Le istituzioni ridotte a pulpito di bassa propaganda

A poco più di un mese dai cinque referendum sul lavoro e sulla cittadinanza, la maggioranza scende pesantemente in campo per farli fallire. Ad aprire lo scontro è stato Antonio Tajani, vicepremier per Forza Italia e ministro degli Esteri: «Noi siamo per un astensionismo politico, nel senso: noi non condividiamo la scelta referendaria. Andare a votare ai referendum è una scelta libera – spiega il ministro –. È una scelta pure non andare a votare. Se la legge prevede che ci deve essere un quorum, vuol dire che i cittadini devono conoscere l’importanza dei quesiti. Quindi non andare a votare è una scelta politica, non è una scelta di disinteresse nei confronti degli argomenti. Non c’è nessun obbligo di andare a votare, è illiberale chi vuole obbligare ad andare a farlo. Un conto è per le politiche, un altro per i referendum. Se i referendum uno considera che non siano giusti, è giusto per lui che non raggiungano il quorum». (da “Avvenire”)

Sta a vedere che adesso se andare o meno a votare me lo insegna Tajani? Innanzitutto stia bene attento che la storia registra come questi appelli si ritorcano contro chi li lancia. Infatti, se avevo qualche eventuale dubbio sul recarmi alle urne per i prossimi referendum, questo ridicolo intervento me lo ha tolto: andrò a votare! Se funziona così con me è probabile che succeda anche con altri potenziali elettori.

In secondo luogo la distinzione fra voto referendario e voto politico, quanto alla spinta verso l’obbligo, è infondata e soltanto strumentale ai propri interessi di bottega.  L’incitamento al non voto, checché se ne dica, mi sembra comunque una forzatura inaccettabile in quanto anti-democratica.

Matteo Renzi politicizzò a suo tempo in modo improprio i referendum costituzionali e si tirò una colossale zappa sui piedi; Antonio Tajani che di politica ne capisce sì e no un millesimo rispetto a Renzi, se tanto mi dà tanto, passerà alla storia per il suo autogol referendario. E questo a prescindere dai contenuti e finanche dai risultati.

Un ministro che invita i cittadini a non votare non è un bel vedere. Siccome gli attuali governanti italiani possono contare sulla risicata maggioranza della stragrande minoranza, forse stanno correndo ai ripari per mettere una squallida bandierina sull’assenteismo dilagante: un modo come un altro per essere maggioranza nel Paese, vale a dire coltivare il non voto per annetterselo come qualunquistico serbatoio.

Ma non è finita! Sembra calzante l’aneddoto che tutti conoscono: il baritono venne accolto da urla e fischi e, rivolgendosi al pubblico lo pregò ironicamente di pazientare ed attendere l’esibizione del tenore. Fischiate me? Sentirete il tenore! Al baritono Tajani fa eco il tenore La Russa. Una gran bella compagnia istituzionale!

Questa volta l’appello all’astensione è arrivato dalla seconda carica dello Stato, Ignazio La Russa. “Io ho detto ci penso ad andare a votare perché eravamo dentro il Senato e sono presidente del Senato, ora lo ribadisco. Ma sono sicuro che farò propaganda perché la gente se ne stia a casa”, ha rivendicato ieri dal Teatro Niccolini di Firenze in occasione dell’evento “Spazio cultura”, organizzato dai gruppi parlamentari di Fratelli d’Italia di Camera e Senato. (fanpage.it)

Naturalmente se mai si dovesse arrivare al voto referendario sulla schifezza del premierato, tutti a votare, non è ammessa l’astensione. Ma fatemi il piacere…

 

Morto un Papa si fa un Prevost

Ho seguito, più con curiosità che con partecipazione, lo svolgimento del conclave, tentando di dare un significato ad una ritualità che di senso ne ha poco o niente. Se vuole essere un segno tangibile di estraneità rispetto alla ritualità pagana, rischia di (s)cadere nella messa in scena fornita su un piatto d’argento al morboso tritacarne mediatico. Se vuole essere una dimostrazione di riservatezza, finisce col dare la stura ad una dietrologia incontenibile e rovinosa. Se vuole essere la concretizzazione dell’invito evangelico a non essere “del mondo”, arriva a inscenare una Chiesa fuori dal mondo per esservi in realtà dentro fino al collo.

Contraddizioni ed equivoci poco edificanti, confermati da una triste impressione: una sfilata di personaggi freddi, distaccati e preoccupa(n)ti. Come possa fare lo Spirito Santo a scovare un po’ di carisma su cui lavorare, lo sa soltanto la terza persona della Santissima Trinità. La morte di papa Francesco forse ha messo a nudo la carenza di leadership nella Chiesa, perfettamente in linea con la situazione della politica a livello internazionale.

La regola degli ottant’anni, inserita inspiegabilmente da Paolo VI, ha paradossalmente estromesso dal conclave tre cardinali carismatici: mi riferisco a Raniero Cantalamessa, Gianfranco Ravasi e Angelo Comastri. Il più lucido e convincente degli omileti, il più acculturato degli uomini di Chiesa, il più devoto dei prelati. Il primo ha consigliato o forse addirittura prescritto ai conclavisti una terapia d’urto, il secondo, a latere, ha dispensato alla gente garbate ma profonde pillole culturali, il terzo ha proposto di pregare con i suoi meravigliosi rosari. Quasi che teologia, cultura e preghiera fossero degli optional nelle procedure decisionali della gerarchia.

In questo desolante quadro extra-evangelico si sono consumate due reazioni in un certo senso uguali e contrarie: quella popolare in cerca di un mito da sostituire in fretta e furia a quello impropriamente e ingiustamente appioppato a papa Francesco; quella della politica interessata a sgombrare il campo dalle sacrosante provocazioni bergogliane, nascondendosi dietro le bigotte velleità di un ritorno all’etica dell’esclusione o addirittura della demonizzazione delle diversità.

In mezzo ci stanno il chiacchiericcio mediatico e lo sciocchezzaio giornalistico: la Chiesa è come la musica, o la si sente, la si vive e la si soffre oppure è meglio tacere.

Sotto la scorza del conclave ci sono tutti i problemi che non tarderanno a farsi sentire: papa Francesco era capace di ascoltare prima di pontificare e rassicurare. Dopo di lui temo il diluvio. Non ho infatti capito a quale logica geopolitica e/o ecclesiale risponda la scelta caduta su papa Prevost alias Leone XIV. Azzardo di seguito una serie di domande e di previsioni molto disincantate e piuttosto scettiche.

Il primo papa statunitense dovrà buttare la bomba religiosa fra i piedi di Trump? Si tratta del lancio di una sfida o di una mano tesa? Tutto mi aspettavo meno che un papa americano. I signori cardinali hanno inteso prendere Trump per le corna, strappandogli di mano i cattolici che lo hanno paradossalmente votato, i cosiddetti cattolici Maga alla Vance? Visto che il mondo ha perso il riferimento democratico statunitense, la Chiesa cattolica si candida a concedere un porto sicuro a cui approdare? Si è voluto provare a riconquistare il consenso dei cattolici bigotti che detestano l’ideologia di genere e i diritti Lgbtq+ e che sono in cerca di una reazionaria identità etica (discorso che vale per tutti i cattolici nostalgici del vuoto rigore morale a tutti i costi)?

Dal punto di vista ecclesiale si intende risolvere le positive (di)visioni, brandendo più il codice di diritto canonico che il Vangelo, sovrapponendo la Chiesa-istituzione alla Chiesa-comunità? Si sta cercando un ritorno alla normalità post-bergogliana, una sorta di pace sepolcrale sulle prospettive innovative e riformatrici? Si vuole offrire un ragionieristico volto rassicurante dopo che sono emersi tanti buchi nel bilancio della Chiesa? Si pensa di inaugurare una nuova stagione di certezze dogmatiche da spalmare come opportunistico balsamo sulla problematica vita di fede e carità? Che ne sarà della sinodalità, delle aperture ad una sessualità aperta e costruttiva, del celibato sacerdotale, del ruolo delle donne, dell’accoglienza alle diversità, dell’attenzione fattiva agli ultimi della pista?

La gente dopo avere tanto osannato papa Francesco desiderava una forte continuità con la sua impostazione pastorale: ebbene, ha venduto tutto per trenta denari di concertone papale, le basta un semplice “la pace sia con tutti voi” per sopportare una probabilissima impostazione assai lontana dalla provocatoria logica bergogliana.

A proposito di continuità risulta patetico il tentativo di collocare Prevost in continuità con Bergoglio: a partire dagli atteggiamenti e dai comportamenti iniziali non si direbbe che ci sia quella continuità auspicata, sbandierata, ma sotto-sotto comodamente e sostanzialmente liquidata. Non è giusto fare della dietrologia, ma sembra che della candidatura di Prevost siano stati protagonisti i cardinali statunitensi e africani, in contrapposizione a quella di Parolin sostenuta da italiani ed europei, con gli asiatici in attesa di posizionarsi. Parolin si sarebbe ritirato per timore di creare grosse spaccature: parte dei suoi potenziali elettori e gli asiatici si sarebbero spostati su Prevost, preferito comunque dai tradizionalisti rispetto ad un incontrollabile outsider emergente in un conclave bloccato. Pur essendo vero che la storia insegna come i papi, una volta eletti si sgancino dai condizionamenti dei loro grandi elettori, tuttavia Prevost sarebbe stato proposto soprattutto dalle correnti cardinalizie notoriamente e pervicacemente ostili a papa Francesco: statunitensi e africani. Alla faccia della continuità…

Si sarebbe ripetuto quanto successe nel conclave del 2005 allorché il cardinal Martini rinunciò alla sua candidatura e a quella di Bergoglio in favore di Ratzinger per non spaccare la Chiesa e sulla base di un accordo, che poi venne col tempo ampiamente disatteso da Benedetto XVI. La differenza qualitativa dei personaggi allora in lizza rispetto a quelli del conclave appena celebrato è notevole, ma le logiche sono simili. Se non riuscì il cardinal Martini a condizionare un papato di restaurazione, immaginiamo se ci potrà riuscire Parolin, a meno che lo Spirito Santo…

Staremo comunque a vedere. Non desideravo l’assurda fotocopia di Francesco, ma nemmeno la brutta copia di Ratzinger. Speravo nella decisa prosecuzione di una strada, temo invece pericolose pause, deviazioni se non addirittura inversioni di rotta.

La politica, a tutti i livelli, tira un sospiro di sollievo e si lancia nel mettere il proprio cappello sulla testa del nuovo papa: ce n’è per tutti i gusti…Difficile era prendere la misura a Bergoglio, non so come finirà con Prevost. Sento odor di sagrestia e di politici che vanno in chiesa per confabulare coi preti e carpirne strumentali appoggi.

Temo che sia arrivata una fumata grigia e pensare che io sognavo una fumata rosa: la riscossa delle donne, stanche di annunciare il “Risorto” ad una Chiesa maschilisticamente chiusa e vogliose di scaravoltare qualche cattedra piuttosto ingombrante.

Al momento non mi rimane che rifugiarmi sotto la tonaca di papa Francesco, assieme ad una suora che non vuole imbalsamarne l’esempio.

Madre Maria Ignazia Angelini offre una chiave per leggere questo momento storico per la Chiesa: il Conclave chiamato a scegliere il successore di Pietro. Monaca benedettina e teologa, nata a Pesaro 81 anni fa, ha guidato per oltre ventidue anni come abbadessa la Comunità di Viboldone, appena fuori Milano. E, ora, nella stessa Abbazia, riceve chiunque abbia necessità di conforto e consolazione, di condividere un tempo di afflizione o di gioia, di sentire una parola amica. Alla religiosa, insieme al domenicano Timothy Radcliffe, è stata affidata la realizzazione delle meditazioni che hanno introdotto le varie sessioni generali delle due Assemblee sulla Sinodalità.

Un suo ricordo personale?

Un episodio piccolo – cinguettio tra le gravi parole del Sinodo – ma rivelatore. Al termine di una mia riflessione all’inizio di una Congregazione generale, mi si è avvicinato e mi ha detto: “Grazie, mi hanno fatto bene le tue parole, mi hai fatto capire cose cui mai avevo pensato”. Io? Possibile? Ero cosciente di aver semplicemente proposto la meditazione sulla parola evangelica del giorno. Ma l’immediatezza disarmante di questo apprezzamento mi ha profondamente colpito. E subito dopo mi ha domandato se avevo un desiderio. Gli ho raccontato di una mamma che aveva appena perso il figlio unico in un incidente stradale: l’ho raccomandata alla sua preghiera. Mi ha chiesto il nome e il contatto, e immediatamente – lì, in Aula – l’ha chiamata… Lascio immaginare. Ne sono rimasta tanto commossa fino a nascondermi, in lacrime. (da “Avvenire” – intervista a cura di Lucia Capuzzi)

La storica sera, in cui papa Francesco, appena eletto, si presentò, con atteggiamenti e simbologie rivoluzionari, sulla balconata di S. Pietro, ero davanti al video in compagnia di mia sorella Lucia. Eravamo entrambi convinti che fosse successo qualcosa di grande per la Chiesa cattolica. Quella volta lo Spirito Santo era arrivato in tempo. Ero talmente commosso da non riuscire a trattenere le lacrime. Ritorno a quel momento: si vive anche di ricordi, in attesa che lo Spirito Santo batta un colpo cavando Vangelo dai buchi della Chiesa. Riuscirò a sentirlo e a capirlo?

Rifiuto comunque l’ansia di ubbidire supinamente alla gerarchia, al papa, ai vescovi e ai sacerdoti: lo Spirito Santo, in cui credo, opera e soffia (anche in me) ben al di fuori degli schemi. Al riguardo papa Francesco diceva: «Per favore, che nelle vostre comunità mai ci sia indifferenza. Comportatevi da uomini. Se sorgono discussioni o diversità di opinioni, non vi preoccupate, meglio il calore della discussione che la freddezza dell’indifferenza, vero sepolcro della carità fraterna».

Una cosa è certa, la delusione in me è fortissima, ho preso una secchiata gelata sul mio senso di appartenenza alla Chiesa. Mi prendo una pausa di riflessione. Dal momento che il buon (?) giorno si vede dal mattino, posso, al momento, concludere così: finora mi consideravo un cattolico borderline, con Prevost papa mi sento un cattolico offside.

 

La fattoria dei neonazisti

Il portavoce del Cremlino, Peskov, dichiara che “lo scopo del cessate il fuoco proposto dalla Federazione russa è quello di testare la disponibilità di Kiev a trovare soluzioni per una pace sostenibile”. E aggiunge: il rifiuto da parte di Kiev della tregua di tre giorni per il Giorno della Vittoria “dimostra che il fondamento ideologico dell’attuale regime è il neonazismo”. (Rai News.it)

Le provocazioni diplomatiche e le scaramucce verbali non servono alla ricerca della pace, nemmeno ad una tregua degna di tal nome: il tutto rientra in un macabro gioco al rialzo della guerra.

Mi permetterei quindi di consigliare a Zelensky di non cadere in questa trappola, ne guadagnerebbe in termini di fiducia dai Paesi che lo sostengono: come noto, a volte, il più bel tacer non fu mai scritto. Non so se gli serva a tenere caldo il consenso interno, che probabilmente scricchiolerà, tuttavia la sua credibilità non dipende certo dalle risse verbali da cortile.

Forse un gesto di buona volontà nell’accettare la proposta di cessate il fuoco proveniente dal Cremlino non sarebbe stato del tutto sbagliato. Vale la pena provarle tutte…

Ciò non toglie che l’accusa di neonazismo lanciata dal portavoce russo fa sinceramente pena e fa ricordare immediatamente la favola del lupo e dell’agnello: non è difficile applicarla un po’ a tutto l’atteggiamento russo nei confronti dell’Ucraina, che non avrà certo tutte le ragioni, non sarà un esempio specchiato di democrazia, ma non penso possa essere accusata sic et simpliciter di neonazismo per essersi avvalsa di unità paramilitare di volontari di orientamento neonazista. Restando nelle similitudini animalesche, sa tanto di bue che dà del cornuto all’asino. Torno alla favola di Esopo.

Un lupo vide un agnello che beveva ad un torrente, sotto di lui, e gli venne voglia di mangiarselo. Così, gli disse che bevendo, sporcava la sua acqua e che non riusciva nemmeno a bere. «Ma tu sei a monte ed io a valle, è impossibile che bevendo al torrente io sporchi l’acqua che scorre sopra di me!» rispose l’agnello. Venuta meno quella scusa, il lupo ne inventò un’altra: «Tu sei l’agnello che l’anno scorso ha insultato mio padre, povera anima». E l’agnello, di nuovo, gli rispose che l’anno prima non era ancora nato, dunque non poteva aver insultato nessuno. «Sei bravo a inventare delle scuse per tutto» gli disse il lupo, poi saltò addosso al povero agnellino e lo mangiò.

Non esito a considerare Vladimir Putin il più grande delinquente politica della storia di tutti i tempi: ha sommato in sé tutti i misfatti del comunismo e del post-comunismo, della dittatura e dell’autocrazia, dell’imperialismo e del sistema politico mafioso. A mio giudizio nella gara fra chi ha più morti sulla coscienza arriva al fotofinish con Hitler. Gli europei in passato gli hanno staccato troppe cambiali in bianco, che probabilmente Putin ha nel cassetto e che gli servono per tenere in scacco parecchi esponenti politici (pensate ai silenzi di Angela Merkel…).

Mi ricordo le piccate e reiterate reazioni di Mosca ai ragionamenti e riferimenti storici ineccepibili di Sergio Mattarella in merito al parallelismo fra nazismo e attuale imperialismo russo concretizzatosi nell’invasione dell’Ucraina. Ebbene, il neonazista di turno sarebbe Zelensky.

Visto che sono in vena di richiami etici in chiave zoologica, aggiungo, a proposito di neonazismo, un “la prima gallina che canta ha fatto l’uovo”.

La “neonazistizzazione” di Zelensky mi sembra un po’ troppo, anche se al lupo russo sta venendo in soccorso il lupo statunitense. Ricordiamoci la vomitevole scena dell’incontro con Zelensky alla Casa Bianca ipocritamente ammorbidita dallo pseudo-incontro in San Pietro.

Ora abbiamo il mondo in mano al club dei delinquenti: Putin (il più furbo), Trump (il più imbecille) e Xi Jinping (il più simpatico). Giocano a tressette col morto (l’Europa). Se esistesse un termometro per misurare il tasso di neonazismo, certamente Zelensky ne uscirebbe con poche linee di febbre, gli altri con un febbrone da cavallo infettivo per tutto il pianeta terra (altro che covid…).

 

Compromessini e compromessoni

Si era proposto come uno “sceriffo” in grado di affrontare a muso duro quello che un tempo era l’inossidabile alleato americano e insieme fare i conti con una macchina di consensi come Alternative für Deutschland, il gruppo “sovranista-illiberale” di Alice Weidel che ad eccezione di Berlino miete consensi in tutti i Länder dell’ex-Ddr. Ma al posto di Wyatt Earp, l’eroe dell’Ok Corral, i tedeschi si sono ritrovati un Friedrich Merz passato per il rotto della cuffia alla seconda votazione dopo un’umiliante bastonatura al Bundestag. Uno sceriffo se non dimezzato, certo consapevole che la sua “Kleine Koalition” (“Grosse” è aggettivo esagerato per quell’affaticato sodalizio Cdu/Cs/Spd che i Linke, i verdi e la stessa Afd giudicano debolissimo) si regge su un pugno di voti – 325, solo 9 in più della maggioranza richiesta – che oggi c’è e domani non si sa. (dal quotidiano “Avvenire” – Giorgio Ferrari)

La situazione della Germania è emblematica dell’attuale contraddizione degli schieramenti politici: una destra che si sta vieppiù estremizzando in chiave antisistema; una sinistra che si allontana dai ceti popolari e non riesce a proporre soluzioni di governo rispetto ai problemi dell’immigrazione, delle nuove povertà in genere e della pace; le forze moderate che non riescono a scegliere con chi allearsi organicamente  in chiave democratica, oscillando fra le chimere demagogiche e le semplificazioni populiste e sovraniste della destra e  le verbose e deboli proposizioni della sinistra cosiddetta riformista piuttosto frammentata e impreparata.

La storia attuale richiederebbe una difficile e coraggiosa alleanza tra i liberal-conservatori e le sinistre e non un “compromessino” del tirare a campare tra finti moderati e finte sinistre per sbarrare comunque la strada alle pericolose e nostalgiche destre.

In Germania il compromessino, al di là dei numeri risicati, scricchiola ancor prima di entrare in funzione, messo in discussione dai franche tiratori al proprio interno, all’esterno dall’insoddisfazione delle sinistre più radicali e dalle pretese di una destra che sta trovando forti legami e appoggi a livello internazionale.

In Italia è stato trovato un concorrenziale compromessone a destra con un penoso reggimento di moccolo da parte moderata. Non so se sia più pericoloso il compromessino o il compromessone: il primo rischia di foraggiare elettoralmente le destre offrendo praterie di ingovernabilità; il secondo rischia di legittimare istituzionalmente le destre coprendone le magagne antidemocratiche.

Le sinistre, dentro o fuori dai giochi, stanno a guardare: aspettano che il Godot delle urne si converta al voto più o meno convinto, ma utile per rompere una pericolosissima deriva.

Su tutto grava la debolezza della politica che si allontana dai cittadini (astensionismo in crescita) e si appoggia alle forze tecno-mediatiche: una politica artificiale, assai poco intelligente per chi la subisce e molto astuta per chi la cavalca.

 

 

Habemus cardinales!

Aiutati che il ciel ti aiuta! E se lo Spirito Santo rispondesse più o meno così alle preghiere e suppliche dei signori cardinali impegnati nella scelta del nuovo papa. “Aiutatevi, smettetela di giocare alla Chiesa e fate veramente Chiesa”.

Tanto per cominciare pongo un’atroce domanda in concomitanza con l’apertura del conclave: siamo sicuri che i signori cardinali (già il fatto di chiamarli così, come era solito fare papa Benedetto XVI, la dice lunga…) siano legittimati a prendere questa decisione? Rappresentano la Chiesa in tutte le sue componenti o rappresentano loro stessi? Da dove viene loro l’autorità per governare la Chiesa? Non si tratta di democrazia ma quanto meno di sano rispetto per la gerarchia. Li vedo come una istituzione a latere, a metà strada fra l’episcopato e la curia vaticana, un mix di pastoralità e burocrazia, un compromesso fra il passato doroteo e il presente populista.

Tutto ciò a prescindere dal valore individuale dei cardinali e dal loro carisma personale. Papa Francesco ha tentato di ovviare alle carenze del collegio cardinalizio allargandolo alle realtà ed esperienze sparse nel mondo, ma purtroppo credo che il difetto stia nel manico, vale a dire nella mancanza di collegamento “evangelico” tra popolo di Dio e alta gerarchia.

E allora? Se è vero, come ho sempre pensato, che gli schemi mondani, anche i migliori, non si adattano alla Chiesa e che quindi proprio nella mancanza di equilibri socio-politici consista la presenza dello Spirito Santo che prescinde da essi, tuttavia non si può pascere il gregge consegnandolo ai salariati dell’allevatore.

Perché, rimanendo al discorso delle procedure di elezione del papa, non incaricare della scelta almeno un collegio cardinalizio integrato con i rappresentanti delle conferenze episcopali e delle più importanti realtà clericali e laicali operanti nella Chiesa? Potrebbe essere un passo avanti in linea con le auspicabili riforme strutturali su cui papa Francesco ha segnato il passo.

Il nome, ovviamente, ancora manca. Ma l’identikit del nuovo Papa comincia a delinearsi. E non nelle previsioni dei mass media, quanto proprio nelle riunioni dei cardinali. Oggi la decima Congregazione generale, quella del mattino (ce n’è stata poi anche una pomeridiana), ne ha fornito una versione aggiornata e puntuale. «Una figura che deve essere presente, vicina, capace di fare da ponte e guida, di favorire l’accesso alla comunione a un’umanità disorientata e segnata dalla crisi dell’ordine mondiale. Un pastore vicino alla vita concreta delle persone».

Così si è espresso il direttore della Sala Stampa Matteo Bruni, facendo il report dei lavori. Allo stesso tempo, ha aggiunto, «si è sottolineata la natura missionaria della Chiesa: una Chiesa che non si deve ripiegare su sé stessa, ma accompagnare ogni uomo e ogni donna verso l’esperienza viva del mistero di Dio». E non è stata nascosta neanche una preoccupazione per le divisioni all’interno del corpo ecclesiale. Tutte notazioni che danno il senso di marcia prevalente del dibattito in corso tra i cardinali, elettori e non, dato che a queste riunioni pre-Conclave partecipano anche gli ultraottantenni. (da quotidiano “Avvenire” – Mimmo Muolo)

Ai bla-bla mediatici fa riscontro la scoperta dell’acqua calda cardinalizia: se non si ha il coraggio dell’autocritica non si va da nessuna parte. I cardinali durante il conclave non possono avere rapporti col mondo esterno: non vorrei che paradossalmente fosse un segno non tanto di indipendenza dalle logiche mondane, ma di astrattezza, tradizionalismo, conservazione e clericalismo. D’altra parte, da un gruppo sostanzialmente autoreferenziale non si può pretendere una rivoluzione evangelica. Bergoglio ha supplito a queste carenze con una spinta personale eccezionale, facendoci dimenticare le magagne istituzionali e le limitatezze pastorali buttando tutto in cavalleria evangelica. Ha messo tutto sul piano del Vangelo e non è poca cosa. Adesso, suo malgrado, ha passato il testimone ad un collegio cardinalizio, delineato un tantino a sua misura. Il Vangelo è sempre lì che aspetta.

Tutti parlano di continuità, io parlerei di sana discontinuità, nella speranza che quel po’ di rivoluzione avviata dal carismatico papa Francesco possa diventare un trampolino di lancio per far sempre più coincidere la Chiesa istituzione con la Chiesa comunità. Per riprendere il discorso da dove sono partito, in fin dei conti il nocciolo della questione è questo: come può un organismo prettamente istituzionale come il collegio cardinalizio occuparsi autorevolmente e proficuamente della comunità? Sarebbe come pretendere che l’amministratore di condominio si occupasse delle questioni interne delle famiglie dei condomini e dei rapporti inter-famigliari.

 

Il mercato del lavoro secondo Pirandello

La situazione del lavoro dipendente nel nostro Paese è molto discussa: le versioni sono molto contrastanti al limite del “così è se vi pare” di Luigi Pirandello. Non mi sento in grado di entrare in questa importantissima materia e mi voglio soffermare soltanto sull’aspetto che mi sembra il più clamorosamente distorsivo e ingiusto: manca cioè un salario minimo per i lavoratori dipendenti, in mancanza del quale si consentono remunerazioni a dir poco inique.

Molti contratti di lavoro sfuggono sostanzialmente ad un serio vaglio sindacale e alla contrattazione collettiva, giustificati da un sistema di appalti fuori da regole quanto meno razionali e dalla debolezza contrattuale di soggetti disposti ad accettare condizioni molto sfavorevoli pur di avere un posto di lavoro (un ricatto bello e buono): nella jungla retributiva c’è posto per stipendi da fame per milioni di lavoratori peraltro impiegati in settori delicati come ad esempio i servizi alla persona.

Il governo rilancia la palla ai sindacati non volendosi intromettere nei rapporti di lavoro e facendo finta di non capire che la sindacalizzazione del mercato lascia scoperte ampie fasce di lavoratori non iscritti al sindacato o iscritti a qualche sindacato di comodo. Ai datori di lavoro, pubblici o privati, tutto sommato va bene così, anche se alla fine il sistema finisce col danneggiare qualitativamente gli operatori e gli utenti dei servizi e i vantaggi microeconomici ritornano a galla come danni macroeconomici.

La fissazione di un minimo salariale di cui si parla da diverso tempo non trova sbocchi legislativi. Dovrebbe essere una delle battaglie identitarie della sinistra, che su di essa dovrebbe concentrare i propri sforzi ed avviare la mobilitazione di cui è ancora capace. Anche il sindacato dovrebbe uscire dalle sue tentazioni corporative per dare assoluta priorità a questi lavoratori senza difesa e senza autonoma capacità di lotta (uso volutamente un termine forse anacronistico che però rende l’idea).

Non vedo a livello parlamentare uno sforzo pressante dei partiti di sinistra, qualcuno è addirittura scettico su un intervento che giudica di stampo burocraticamente pseudo-comunista. Mentre la politica si arrovella nelle pozzanghere ideologiche, mentre i sindacati gridano ma non agiscono fino in fondo, preferendo accontentare le loro basi a livello settoriale, mentre gli esperti litigano sul significato dei dati emergenti dal mercato del lavoro, troppe persone sono costrette come si suol dire a “berla da bótte”. Viaggiano remunerazioni orarie ridicole: e pensare che l’Italia dovrebbe essere una repubblica democratica fondata sul lavoro. Non voglio fare il demagogo, ma forse in parte (e non solo per la mancanza di un salario minimo) è fondata sullo sfruttamento del lavoro.

Se su diversi aspetti del mercato del lavoro si può tentare di spaccare il cappello in quattro per negare l’evidenza, rimanendo nelle metafore pirandelliana, istituendo il salario minimo si passerebbe per la politica dal “così è se vi pare” di subdola copertura al “berretto a sonagli” di pubblico scorno.

 

 

La realpolitik della più tremenda delle vendette

I Patagarri hanno gridato Palestina libera sul palco del concerto del Primo maggio e le polemiche non si sono placate, anzi stanno man mano diventando sempre più forti e sono arrivate anche in parlamento. I fatti sono questi, ospiti del palco di Piazza San Giovanni in Laterano, la band protagonista dell’ultima edizione di X Factor oltre a cantare l’ultimo singolo I sogni e il loro cavallo di battaglia, Caravan, hanno anche deciso di usare una canzone popolare ebraica, Hāvā Nāgīlā, ribaltandola e usandola per manifestare la loro vicinanza al popolo palestinese: “Quando abbiamo scoperto la storia di questo brano, che risale al 1917 e che è legata alla legittimazione delle prime comunità ebraiche in Palestina, abbiamo capito che l’unico modo per suonarlo oggi era accompagnarlo con un messaggio chiaro: Palestina libera” ha detto la band all’AGI.

Eppure questa scelta ha scatenato le critiche della comunità ebraica di Roma che nella persona del Presidente Victor Fadlun che ha dichiarato: “Appropriarsi della nostra cultura, delle melodie a noi più care, per invocare la nostra distruzione, è ignobile”, aggiungendo “Ascoltare una nostra canzone dal palco del Primo Maggio in diretta tv, culminante nel grido ‘Palestina Libera!’, lo slogan delle piazze che invocano la cancellazione di Israele, è un insulto e una violenza inaccettabile”. Fadlun, quindi, unisce il grido Palestina Libera, che esprime vicinanza al popolo palestinese, a un significato nascosto, sottintendendo che quel grido voglia significare la voglia di distruggere Israele, cosa mai detta dalla band. (fanpage.it)

Le reazioni scandalizzate sono state molte. Io personalmente non mi scandalizzo per l’intervento dei Patagarri, ma per il fatto che Italia, Europa e Usa non condannino apertamente la incredibile e infinita rappresaglia israeliana che sta cancellando una popolazione dalla faccia della sua terra. Oltre tutto lo Stato di Israele è un nostro alleato e noi ci rifiutiamo ipocritamente di prendere le distanze dal suo governo e dal suo premier nei cui confronti esiste un mandato di cattura da parte della Corte dell’Aia per il reato di genocidio.

Questo è lo scandalo! Provo sdegno e vergogna: la più bieca delle realpolitik sta rassegnandosi al massacro di una popolazione giustificandolo con una “vendetta” di proporzioni catastrofiche verso un pur gravissimo e folle atto terroristico.

Un criminale nostro alleato gira il mondo, viene ricevuto con tutti gli onori dal presidente americano e insieme vaneggiano di cancellare la striscia di Gaza per farne un resort di lusso.

A proposito dei rapporti con Donald Trump, Giorgia Meloni dice di avere con il presidente americano un rapporto non succube: «Noi siamo determinati a far valere i nostri interessi, nel solco della tradizionale amicizia che ci lega agli USA, con lealtà ma senza subalternità».

Accettare senza battere ciglio l’ignobile connubio Trump-Netanyahu, reggere il moccolo agli accordi fra questi patentati delinquenti, rappresentano, quanto meno, un inaccettabile atteggiamento omertoso. Ma c’è di più, molto di più. Non abbiamo il coraggio di esprimere una politica degna di tale nome verso il problema palestinese, la madre di tutti i problemi riguardanti il medio oriente e non solo.

L’83% degli aiuti alimentari necessari non arriva a Gaza, rispetto al 34% del 2023. Questa riduzione significa che le persone nella Striscia sono passate da una media di due pasti al giorno a un solo pasto a giorni alterni. Si stima che entro la fine dell’anno circa 50.000 bambini di età compresa tra 6 mesi e 5 anni necessiteranno urgentemente di cure per la malnutrizione.

Nuovi dati hanno rivelato l’entità dell’ostruzione degli aiuti e il conseguente drastico calo dei rifornimenti che entrano a Gaza. Ciò sta provocando un disastro umanitario, con l’intera popolazione della Striscia che affronta fame e malattie e quasi mezzo milione di persone a rischio di morire di fame.

Mentre gli attacchi militari israeliani si intensificano, per quasi un anno è stato sistematicamente bloccato l’ingresso di cibo salvavita, medicine, forniture mediche, carburante e tende nella Striscia. (Save the Children)

La mia coscienza si ribella, vomito nell’ampia scollatura di un governo italiano che sta superando ogni limite di decenza. Non è assolutamente vero che la politica estera italiana sia sempre stata così imbelle: è un falso storico, che le opportunistiche semplificazioni mediatiche ci propinano ad usum Meloni.

 

 

 

Evitare la conchiavata al popolo di Dio

L’imminente celebrazione del conclave, anziché indurmi a partecipare alla stucchevole gara previsionale sul nuovo papa, mi consiglia di tornare su un aspetto della vita della Chiesa, vale a dire il “papacentrismo” cattolico. Ritorno sull’argomento a costo di ripetermi.

Come già scritto, la morte di papa Francesco ha inevitabilmente aperto un certo petulante e purtroppo fuorviante chiacchiericcio sul futuro conclave anziché creare l’occasione per una forte presa di coscienza critica sulla situazione ecclesiale in tutti i suoi aspetti. Non bastano le pur importanti “congregazioni” di preparazione al conclave: restano episodi verticistici una tantum, che servono soltanto a salvare il salvabile. Bergoglio fu sostanzialmente scelto per togliere la Chiesa dall’autentico “casino” degli scandali finanziari e della pedofilia; il suo successore potrebbe rispondere all’esigenza di riportare in chiesa il presunto popolo di Dio che gira sfaccendato per le strade del mondo. Obiettivi minimali e soprattutto volti a chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati.

Da una parte è scattata come una molla la sacrosanta ammirazione per il papato uscente tutto da scoprire, dall’altra la gossipara previsione in chiave politica del dopo Bergoglio, fino ad arrivare al toto-conclave imbastito sulle fazioni cardinalizie in campo. Il tutto rischia di rientrare in un battage mediatico esterno e nella solita impenetrabile liturgia gerarco-clericale all’interno. Occorre perciò sforzarsi di trasformare questo passaggio vitale per la Chiesa in un momento di autocritica e di responsabilizzazione di tutto il Popolo di Dio.

Il limite del papato bergogliano penso sia stato proprio questo: non avere favorito una crescita qualitativa dei cattolici rendendoli partecipi della vita della Chiesa, ma limitandosi (si fa per dire) alla loro sensibilizzazione evangelica. Papa Francesco ha svolto un meraviglioso lavoro forse però solo propedeutico ad un’effettiva e migliore vita ecclesiale.

Così come in campo politico la mancanza di partecipazione e di formazione di una adeguata classe dirigente vengono risolte col leaderismo spinto (peraltro spesso costruito a tavolino), anche la Chiesa tende a semplificare i processi decisionali e gestionali pompando una sorta di “papato tuttofare” a copertura degli andazzi curiali e clericali consolidati nel tempo.

Sarebbe quindi più che auspicabile un superamento (almeno in parte) della visione e della impostazione unilaterali e verticistiche sintetizzabili nel concetto di “papacentrismo”: la Chiesa Cattolica è una comunità ed al suo interno esistono carismi (servizi) fra i quali c’è anche quello del Vescovo di Roma. A tutti i livelli, la Chiesa deve esprimere, all’interno e all’esterno, la piena e totale adesione allo stile evangelico, liberata dalle incrostazioni della tradizione e dai lacci dell’esercizio del potere. Quindi la procedura della scelta e l’impostazione dell’alta funzione papale dovrebbero essere rivisti sostanzialmente e formalmente in un bagno di partecipazione e condivisione coinvolgente: bisognerebbe partire dall’assoluto primato della dimensione  pastorale rispetto a quella istituzionale; al centro dello stile ecclesiale si dovrebbe porre la collegialità episcopale; la vita dell’istituzione e la stessa pastorale andrebbero sclericalizzate, liberate dall’affarismo, ridotte all’essenziale in senso economico ed organizzativo e subordinate alle esigenze evangeliche; occorrerebbe puntare al forte coinvolgimento del laicato ed alla imprescindibile valorizzazione della presenza femminile. Molto (?) è stato fatto in questi dodici anni, ma molto resta ancora da fare.

Non limitiamoci quindi a pregare per il nuovo papa. A ben pensarci tutte le preghiere ufficiali della Chiesa, dalla liturgia delle ore alle celebrazioni sacramentali, dalle assemblee oranti di vario genere alle preghiere dei fedeli delle messe, tendono a buttare su Dio e sullo Spirito Santo i problemi della Chiesa e del mondo come se i cattolici non dovessero aiutarsi affinché il cielo li aiuti.

Nel caso del conclave varrebbe la pena intorno ad esso riflettere su uno stile ecclesiale diverso e coinvolgente. Non vedo questo atteggiamento, me ne rammarico e spero vivamente di sbagliarmi e che il nuovo papa faccia un po’ meno il papa e un po’ più lo stimolatore dei cattolici più o meno addormentati.

 

La benzina della guerra sul fuoco dell’odio

L’esercito israeliano lotta contro il fuoco degli incendi boschivi, accanto ai vigili del fuoco. E il ministro della Difesa, Israel Katz, ha dichiarato l’emergenza nazionale. Complici le temperature elevate e la siccità, il Paese è nella morsa delle fiamme. Nel giorno in cui si celebrava la memoria dei caduti nelle guerre, quasi tutti gli eventi sono stati cancellati a Gerusalemme e a Tel Aviv. Saltato anche il raduno in piazza degli ostaggi organizzato dal Forum dei familiari. Annullate tutte le manifestazioni in programma per il 1° maggio, Giorno dell’Indipendenza. Evacuate comunità a una trentina di chilometri da Gerusalemme, almeno 7mila gli sfollati. Il fumo nero ha interrotto l’autostrada 1, che collega Tel Aviv a Gerusalemme. Il premier Benjamin Netanyahu, in un video dal suo ufficio, ha rincarato l’allarme: «Il vento da ovest può spingere le fiamme facilmente verso la periferia di Gerusalemme e anche verso la città stessa». Chiesto l’aiuto internazionale a Italia, Cipro, Grecia, Croazia e Bulgaria. Dall’Italia sono partiti due Canadair. Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha raccomandato a Tel Aviv di chiedere a Bruxelles che sia attivato il meccanismo di protezione civile dell’Unione Europea.

E non è solo un sospetto che dietro il fuoco, ad alimentarlo, ci sia la mano di Hamas. Nelle stesse ore in cui sono divampati i primi roghi sulle colline di Gerusalemme, in almeno cinque focolai, su Telegram è spuntato un messaggio del gruppo terrorista palestinese che incitava a «bruciare tutto: boschi, foreste e case dei coloni… Gaza attende la vendetta dei liberi». Dalla Cisgiordania, sempre su Telegram, Jenin News Network ha esortato a «bruciare i boschi vicino agli insediamenti»: «La benzina e una scintilla possono trasformare un’entità in un inferno di fuoco. Gli insediamenti e le loro foreste sono il tuo obiettivo». (da “Avvenire” – Anna Maria Brogi)

Come volevasi dimostrare: la guerra, oltre che creare morte e distruzione, incendia gli animi, dai quali si scatena l’odio incontenibile, che a sua volta crea disastri irreparabili e il cerchio vizioso non si chiude mai. Non serve cercare la prima gallina che ha fatto l’uovo, perché le uova si moltiplicano e il pollaio diventa comunque un inferno.

Presumo che Israele darà la colpa delle fiamme, che lo stanno pericolosamente devastando, alle follie terroristiche di Hamas: probabilmente non si saprà mai l’origine di questi incendi. Resta la triste realtà di un assetto bellico che non lascia scampo a vincitori e vinti.

O si ha il coraggio di interrompere la spirale di odio che la giustifica (?) altrimenti la guerra non finirà mai. Le vittorie saranno quelle di Pirro e le sconfitte quelle che non insegnano niente.

Quando papa Francesco insisteva sul concetto devastante della guerra sembrava un uomo fuori dalla realtà, un pacifista assurdo, un seminatore di utopie. Ci accorgeremo sempre più che era e che rimane l’unico realista: il Vangelo intima l’amore per i nemici (porgere l’altra guancia!). Sembra una virtù impossibile da praticare mentre invece è una necessità assoluta di cui prendere doverosamente e coraggiosamente atto.

 

La stoltezza artificiale

Siamo tutti politicamente coinvolti, che lo vogliamo oppure no, in una forbice; da una parte  la situazione internazionale tale da far tremare le vene ai polsi, che Mattarella ha ben sintetizzato nella democrazia senza popolo con le autocrazie alle porte e con il sistema capitalistico in debolezza istituzionale colmata col ricorso al potere economico vestito alla muskiana; dall’altra parte la situazione italiana con una luna di miele meloniana in rapido esaurimento ed un 2025 in cui presumibilmente esploderà la crisi nel mondo del lavoro a causa dei cambiamenti epocali sgovernati (transizione ecologica, intelligenza artificiale, concorrenza spietata da parte cinese, ridisegnamento dei rapporti economici con gli Usa).

In mezzo a questa autentica bufera cosa combinerà il governo italiano? La domanda è questa e non tanto quella riguardante le scorribande dialettiche di una premier che abbaia alla luna, terrorizzata da una opposizione che non c’è (forse preoccupa proprio perché non c’è e chissà dov’è…), dalla paura dei fantasmi del passato (leggi Romano Prodi, al quale basta brandire un libro-intervista per sconquassare la psiche meloniana), dalla preoccupazione della tenuta di una maggioranza sempre più irrequieta e insofferente (la Lega rema contro e Forza Italia tace, ma non acconsente), dalla prospettiva di un anno sindacale piuttosto caldo (Maurizio Landini comincia a diventare un vero e proprio incubo).

Non sono un esperto cinofilo, ma un amico, che se ne intende, mi ha spiegato tempo fa che i cani non abbaiano per loro aggressività congenita ma per paura, da qui il famoso detto “cane che abbaia non morde”. Ed allora ecco il perché di un comportamento di Giorgia Meloni così sgangherato sul piano stilistico e del rispetto verso chiunque azzardi anche sommessamente una qualche critica. Come detto quindi non è importante capire la pescivendola romana, ma la sua nullità a livello nazionale ed internazionale. Per quanto tempo potrà durare questo falso potere costruito su un ossessionante immagine mediatica e su uno snervante cerchiobottismo?

Il 2025 potrebbe essere l’anno in cui si avvera l’esclamazione “Giorgia Meloni è nuda!” (con tanto di libero adattamento della fiaba culminante appunto nell’urlo “il re è nudo”).

Il tutto prende origine da una fiaba scritta nel 1837, dal poeta danese Hans Christian Andersen, che trae spunto da una novella spagnola, scritta nel tredicesimo secolo. Narra di un imperatore vanitoso, dedito solo, alla cura del suo aspetto esteriore. Alcuni commercianti giunti in città fanno trapelare, ad arte, di essere abili tessitori, di avere a disposizione un tessuto sottile, leggero, invisibile solo agli stolti e agli indegni. I cortigiani, inviati dal re a palazzo, non riescono a vederlo. Ma come succede spesso, per non essere giudicati male, decantano la magnificenza del tessuto. L’imperatore, convinto e felice, si fa cucire dagli abili tessitori un abito. Quando gli viene consegnato, però, il Re si rende conto di non essere neanche lui in grado di vederlo, come i suoi cortigiani prima di lui, decide di fingere, di mostrarsi estasiato per il lavoro dei tessitori. La decisione quindi è presa, con il suo nuovo vestito sfila per le vie della città, di fronte a una folla di cittadini che lodano a gran voce l’eleganza del sovrano. L’incantesimo, però, è spezzato da un innocente bambino che, con gli occhi sgranati, urla a gran voce: “ma il Re è nudo, non ha nessun abito addosso”. Da questa frase deriva il famoso detto “il Re è nudo!”. (da Wikipedia)

Non si può continuare una vita a galleggiare sopra un mare di problemi, prima o poi la barca si rovescia con disastrosi naufragi. La risposta polemica è pronta e viene sistematicamente adottata: chi fa questi ragionamenti è un gufo, è l’amico del giaguaro…

Se guardare la realtà vuol dire gufare, allora sono in buona compagnia, dal momento che il Capo dello Stato, fa da tempo ragionamenti analoghi anche se in modo morbido e, a volte, indiretto.

“Tante famiglie non reggono l’aumento del costo della vita. Salari insufficienti sono una grande questione per l’Italia”. È l’allarme lanciato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, durante la sua visita a Latina all’azienda BSP Pharmaceuticals S.p.a. in occasione della celebrazione della Festa del lavoro. Il Capo dello Stato entra nel merito delle “questioni salariali” sottolineando quanto queste siano “fondamentali per la riduzione delle disuguaglianze, per un equo godimento dei frutti offerti dall’innovazione, dal progresso”.

 “Si registrano segnali incoraggianti sui livelli di occupazione”, ricorda Mattarella, sottolineando però che “permangono, d’altro lato, aspetti di preoccupazione sui livelli salariali, come segnalano i dati statistici e anche l’ultimo Rapporto mondiale 2024-2025 dell’Organizzazione internazionale del lavoro”. Salari insufficienti che “incidono anche sul preoccupante calo demografico”, ricorda il Capo dello Stato, “perché i giovani incontrano difficoltà a progettare con solidità il proprio futuro. Resta, inoltre, alto il numero di giovani, con preparazione anche di alta qualificazione, spinti all’emigrazione. Questi fenomeni impoveriscono il nostro capitale umano”. (da “Il Fatto Quotidiano”)

E poi, parliamoci chiaro, come si può fare a non vedere la paradossale nullità che l’Italia sta mettendo in campo e che si accompagna alla carenza di altri protagonisti all’altezza della situazione. In fin dei conti è questa la “fortuna” di Giorgia Meloni. Se ci fossero ancora un’Angela Merkel a Bruxelles e un Nicolas Sarkozy a Parigi, basterebbe un loro sorrisetto ironico per farla sprofondare nel ridicolo, come successe a Silvio Berlusconi.