Piantedosi è stato vittima della legge del contrappasso”. Più Europa e i Cinque Stelle citano poi il caso Almasri: “Mentre noi riaccompagniamo in patria con un volo di Stato un trafficante di esseri umani e stupratore inseguito dalla Cpi, il nostro ministro Piantedosi viene respinto”, è l’affondo pentastellato, che parla di “totale disfatta del governo Meloni”. (ANSA.it)

Al momento non sono chiari i contorni diplomatici di questa imbarazzante vicenda: difficile che si tratti di mere questioni burocratiche, probabile che dietro ci siano incomprensioni politiche tra uno strano e monco governo, quello libico, e un’accozzaglia di governi, quelli europei. La missione doveva essere il tentativo per una gestione concertata dei flussi migratori, una sorta di ulteriore passo nella strategia dei lager.

Come non mettere in connessione questo triviale sgarbo diplomatico con la sottile cortesia usata dal governo italiano in occasione della emblematica vicenda Almasri?

Il governo italiano potrebbe discolparsi in due modi. “A fär dal bén aj äzon  as résta fotú…”, sarebbe l’amara constatazione dei limiti di una politica estera e migratoria a dir poco approssimative. “La diplomasìa l’è un méz magnär”, sarebbe la testarda convinzione di essere nel giusto pur di portare a casa qualche risultato assieme a brutte figure.

Lasciamo stare le colpe occidentali nella ricerca bellicosa di assurdi e paradossali equilibri libici: chi semina guerra raccoglie potenziali ulteriori guerre.

Ma il discorso è ancor più profondo e delicato dal punto di vista etico: riguarda l’impostazione della politica migratoria in combutta con Paesi che fanno affari brutali sulla pelle dei migranti. Come non ricordare la coraggiosa presa di posizione di papa Francesco nel 2022.

«Se c’è Minniti, allora non vado io». Dopo tre mesi si scopre il motivo per cui papa Francesco, oltre alla «gonalgia acuta» al ginocchio che già lo tormentava, ha deciso di non partecipare all’incontro finale fra vescovi e sindaci del Mediterraneo, che si è svolto a Firenze domenica 27 febbraio: la presenza dell’ex ministro degli Interni Marco Minniti, definito da Bergoglio senza mezzi termini «criminale di guerra» – visto il suo attuale impegno come presidente della Fondazione “Med-Or”, creatura di Leonardo spa, la principale azienda armiera italiana – nonché “padre” degli accordi fra Italia e Libia che consentono di respingere i migranti nei «campi di concentramento» allestiti nel Paese nordafricano. (da “Il Manifesto”).

Allora mi vengono spontanee alcune “domandine difficilottine”: saprà ancora la Chiesa del dopo Francesco essere così netta nelle sue posizioni umanitarie? Saprà il governo italiano smetterla di bluffare (vedi vicenda tragicomica albanese) in materia migratoria spacciando i lager per intransigenza verso gli scafisti? Saprà la sinistra andare oltre le pur sacrosante polemiche per proporre una linea programmatica alternativa e concreta per l’accoglienza e l’integrazione dei migranti a livello nazionale ed europeo?

 

Clienti della macelleria israelo-statunitense

Lo scambio di carinerie fra Trump e Netanyahu suona come un’autentica e colossale presa in giro per tutta l’umanità. Si va dall’eroismo di Bibì al Nobel per la pace per Bibhoibò!

Si dirà che questi stanno scherzando. Non sono mai stati così seri! D’altra parte almeno hanno il pregio di esporsi direttamente al pubblico ludibrio. Forse è peggio continuare a chiedere la fine del massacro di Gaza senza muovere un dito per ottenerla; forse è peggio continuare a lanciare dichiarazioni di amicizia verso gli Usa di Trump sapendo di mentire spudoratamente (Trump ha detto che sono tutti in fila per baciargli il culo e lui come risposta ci prende tutti per il culo).

Trump ha fatto un assist cruciale al premier israeliano, dando disco verde ai raid Usa sugli impianti nucleari iraniani durante la ‘guerra dei 12 giorni’ con Israele. Oltre a chiedere la fine del processo a Bibi per corruzione, una gigantesca interferenza negli affari interni di uno Stato sovrano. Ora quindi pensa di poter vantare un credito e che Netanyahu debba mettere fine alla guerra a Gaza, tassello indispensabile per la de-escalation in Medio Oriente, la riapertura dei negoziati con Teheran e l’estensione degli Accordi di Abramo. Per Bibi si tratta di un difficile equilibrio, tra le richieste del suo alleato americano e le minacce dei partiti di estrema destra della sua coalizione, che hanno in mano le chiavi della sua sopravvivenza politica e che si oppongono alla fine della guerra finché Hamas non sarà eliminato completamente. (ANSA.it)

Netanyahu non va oltre la dichiarazione di aver candidato il presidente americano Donald Trump al Nobel per la pace. Durante la cena dei due leader in corso alla Casa Bianca, Netanyahu ha consegnato a Trump una lettera da lui inviata al comitato per il premio.

Stanno giocando sulla pelle dei palestinesi: a Trump serve una tregua da sbandierare e la chiede a Netanyahu in contraccambio rispetto all’intervento americano in Iran; a Netanyahu serve l’appoggio americano anche se non può spingersi molto avanti nei rapporti con Hamas, condizionato com’è dall’intransigenza della potente casta religiosa che lo sostiene. Stanno lavorando a sgombrare il campo ipotizzando incredibili migrazioni palestinesi verso i Paesi arabi. Due popoli due Stati? No, un popolo uno Stato e una pulizia etnica. E l’Europa sta a guardare…

La luna di fiele

Elon Musk entra a gamba tesa nella politica americana. Quando ormai il suo ruolo di First Buddy appare un ricordo lontano considerati gli scontri pubblici con Donald Trump, il miliardario annuncia – forte dell’esito del sondaggio lanciato online – la nascita di un terzo partito, l’America Party.

«Con un rapporto di 2 a 1, volete un nuovo partito politico e lo avrete. Quando si tratta di mandare in bancarotta il nostro Paese con sprechi e corruzione, viviamo in un sistema monopartitico, non in una democrazia. Oggi, l’America Party è nato per restituirvi la libertà», ha detto Musk su X. Il giorno dell’Indipendenza, il patron di Tesla ha lanciato un sondaggio online per chiedere agli americani se volessero “l’indipendenza” da un sistema a due partiti. Il 65% ha risposto sì, il 35% no.

La svolta del miliardario arriva dopo l’approvazione in Congresso del Big beautiful bill, il budget fortemente voluto da Donald Trump e altrettanto fortemente criticato da Musk. Firmando il provvedimento alla Casa Bianca, il presidente ne ha tessuto le lodi: è in grado di lanciare l’età dell’oro, ha detto soddisfatto circondato dai repubblicani del Congresso alla Casa Bianca.

Il miliardario però lo critica da tempo, e non ha mai nascosto la sua contrarietà a una misura a suo avviso in grado di far fare bancarotta agli Stati Uniti, spingendosi a minacciare tutti coloro in Congresso che hanno votato a favore.

«Perderete le elezioni, anche se fosse l’ultima cosa che farò», ha assicurato. Trump ha respinto seccamente le critiche: «È arrabbiato per i sussidi alle auto elettriche», ha ripetuto più volte arrivando a minacciare di deportarlo. I rapporti fra i due sono tesi da tempo, da quando Musk ha lasciato la Casa Bianca rompendo una bromance durata quasi un anno e che ha contribuito a suon di milioni di dollari a fare arrivare Trump alla Casa Bianca. A giugno, all’apice delle tensioni, Musk aveva già aleggiato la possibilità di fondare un nuovo partito che avesse veramente a cuore gli interessi degli americani. La sua rabbia però è montata nel corso delle settimane con il via libera del Senato e della Camera al Big beautiful bill, il budget di 940 pagine che contiene tutte le promesse elettorali del presidente, dal taglio delle tasse a nuovi fondi per combattere l’immigrazione. Sul provvedimento sono nati i primi attriti fra Trump e Musk. Poi è stato un crescendo che ha portato fino alla provocazione finale: la nascita di un nuovo partito che, nei sogni del miliardario, è in grado di attirare quei repubblicani e quei democratici frustrati e alla ricerca di qualcosa di nuovo che li protegga. (“Avvenire.it”)

Mio padre derideva sarcasticamente le ipotetiche fughe con l’amante, con i due che scappano e cominciano a litigare scendendo le scale: della serie la famiglia ed il matrimonio sono una cosa seria. Ebbene l’ironia paterna si può tranquillamente allargare alle passionali avventure in politica, che vanno in crisi non appena la spregiudicata unione di interessi vacilla: della serie la politica e gli accordi politici sono una cosa seria.

La luna di miele tra Donald Trump ed Elon Musk è durata poco: troppo forti le reciproche convenienze per reggere alla quotidianità dell’amministrazione statuale. Questo clamoroso litigio servirà a qualcosa, a risvegliare i cittadini americani dal sonno trumpiano, a scuotere le coscienze dal torpore finanziario, a riportare la politica nell’ambito suo proprio?

Elon Musk sta rilanciando, probabilmente sta bluffando, ma saranno in grado gli americani di andargli a vedere in mano e di buttare all’aria il tavolo su cui i potenti stanno giocando alle loro spalle?

Toccare il fondo psicologico di una sciagurata avventura politica riporterà in superficie i resti del naufragio che sta coinvolgendo tutto il mondo?

Silvio Berlusconi fondò Forza Italia e scese direttamente nell’agone politico per salvarsi dal baratro finanziario in cui stava precipitando il suo impero economico: qualche analogia con la scelta muskiana di fondare l’America party ce la vedo.

C’è di mezzo però Donald Trump: non ho idea quali ripercussioni sull’attuale presidenza statunitense possa avere questo divorzio all’italiana.

Si dice che gli esperti avessero messo sul chi vive Berlusconi dicendogli che le sue balle ideologiche sarebbero state nel poco posto di circa un semestre: ci volle un ventennio per venirne a capo, anzi non ne siamo ancora venuti a capo dopo oltre un trentennio. Se tanto mi dà tanto dovremo rassegnarci ad una lunghissima vicenda politica americana a prova dei Musk, dei Putin e dei Netanyahu. “Ed altri ancor ne sorgono…” (dal Macbeth di Giuseppe Verdi).

 

 

 

Sotto la cenere il fuoco non cessa

Pace è una parola impegnativa. La userei con parsimonia: dato il carico enorme di odio, di sfiducia, di rancore, parlare di pace mi sembra prematuro. Ora dobbiamo lavorare per crearne le condizioni. Aprire percorsi che conducano alla pace. Il primo passo è il cessate il fuoco. Le parti starebbero mostrando maggiore flessibilità. Il condizionale, però, è d’obbligo, non è la prima volta che salta tutto all’ultimo. Poi si dovrà costruire il dopo. Al momento non si capisce quale sia il progetto, questo rende così difficile finire la guerra.

L’Amministrazione Trump pensa a un piano regionale di normalizzazione tra Israele e gli altri Paesi della regione…

Su questa idea pende, come una spada di Damocle, la questione palestinese. Se non la si risolve, tutto sarà terribilmente fragile.

La soluzione sono i due Stati?

È quella ideale, ma ora Israele la rifiuta. Va trovata una formula creativa.

Che contributo può dare la Chiesa per aiutare a immaginare il futuro?

La grande sfida è creare, poco alla volta, una narrativa diversa da quella attuale, esclusiva e escludente, che disumanizza l’altro. I cristiani devono essere capaci di proporre un linguaggio alternativo, di reintrodurre nel dibattito pubblico parole come persona, dignità, rispetto, ascolto. Termini, forse, banali ovunque. Ma non da queste parti. La Chiesa non può fare da sola questo lavoro: deve coinvolgere tutte le altre fedi e collaborare con le tante organizzazioni e i movimenti per il dialogo presenti e vive nelle società israeliana e palestinese.

 (dall’intervista di “Avvenire” al cardinale Pierbattista Pizzaballa patriarca di Gerusalemme)

Parlare di cessate il fuoco, peraltro garantito da un autentico guerrafondaio come Trump, al di là del minimalismo concettuale è un esercizio (quasi) penoso; parlare di pace è semplicemente velleitario in un clima di odio sempre più radicato e istigato. Anche i generici appelli alla pace (persino quelli papali), se non sono accompagnati da gesti e posizioni radicalmente precise e concrete, lasciano il tempo che trovano, anche perché spesso tradiscono intenti meramente propagandistici, volontà di pulirsi solo formalmente la coscienza, maldestri tentativi di assolvere funzioni istituzionali.

Secondo la narrazione storica, culturale, religiosa e geopolitica, il colpevole di tutto è ormai individuato: Hamas ha provocato terroristicamente la guerra, non vuole restituire gli ostaggi, non vuole alcun accordo, boicotta il dialogo, strumentalizza la disperazione palestinese, fomenta l’odio, etc. etc. Questa è la lente deformata e deformante con cui viene analizzata e affrontata la situazione. Partendo da queste premesse è impossibile aprire un confronto: se si truccano le fondamenta non si riesce a costruire nulla e, se momentaneamente l’edificio regge perché tirano i quattro venti dei superpotenti, ben presto crollerà miseramente tutto.

Mi convinco sempre più che la pace è dono di Dio e non costruzione umana. Anche questa verità però può essere falsata e sporcata dall’integralismo religioso. “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori” (salmo 126). Gli ebrei hanno purtroppo la riserva mentale di avere comunque Dio dalla loro parte: posizione analoga quella dei musulmani. Da cristiani non rimane altro che sforzarsi di essere, evangelicamente parlando, costruttori di pace nel nostro piccolo mondo, lasciando i massimi sistemi alle loro perverse logiche.

E la politica? Questo è il problema! Serve protestare? Sì! Serve discutere e dialogare sul tema della pace? Sì! Serve analizzare le situazioni e farsi un’idea contro corrente? Sì! Serve soffrire per le vittime innocenti della guerra? Sì! Serve leggere e rileggere le idee dei profeti di pace. Sì, molto più che ascoltare le tiritere e le narrazioni provenienti dai media. Il profeta Giorgio La Pira riusciva a coniugare una fede smisurata con un inesauribile impegno politico fuori dagli schemi. Lui saltava tutte le paralizzanti intermediazioni, andava dalle preghiere delle suore di clausura agli incontri provocatori con i potenti della terra.

 

Da ospedale da campo a clinica della religione

In questi giorni a livello mediatico (La 7 – Otto e mezzo) è stato posto il problema di eventuali ripercussioni terroristiche islamiche sui Paesi occidentali, europei in particolare, Italia compresa alla luce della persistente inerzia governativa in materia di Palestina ed Iran, che suona come tacito assenso ai comportamenti di Israele e degli Usa.

Preso atto del gioco meloniano, ormai ampiamente consolidato, a fare il pesce in barile, c’è da sperare che l’Italia non rientri comunque fra i nemici di prima fascia del mondo arabo-islamico.

Al riguardo un primo motivo di speranza è legato ad un passato fatto di rapporti diplomatici positivi e di aiuti verso i palestinesi e gli altri Stati ad essi legati: andiamo pure alla prima repubblica e agli anni dei governi Prodi e D’Alema. Un patrimonio di buoni rapporti, che viene scriteriatamente dilapidato e sacrificato sull’altare di una vomitevole piaggeria filo-americana e filo-israeliana.

A questa motivazione il professor Massimo Cacciari ne ha aggiunta una riguardante la presenza in Italia del Vaticano e della sua storica ed intelligente azione diplomatica volta a tenere conto delle ragioni della Palestina e di quella parte di mondo: l’unica istituzione che ha svolto nel tempo un ruolo positivo in cerca di accordi e assetti pacifici.

E allora mi è venuto un diabolico e peccaminoso sospetto: il cambio avvenuto a livello di papato potrà avere una qualche influenza sul discorso? Il pensiero di papa Francesco e quindi dei suoi collaboratori (da Parolin a Zuppi) era netto al riguardo, mentre quello di papa Leone e della curia che si va delineando è tutto da verificare: la continuità non è lapalissiana ed è evidente la corsa nazionale ed internazionale a dipingere papa Prevost come amico del giaguaro del moderatume, morbido nei confronti delle smanie tradizionaliste interne alla Chiesa e tacitamente tollerante e normalizzatore verso le folli esigenze del totale disordine portato a compimento dalla triade Putin-Trump-Netanyahu.

Nei governi degli Stati, quando la politica non riesce ad esprimere un’adeguata classe dirigente, si fa ricorso ai governi cosiddetti tecnici, che non sono né carne riformatrice né pesce conservatore, ma sussiegosi organismi di galleggiamento sui problemi. Temo che nella Chiesa cattolica, anziché fare ricorso ai carismi che disturbano (papa Francesco docet), si stia ripiegando su un papato tecnico, che smussi gli angoli più scoperti e diriga la baracca mettendo d’accordo tutti all’interno e non scontentando nessuno all’esterno. Per dirla facendo riferimento all’immagine cara a Bergoglio, si passa dall’ospedale da campo alla clinica della religione.

Brutalmente parlando, Leone XIV saprà tenere testa agli indietristi saliti prepotentemente sul suo carro? Saprà essere intransigente come Bergoglio verso gli ortodossi amici di Putin? Saprà resistere alle tentazioni degli sbandieratori antiabortisti che hanno ben poco a vedere con l’etica evangelica e molto da spartire con la reazione clericale funzionale al trumpismo? Saprà mantenere un profilo nettamente contrario alle guerre cosiddette giuste di Israele? Saprà parlare come deve mangiare un profeta che guarda al Vangelo e non alla “realecclesik”?

Dubbi atroci! Che lo Spirito Santo illumini papa Leone e c. nel ginepraio della pastorale ecclesiale e della politica internazionale. Alcuni vedono nell’incipit prevostiano una certa somiglianza con lo stile montiniano: altro carisma, altra sensibilità politica, altra intelligenza quella di Paolo VI. Forse l’unico punto di contatto è nella prudenza che purtroppo portò spesso papa Montini a non decidere. Dopo 13 anni di Bergoglio il non decidere è impossibile e mi auguro sia difficile relegare la religione in sagrestia (molti lo desiderano in buona o cattiva fede) a guardare il mondo che va a catafascio.

Avevo promesso solennemente a me stesso a ai miei lettori (ammesso e non concesso che ve ne siano) di individuare testardamente tutte le mosse papali contrarie all’eredità bergogliana, pronto a ricredermi in progress, a fare ammenda, a chiedere scusa, persino a gridare evviva papa Leone. Ne ho avuto una prima occasione che riporto di seguito con grande soddisfazione.

«È più facile combattere» le «vittime» che l’«immenso business» criminale. Leone XIV sceglie la Giornata internazionale contro la droga per denunciare le storture dei sistemi che cavalcano le paure facili e le false soluzioni. «Troppo spesso, in nome della sicurezza – sostiene il Papa – si è fatta e si fa la guerra ai poveri, riempiendo le carceri di coloro che sono soltanto l’ultimo anello di una catena di morte. Chi tiene la catena nelle sue mani, invece, riesce ad avere influenza e impunità».  «Il nostro combattimento – spiega Leone XIV – è contro chi fa delle droghe e di ogni altra dipendenza – pensiamo all’alcool o al gioco d’azzardo – il proprio immenso business. Esistono enormi concentrazioni di interesse e ramificate organizzazioni criminali che gli Stati hanno il dovere di smantellare». Da qui il monito. «Le nostre città non devono essere liberate dagli emarginati, ma dall’emarginazione; non devono essere ripulite dai disperati, ma dalla disperazione». E cita Francesco che nell’Evangelii gaudium scriveva: «Come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti, e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo».

Leone XIV indica «la cultura dell’incontro come via alla sicurezza» e «ci chiede la restituzione e la redistribuzione delle ricchezze ingiustamente accumulate, come via alla riconciliazione personale e civile». Poi delinea un’agenda di impegno. «La lotta al narcotraffico, l’impegno educativo tra i poveri, la difesa delle comunità indigene e dei migranti, la fedeltà alla dottrina sociale della Chiesa sono in molti luoghi considerati sovversivi».

Leone XIV richiama ancora il suo predecessore rivolgendosi al “popolo” che ha scelto di lottare contro la droga. «Ricordo che quando Papa Francesco entrava in un carcere, anche nel suo ultimo Giovedì Santo, si poneva sempre quella domanda: “Perché loro e non io?”». (dal quotidiano “Avvenire”) 

Sto seguendo seppure in modo molto superficiale l’attività di papa Leone XIV: è un papa senza evidente carisma. Abituati al torrente in piena di Bergoglio, ci dovremo abituare ad una Chiesa meno papacentrica. Alla sua carenza di appeal suppliscono i media che ne seguono le mosse in modo apertamente strumentale, quelli di regime e di destra (Il Giornale in particolare) che hanno tirato un sospiro di sollievo e che gli stanno facendo un gran brutto servizio riducendolo ad un pontefice indietrista. L’intelligenza non gli manca e quindi se ne sarà sicuramente accorto. Il mio amico Pino dice che deve stare attento a non farsi intortare da Giorgia Meloni e c. Ma poi, chi sono io per giudicare e dare consigli ad un papa?

Si vis pacem para ministerium

La proposta. Un ministero della pace è necessario. A guidarlo dovrebbe essere una donna. Dare un nome così impegnativo a un incarico di governo significherebbe fare qualcosa di profetico, in tempi di guerra. Dare un incarico a una figura femminile lo sarebbe ancora di più.

Le guerre sono tornate dentro casa, anche se facciamo finta che riguardino solo gli altri, e noi interpretiamo la parte comoda di chi invia soltanto armi di difesa o di chi aumenta l’arsenale militare per prudenza. Quelle guerre che, almeno in Europa, pensavamo di aver consegnato ai soli libri di storia, sono invece tornate dentro i giornali e le cronache, dentro i temi dei nostri figli a scuola. Da qui una prima domanda: non sarebbe opportuno o necessario cambiare almeno il nome dell’attuale Ministero della difesa in “Ministero della difesa e della pace”? Così, dopo la prima trasformazione da Ministero della guerra a Ministero della Difesa, oggi, in un tempo tornato drammaticamente bellico, si potrebbe fare un passo culturale ed etico nella sola direzione giusta, con un umile cambiamento del nome.
Ma si potrebbe fare ancora qualcosa di più e di davvero profetico: prendere molto sul serio la Campagna per l’istituzione di un Ministero della pace, originariamente lanciata negli anni Novanta da Don Oreste Benzi, poi rilanciata su queste pagine qualche mese fa da Stefano Zamagni (in questo buon allievo di Don Oreste), e oggi fatta propria da diverse associazioni. Cosa c’è di più opportuno e necessario di questo nuovo ministero? La politica ha altro in mente, lo vediamo, e così firma la richiesta Nato di riarmo, rispondendo in modo sbagliato alla nostra stessa preoccupazione. Solo una campagna che diventa prima palla di neve e poi valanga potrà ottenere ciò che oggi appare solo desiderio o utopia. Perché, lo sappiamo dalla storia, quando la realtà raggiunge e supera una invisibile soglia critica, essa rivela una sua disciplina assoluta che si impone sopra tutte le ideologie e gli interessi di parte.
Come dovrebbe funzionare un tale Ministero? Quali i suoi uffici e dipartimenti? Quali le sue competenze? Tutto questo si vedrà, ma ora occorre solo continuare la campagna, a tutti i livelli. Perché, come amava dire Don Oreste, «le cose belle prima si fanno e poi si pensano». E cosa c’è di più bello della pace? In ogni tempo, in ogni luogo, nel nostro tempo?
Infine, il ministro di questo nuovo Ministero dovrebbe essere una donna. La Bibbia è piena di “donne di pace” (alle quali Avvenire ha dedicato una lunga campagna giornalistica, ndr) che hanno saputo usare il loro talento relazionale per evitare potenziali conflitti. Abigail, l’anonima donna di Tekòa, la regina Ester. Donne sapienti che riuscirono ad evitare guerre con le loro parole diverse, con un logos di pace. Forse perché da piccoli ci insegnano a trasformare i primi suoni e rumori in parole, perché nutrono i loro bambini con latte e storie, o forse perché per migliaia di anni, sotto le tende, si scambiavano soprattutto parole di vita. Forse per tutto questo e certamente per altro ancora, le donne sanno spesso parlare di pace diversamente e meglio degli uomini. Soprattutto sanno cercare, creare, inventare parole che non ci sono ancora, ma che devono assolutamente esserci per continuare a vivere. Una donna ministra della pace. Magari una madre, perché la storia della pace e delle guerre dovrebbero scriverla soltanto le madri. (“Avvenire” – Luigino Bruni, Vicepresidente Fondazione The Economy of Francesco)

Un tempo si diceva che se non vuoi affrontare e risolvere un problema devi istituire una commissione al riguardo. Non vorrei che finisse così anche per i ministeri: ce ne sono tanti, forse troppi, e si ha l’impressione che siano istituzioni burocratiche molto lontane dalla sostanza dei problemi. Tutto dipende da chi li regge. L’importanza di una qualsiasi istituzione non dipende dal nome e nemmeno dallo statuto, ma da chi ne porta avanti e valorizza la funzione.

Le dotte motivazioni portate da Luigino Bruni per l’istituzione del ministero della Pace sono serie e rispettabili, ma non mi convincono: sanno tanto di specchietto per le allodole, di alibi demagogico per coprire istituzionalmente le malefatte politiche.

“Vestissa ‘n päl e ’l parrà ‘n cardinäl”, dice un proverbio dialettale parmigiano. L’istituzione del ministero della pace appare come un’operazione di pura cosmesi democratica se non viene accompagnata da una profonda revisione politica basata sull’inequivocabile dettato costituzionale: l’articolo 11 della Costituzione italiana ripudia la guerra come strumento di offesa e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, promuovendo un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni. C’è già dentro tutto! L’obbligo di evitare la guerra così come viene anche oggi portata avanti, per segnare i rapporti di forza tra le nazioni e per impostarli in modo unilaterale, totalmente al di fuori di un ordine internazionale che favorisca la pace e la giustizia.

Quando si costruisce una casa, si comincia dalle fondamenta e non dal tetto. Capisco come nel vuoto politico possa venire il desiderio di cercare qualche scorciatoia che ci costringa a cambiare strada, ma, se non cambia la meta del viaggio, rischiamo di girare a vuoto.

La proposta, poi, di un ministro della pace donna risponde ad un sacrosanto principio: le donne devono avere accesso alle più alte, importanti e delicate cariche dello Stato. Ma, come sostiene autorevolmente Edith Bruck, l’accesso di una donna ad una funzione pubblica rilevante non è un bene in sé. “Anzi, spesso, nei posti di vertice, le donne diventano peggiori degli uomini, tendono a volerli superare e fanno peggio di loro”. Questa è forse la mia più grande delusione socio-politica: speravo che la donna potesse sbloccare tante situazioni di ingiustizia e di guerra, invece…

Le guerre le vincono sempre coloro che le dichiarano (e sono prevalentemente se non esclusivamente uomini, mentre le perdono sempre coloro che le subiscono (e sono soprattutto donne). Sarebbe molto interessante innescare qualche meccanismo che rompa questo macabro equilibrio. Portare le donne sic et simpliciter nelle belliche stanze dei bottoni potrebbe cambiare qualcosa di rilevante? La pace e la guerra non sono categorie inquadrabili nell’appartenenza a uno dei due sessi dal punto di vista culturale. Magari fosse così… La pace e la guerra sono invece riconducibili indistintamente ai due sessi, ne costituiscono purtroppo un tratto comune.

Ditemi cosa portano di sapienza femminile Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni? Un autentico spreco del patrimonio culturale delle donne! Mi dispiace doverlo ammettere, ma queste gentili signore hanno ruoli ben più rilevati di un eventuale ministro della pace e non fanno nulla per distinguersi dalla deriva egoistica in cui anche l’Europa sta sprofondando. Come sono solito drasticamente affermare, le donne non si sono tanto preoccupate della parità dei diritti, ma si sono accontentate di raggiungere la parità dei difetti.

Se non avessi grande stima per i proponenti, sarei portato a considerare il ministero della Pace come un elegante diversivo per continuare tranquillamente a portare avanti politiche di guerra. Tutto può servire alla causa della pace, ma non facciamo finta che…

 

Fuga da Alcatrump

Stati Uniti. Trump rinchiude gli immigrati nella gabbia: è l’Alcatraz degli alligatori. La prigione sorge su una remota pista d’atterraggio nel parco nazionale delle Everglades e potrà ospitare fino a 5mila persone. Il presidente degli Usa in visita: «Fantastica». Zanzare, pantere, pitoni, serpenti e coccodrilli. È in una palude a sud di Miami, in Florida, che è stato costruito un nuovo centro di detenzione per migranti irregolari. L’“Alcatraz degli alligatori”, così è stata soprannominata la struttura, potrà ospitare fino a 5mila persone. A inaugurarla, ieri, è stato il presidente Donald Trump che è riuscito a fare dell’ironia sullo scenario che attende gli “ospiti”: «Se volessero evadere, dovrebbero imparare a correre in questo modo per fuggire agli alligatori – ha sottolineato mimando una traiettoria a zigzag – così le loro chance di sopravvivere aumenterebbero dell’uno per cento». (“Avvenire” – Angela Napoletano)

E io dovrei essere cittadino di un Paese alleato con gli Usa che si lasciano sgovernare da questo incredibile e vomitevole personaggio? Giorno dopo giorno, dopo essermi sentito umiliato come persona umana, arrivo a ipotizzare per l’Italia una posizione geopolitica non allineata a nessuna potenza (persino fuori dall’Europa finché guazza nel pantano trumpiano), a costo di essere isolati politicamente e tagliati fuori da ogni rapporto economico. Meglio soli che male accompagnati!

Sì, perché oltre tutto questo cinico sgovernante americano sta mettendo su una compagnia di merende a livello mondiale con i suoi degni compari Putin, Netanyahu e Xi Jinping. Non è una combriccola molto diversa da quella fra Hitler, Mussolini e Hirohito.

Mi sento stretto in una morsa e rischio di soffocare dal punto di vista etico e politico. Mi chiedo: il mondo è sempre stato così e magari solo ora viene a galla tutto il putridume geopolitico? Finora abbiamo giocato a fare i democratici? Domande atroci!

Mi sento in perfetta sintonia con don Lorenzo Milani che affermava: «Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati ed oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri».

 

Ossigeno etico-politico in pillole

Oggi cedo la parola ad un amico col quale da tempo ho aperto un proficuo dialogo a trecentosessanta gradi e che mi regala preziose perle di politica spesso coniugata con l’ispirazione religiosa.

Quindi ritengo opportuno fare riferimento ai preziosi, acuti e provocatori messaggi che mi invia il caro amico Pino, mandandomi autentiche ventate di aria fresca e pulita, proveniente dal passato, ma capace di mettere a soqquadro il presente. Li riporto di seguito in ordine sparso: pillole che rientrano però in una organica terapia disintossicante rispetto alla infettiva narrazione che ci viene propinata.

Nel bel mezzo del “casino” del riarmo Nato, propongo due gesti programmatici: un “rutto” a Rutte (segretario generale della Nato) e uno “sberleffo” alla statista Meloni (NdR: diranno che è istigazione a perseguitare la nostra premier, insuperabile nella sua verve vittimista).

Nel casino totale mi chiedo dove sia finito Mario Draghi, scomparso dalla scena, mentre Trump e Putin stanno trascinando le “nazioni” in una economia di guerra.

Nel 1969 Giorgio La Pira, al Comitato per il disarmo, affermò che andavano denuclearizzati l’Europa e il Mediterraneo, togliendo la Nato e il Patto di Varsavia e piantando, a servizio dei popoli del Terzo Mondo e di tutti i popoli della terra, la tenda della pace! Il sogno che parte dal profeta Isaia e che deve ancora attuarsi. Preghiamo e speriamo!

Gli Stati si comportano come se la storia fosse opera dell’uomo ed ignorano che essa è fondamentalmente opera di Dio (così pensava Giorgio La Pira). La storia umana è mossa da un vento misterioso ma effettivo, lo Spirito di Dio, ecco il perché del valore incalcolabile della preghiera.

Speriamo che papa Prevost prenda le giuste misure alla Meloni, non si faccia intortare, perché la Meloni è una “intortatrice” di papi. Prima Francesco, adesso ci prova con Prevost.

Manca il laicato cattolico: pensiamo al rapporto franco De Gasperi-Pio XII e La Pira-Paolo VI. Quelli erano cattolici con le palle. Ora il tessitore è Alfredo Mantovano per conto di Giorgia Meloni. Pensiamo a come La Pira metteva a tacere quel mezzo liberale di don Sturzo. Ci siamo abituati alla mediocrità…

Parole di Giuseppe Dossetti sulla Costituente: “la collaborazione con l’intelligenza acuta e pensosa di Aldo Moro e il confronto con Lelio Basso e soprattutto con Palmiro Togliatti, che – pur nella diversità della concezione generale antropologica e quindi politica – molto mi arricchì con la sua vasta esperienza storica e con la sua passione per un rinnovamento reale del nostro Paese rispetto alla situazione prefascista…è incalcolabile quello che debbo alla fraternità e alla inesausta capacità di speranza e di amore di Giorgio La Pira, al suo fascino di purezza e di contemplazione” (dal libro “Giuseppe Dossetti. Con Dio e con la storia”).

Resta per me un mistero cosa aspettino in Vaticano a spingere per la beatificazione di Giorgio La Pira…ci deve essere di mezzo qualche ultraconservatore…

Valori no, interessi forse, ricatti sì

Ecco come funziona veramente la geopolitica. C’è una lezione canadese che vale un po per tutti noi. Dunque, Mark Carney, il premier canadese, era stato presentato come il leader della riscossa nazionale contro Donald Trump, contro le offese e le arroganze, le minacce del vicino di casa grosso e prepotente. Mark Carney, in realtà ha appena fatto una spettacolare retromarcia. Aveva annunciato una tassa digitale che di fatto era una tassa sui giganti di Big Tech americani, perché quelli dominano il settore digitale.

Trump aveva minacciato, come ritorsione, di cancellare l’accordo sul commercio bilaterale e Carney, il premier canadese, ha fatto subito marcia indietro. Ha rinunciato alla tassa digitale. Si può interpretare questo episodio come un ennesimo caso di cedimento di fronte alla legge del più forte, di fronte all’arroganza, alla prepotenza. Ma in realtà è una lezione di come funziona veramente la geopolitica, dove contano i rapporti di forza e più della buona morale o dei buoni sentimenti.

Questo va anche a giustificare, tra l’altro, il comportamento dell’Unione Europea in questa fase delle trattative commerciali con Washington. Molto pragmatico, molto prudente. Ogni tanto delude certi commentatori che vorrebbero un’Unione europea più battagliera, più cattiva nei confronti degli Stati Uniti. Ma le regole del gioco sono quelle da sempre. Nel caso Stati Uniti, Canada il comportamento è stato molto logico da ambo le parti.

Donald Trump è stato eletto per difendere gli interessi degli Stati Uniti. In questo caso ha difeso gli interessi dell’industria nazionale contro una tassa che sarebbe stata punitiva. Carney è stato eletto anche lui per difendere gli interessi canadesi e, naturalmente, soppesando i vantaggi che ricavava dalla tassa digitale, gli svantaggi, i costi, i danni da una rottura dell’accordo commerciale con gli Stati Uniti ha preferito rinunciare alla tassa digitale.
Così funziona il mondo, che ci piaccia o no. (Federico Rampini / CorriereTv)

Ci sono tre modi per impostare i rapporti fra gli Stati: basarsi sui valori provenienti da comuni visioni democratiche, mettere meramente in gioco gli interessi reciproci, far prevalere la potenza a livello di veri e propri ricatti. In questa fase storica se i valori non contano una cicca frusta, persino gli interessi non vengono discussi e confrontati per arrivare a soluzioni di compromesso; si va dritti all’applicazione del criterio della bilancia, quella dell’episodio in cui il capo gallo Brenno, dopo aver sconfitto i Romani e occupato Roma, pretese un riscatto in oro. Durante la pesatura dell’oro, Brenno aggiunse il peso della sua spada, esclamando “Vae victis!” (Guai ai vinti!). Questo episodio, narrato da Tito Livio, simboleggia la sconfitta romana e la crudeltà della vittoria gallica.

E ci dovremmo rassegnare, più cinicamente che pragmaticamente, ad un simile funzionamento della geopolitica? Contro la forza la ragione non vale? Non c’è spazio per la discussione, per il dialogo, per il confronto: tutto viene risolto in base alla legge del più forte. È la fine della politica che dovrebbe tenere conto della forza delle idee: nella deriva populista vince e decide tutto chi ha più voti (non importa come raccolti e come pesati), le istituzioni democratiche diventano una mera pantomima, il popolo si illude di decidere mentre in realtà consegna soltanto una delega in bianco; nell’impostazione sovranista ogni Stato si chiude a riccio e si illude di contare qualcosa mentre in realtà subisce i diktat del più forte.

Queste sono le scorciatoie anti-democratiche che vanno sempre più di moda. L’Europa, in questo desolante quadro. dovrebbe inchinarsi a questa imprescindibile logica, abbandonando ogni e qualsiasi intento di comune difesa dei valori e finanche degli interessi per ripiegare sulla difesa armata quale unica modalità per non arrendersi allo strapotere (certo) economico statunitense e a quello (ipotetico) militare russo?

L’Inghilterra ha scelto di andare per la tangente, la Germania mette in campo la sua residua forza economica, la Francia accarezza i soliti sogni di grandeur, l’Italia fa l’Italia e dà un colpo al cerchio europeo e un colpo alla botte americana, i Paesi dell’Est europeo hanno munto ben bene la vacca e ora giocano in modo piuttosto sporco a fare i populisti e i sovranisti scopiazzando un po’ Putin e un po’ Trump.

Mi dispiace per Federico Rampini, ma un mondo che funziona così non mi piace, non lo accetto e spero che prima o poi imploda. Il problema saranno i tempi e i modi dell’implosione. Tempi lunghi in attesa del risveglio delle coscienze e persino dei portafogli. Modi che purtroppo potrebbero consistere in bagni di sangue sempre più invasivi e pervasivi.

Tragedia americana e commedia italiana

Wag the dog, ovvero: «Fai scodinzolare il cane», creando l’illusione che sia la coda a far muovere il cane e non viceversa. La metafora si attaglia a meraviglia alla drammatica situazione a Los Angeles e San Francisco (ed altre città americane), dove migliaia di soldati della guardia nazionale, settecento marine in assetto di guerra, blindati per le strade e droni militari nei cieli sono stati chiamati direttamente da Donald Trump per reprimere la «rivolta» esplosa nel cuore della California per difendere gli immigrati dai raid ordinati da Washington. Los Angeles brucia e il ricordo dei disordini per la morte di Rodney King del 1992 non è poi così lontano. Solo che stavolta c’è il trucco di un illusionista.

(…)

Un caos gestito a fini mediatici che non fa che rafforzare l’immagine – ma diciamo pure la deriva – di un presidente-autocrate che dalla turbolenza delle piazze ricava la legittimità a spazzare via il pericolo-immigrati, vuoi con il transito temporaneo (sempre che lo sia) di centinaia di irregolari a Guantanamo, vuoi con la crescente repressione violenta delle manifestazioni pacifiche.

Cose che, tutte quante, erano state previste e modellate nel famigerato Project 2025 – il manifesto di destra della Heritage Foundation cui si ispirano Trump e il suo redivivo sodale (e avversario mortale di Elon Musk) Steve Bannon – nel quale si promuove la necessità di ricondurre l’intero potere esecutivo dello Stato federale sotto il controllo diretto del presidente, assumendo la guida di tutti i ministeri e di tutte le diciotto agenzie federali per la sicurezza (dalla Cia all’Fbi alla Nsa), riducendo drasticamente il welfare e promuovendo la deportazione in massa dei clandestini, degli illegali e di coloro che non hanno ancora maturato i diritti di permanenza sul suolo americano. Uno dei capitoli-chiave di Project 2025 si intitola “Riprendere il Paese dalla sinistra radicale”. Ed è quello che, fra un’ondata di arresti e l’altra, Donald Trump sta facendo. Con l’aiuto cruciale del disordine che sta infiammando le piazze. Inconsapevoli comprimarie di un disegno accuratamente ideato a tavolino. (dal quotidiano “Avvenire” – Giorgio Ferrari)

Quanto sta succedendo negli Usa, come si è (quasi) sempre verificato nel bene e nel male, è di ispirazione e di esempio per il nostro Paese?

Il cosiddetto premierato non è forse la morbida strada per ricondurre il potere esecutivo sotto l’egida del presidente e per condizionare in modo esiziale tutti gli altri poteri dello Stato?

Non c’è in atto un ridimensionamento del welfare, basti pensare alla sanità pubblica ridotta ai minimi termini, seppure camuffato all’italiana, vale a dire con la tipica falsa socialità della destra estrema sbandierata corporativisticamente con reiterati interventi strappa-applauso rivolti a platee compiacenti?

Non assomiglia alla deportazione il progetto, peraltro fallito prima di partire, di trasferimento in Albania degli immigrati più o meno irregolari? E i respingimenti di salviniana paternità? E la volontà di ridimensionare le ong impegnate nel salvataggio dei naufraghi? Non sono tutti inquietanti elementi di una strategia di muro all’immigrazione?

E che dire del tentativo di silenziare le proteste, di squalificare aprioristicamente le critiche, di criminalizzare le diversità, di gridare al complotto, di ridurre l’informazione pubblica a mera cassa di risonanza del potere inteso in senso più presidenziale che governativo? Non sono tutti escamotage rientranti nella solita manfrina dell’assimilazione di ogni e qualsiasi dissenso al comunismo strisciante?

E l’ossessionante puntare sul fuoco dell’insicurezza per offrire false sicurezze a suon di reati sparsi a piene mani, l’enfatizzazione di ogni piccolo disordine come attentato all’ordine pubblico non sono il presupposto per giustificare svolte antidemocratiche o per introdurre nella mentalità della gente subdole motivazioni al fine di sostituire più o meno gradualmente la difficile scelta democratica con il facile e sbrigativo regresso autoritario?

Come spesso accade l’imitazione è peggio dell’originale, infatti mentre Trump fa paura, Meloni fa pena, circondata da una classe dirigente squallida, costretta a fare i conti con una snervante rissosità all’interno della sua maggioranza, costantemente ed unicamente preoccupata della propria immagine e di verificarsi allo specchio quale donna più ammirabile del mondo politico.

Guardando agli Usa si assiste ad una vera e propria tragedia in cui sta morendo la democrazia, guardando all’Italia si vede, almeno per ora, una commedia tendente alla farsa, in cui la democrazia viene presa letteralmente in giro. La tragedia può trasformarsi in commedia, ma può succedere che la commedia si muti in tragedia.