Tra milazzismo e spagnolismo

Nel gergo politico italiano la convergenza di due schieramenti politici diversi (destra e sinistra) per sconfiggere quello di centro si definisce milazzismo, termine che prende il nome dalla vicenda politica siciliana del 1958 in cui venne eletto presidente della Regione siciliana, con in voti dei partiti di destra e di sinistra, il democristiano Silvio Milazzo contro il candidato ufficiale del suo partito.

Questo discorso, fatte le debite differenze, è tornato di moda proprio in Sicilia nelle recenti elezioni amministrative di Gela e Bagheria, laddove è andato in scena un inedito e strano connubio tra Forza Italia e Partito democratico in base ad una profonda antipatia verso la Lega e il M5S. Qualcuno si è affrettato a definirlo un interessante laboratorio politico: mi sembra un atteggiamento piuttosto frettoloso e inconsistente, anche se non mi scandalizzo se a livello locale, ancor più a livello siciliano, possono succedere convergenze ben al di fuori degli schemi. Di qui a ipotizzare un patto del Nazareno bis ci passa molta strada.

Se la Sicilia canta stonato per i partiti dell’attuale governo pure la Spagna non scherza: il quasi certo patto della Moncloa tra socialisti e Podemos sembra dare un segnale interessante agli omologhi (?) democratici e pentastellati italiani. Di Maio si è affrettato a scongiurare il pericolo rivolgendosi con la solita insolenza al Pd: «Voi redimetevi, io sto con la Lega». Contento lui…

Mi sembra sia meglio lasciar perdere queste manipolazioni genetico-politiche per andare al sodo. Dalle urne siciliane il governo italiano esce sconfitto o almeno assai frenato nelle sue due componenti: i grillini aggiungono batosta a batosta, i leghisti ridimensionano i loro sogni di gloria. Dalle elezioni spagnole esce ringalluzzita la sinistra del partito socialista che viene spinta ad alleanze con il partito iberico antisistema: la relativa rivincita del sistema costretto tuttavia a scendere a patti con l’antisistema. Vacci a capire qualcosa…

Sullo sfondo si profilano le elezioni europee che dovrebbero affrancare le forze politiche dai tatticismi e dalle operazioni di piccolo cabotaggio per costringerli a pensare e programmare in grande: temo purtroppo che non sarà così. L’Europa dovrebbe spingerci ad uscire dal nostro particolare, mentre c’è il pericolo che le prossime elezioni europee diventino solo un’occasione per testare le misere strategie nazionali. Lega e cinquestelle sono alla spasmodica ricerca di penose alleanze continentali: sembra uno scherzo, ma vanno a rovistare nella pattumiera europea alla famelica caccia di voti e di sponde. Se continuano così si troveranno sempre più costretti a convivere fra di loro tra continui litigi nell’impossibilità di uscire dal loro splendido isolamento nazionale ed europeo.

Per il Pd e per Forza Italia potrebbe e dovrebbe essere un banco di prova non nel senso di strani connubi tra di loro, ma per trovare il respiro giusto per una corsa verso un’Europa finalmente avviata al federalismo nella riforma delle sue istituzioni e nelle politiche solidali di crescita e sviluppo. Invece il partito popolare europeo è tutto intento a delineare accordi con i sovranisti (in Italia leggi accordi fra Forza Italia e Lega). Resta il Pd. Qualcuno ha già cominciato a gufare contro l’inglobamento nelle liste democratiche del movimento messo in atto da Carlo Calenda: sarebbe in controtendenza rispetto alla riscossa identitaria del partito socialista spagnolo. Non mi interessano queste alchimie pseudo-ideologiche. Vorrei solo capire chi è d’accordo su un cambiamento di passo europeo in avanti verso la federazione di Stati progettata a Ventotene e chi invece vuole fare un salto indietro nazionalistico o comunque giochicchiare contro l’Europa.

La spagnola sa governar così

Sono molto difficili, anche se invitanti e interessanti, i parallelismi politici fra i diversi Stati: curiosare in casa spagnola per capire cosa potrebbe succedere in Italia è un esercizio piuttosto infantile, ma stimolante. Ci provo, più per teorico divertimento che per triste realismo.

La sinistra non è spacciata e tramontata: alle elezioni i socialisti spagnoli sono tornati a vincere conquistando una maggioranza relativa significativa, un 28%, che non dovrebbe essere un traguardo prospettico proibitivo per il partito democratico italiano.

La destra, problematicamente non coalizzata, esce malconcia e non è in grado di fornire una possibilità di governo: pur a peso invertito delle diverse componenti (relativamente bassa l’incidenza estremistica in Spagna, decisamente alta la consistenza leghista in Italia), anche nel nostro Paese il centro-destra non è in grado di rappresentare un blocco coeso e compatto capace di esprimere un governo credibile.

La componente protestataria (Unidos Podemos) esiste anche in Spagna, ma con due differenze importanti rispetto a quella italiana (M5S): è più debole sul piano del consenso popolare ed è decisamente più di sinistra a livello politico.

Le formazioni partitiche indipendentiste ed autonomiste, presenti in Spagna, non trovano riscontro significativo in Italia: la Lega non ha più questi connotati separatisti ed ha spostato le pulsioni originarie sul terreno nazionalista e sovranista.

Fatti questi arditi collegamenti, quale può essere un’indicazione applicabile al nostro schieramento politico? Quasi sicuramente, dopo queste elezioni politiche, in Spagna il risorto Pedro Sanchez, per occupare il palazzo della Moncloa, dovrà allearsi con Unidos Podemos e raccattare qualche appoggio dagli indipendentisti più moderati ed europeisti. Questa prospettiva iberica sembra possibile in quanto i Podemos sono appena la metà dei socialisti e il loro populismo è coniugabile a sinistra. Nella geografia politica del nostro Paese una simile eventualità è alquanto più difficile: i grillini dovrebbero fare un bagno dimagrante e purificante, mentre il Pd dovrebbe ingrassare assai e trovare una dirigenza ringalluzzita e ringalluzzente.

Faccio molta fatica a intravedere un’alleanza seria tra PD e M5S, che non ripeta gli attuali grossolani equivoci contrattualistici e non ci costringa ad un infinito tormentone governativo. Forse sono troppo legato ai valori della sinistra per accettare di coniugarli con una generica smania di cambiamento. Il bisogno di cambiamento è innegabile, ma trovarne una versione convincente nel firmamento pentastellato è veramente impresa ardua. E poi elaborare strategie politiche inchiodandosi alle tattiche contingenti è molto pericoloso. È pur vero che la politica è l’arte del possibile, ma più il possibile si fa difficile e più occorrono artisti in grado di fare il miracolo.

 

Dalle cravatte morotee alle farfalle dimaiane

Il 18 febbraio 1972 ci fu la dura protesta di Carlo Donat Cattin contro la formazione del primo governo Andreotti, un monocolore Dc che poneva fine all’alleanza di centro sinistra e riapriva alla collaborazione con il Partito Liberale. Confermato nel suo incarico di governo, egli si recò dal barbiere anziché salire al Quirinale per il giuramento. Il fatto ebbe una grande risonanza mediatica. Donat-Cattin era reduce da una riunione avuta con gli amici di Forze nuove che lo avevano invitato a non rinunciare all’incarico di ministro del Lavoro. Egli chiese perciò ad Andreotti una dichiarazione che riconoscesse la funzione delle sinistre democristiane, per attenuare l’eccessiva caratterizzazione a destra del governo. Il testo di quella dichiarazione fu scritto a quattro mani da Donat-Cattin e Franco Evangelisti, sottosegretario plenipotenziario di Andreotti. Le cronache del tempo ricordano che su Donat-Cattin esercitarono non poche pressioni anche Moro, Forlani e De Mita. Dopo il pronunciamento di Andreotti vi fu l’annuncio che il mattino successivo Donat-Cattin avrebbe regolarmente giurato nelle mani del presidente Leone.

Durante i burrascosi lavori del Consiglio nazionale della DC che nel 1975 sostituì Amintore Fanfani alla segreteria con Benigno Zaccagnini, in piena bagarre Aldo Moro ebbe la geniale idea di assentarsi momentaneamente dal consesso surriscaldato per recarsi in via Condotti a comprare una cravatta. Con quella mossa riuscì a stemperare il clima e a completare un autentico capolavoro politico, sfiduciando Fanfani ma ricuperandolo nella nomina di Zaccagnini, il quale restituì credibilità popolare alla DC, iniziando un nuovo corso fatto di dialogo e di apertura a sinistra (Il male c’è, ma Benigno…, si diceva e si scriveva allora).

La sera del 23 aprile 2019 Matteo Salvini arriva a palazzo Chigi attorno alle 19.30 e la mette subito giù dura: il Salva-Roma non si fa, è rinviato. “Misura concordata con Di Maio?”, gli chiedono i cronisti: «Lo stralcio lo concordo con chi c’è. Con gli assenti è difficile concordare» risponde il vicepremier. Negli stessi istanti infatti Luigi Di Maio diserta i lavori del consiglio dei ministri, sta registrando un’intervista per «La 7» ed arriva a palazzo Chigi con mezz’ora abbondante di ritardo sull’avvio dei lavori, inizialmente convocati per le 18, poi slittati alle 19 ed infine iniziati solo alle 20. I suoi però si affrettano a far sapere che «per stralciare il Salva-Roma è necessario un voto del Consiglio dei ministri, che al momento non c’è ancora stato». Sia Salvini che Di Maio, in un botta e risposta a distanza, evocano la crisi di governo per poi negarla. Si litiga fuori e dentro il Cdm.

Donat Cattin va dal barbiere, Moro va a comprare una cravatta, Di Maio va a farsi intervistare in televisione: tutti tre compiono un gesto politicamente scorretto, molto eclatante sul piano istituzionale quello dell’allora ministro democristiano, molto umano e simpatico nel suo sgarbo partitico e correntizio quello di Moro, assai provocatorio quello del vicepremier che vuole così marcare la distanza dalla Lega di Salvini con cui sta vivendo un infinito contenzioso. Si potrebbe pensare che tutto rientri nelle strane ritualità della politica e forse è anche così.

C’è però una differenza colossale fra i tre episodi. Nel primo era in gioco una importante scelta di schieramento per la DC: fine del centro-sinistra e ripresa di collaborazione col partito liberale; nel secondo  si trattava di individuare una guida autorevole per il partito democristiano insidiato elettoralmente dai successi del Pci di Enrico Berlinguer; nel terzo scendiamo di livello e ci portiamo nella rissa personale fra due presunti leader, che difendono solo ed esclusivamente i loro adepti in disgrazia giudiziaria (leggi Siri e Raggi), all’interno di una gara celoduristica in vista delle elezioni europee.

A proposito di celodurismo di bossiana memoria, in questi giorni al senatur fischieranno le orecchie: il suo impavido successore ritorna sulle posizioni di “Roma-ladrona”, mentre il grillino vuole mostrare il suo “grillone” facendo il bullo in uno squallido andirivieni da palazzo Chigi.

Sarò un nostalgico, ma se questo è lo stile della seconda (quella di Bossi) o terza repubblica (quella di Salvini e Di Maio), come dir si voglia, mi prende un grande sconforto: la politica ridotta a rissa di cortile, dove i litigi servono solo a segnare il territorio, come fanno i gatti. Sento la puzza e mi viene quasi il vomito, vado su internet per rileggere la storia della prima repubblica e, manco a dirlo, mi si rimette a posto lo stomaco.

Solo, torturato, da tutti abbandonato

Non è certo la prima volta che succede, ciò non toglie che susciti un misto di rabbia e orrore la notizia di un anziano ritardato psichico, diventato bersaglio di aggressioni, rapine, insulti e minacce da parte di una banda di giovani che lo ha preso di mira: terrorizzato anche da queste violenze, viveva in assoluta solitudine in un’abitazione degradata, continuamente sottoposto ad atti di bullismo a suon di calci, pugni, spintoni e bastonate, fino ad arrivare al suo lungo ricovero in ospedale dove è stato sottoposto a due interventi chirurgici, ma non ce l’ha fatta ed è morto. Non è chiaro fino a che punto il decesso di questo pensionato sia da mettere in connessione diretta con i maltrattamenti subiti dai bulli che da tempo lo torturavano, arrivando a postare sui social i video che riprendevano le loro incursioni; certamente queste violenze continuate lo avranno prostrato fisicamente e psicologicamente: gli agenti di polizia intervenuti su segnalazione di alcuni vicini di casa, lo hanno trovato barricato e seduto su una sedia, in cattive condizioni di salute, non riusciva a muoversi, non mangiava da tempo, non voleva ricevere aiuto e si era lasciato andare.

Di fronte ad una simile agghiacciante vicenda, molto ben raccontata da Valeria D’Autilia su La stampa, ce n’è per tutti! Per questi giovani delinquenti senza precedenti penali o di devianza, che si divertivano a maltrattare un uomo solo, indifeso, isolato e portatore di handicap psichici e per le loro famiglie brillanti nella loro assenza educativa: ragazzi che frequentano la scuola e appartengono a famiglie non problematiche, quindi…

Ce n’è per l’intero paese in cui sono successi questi fatti, dove tutti conoscevano questo poveruomo. Sapevano dei suoi problemi e nessuno interveniva e tanto meno denunciava la situazione. Ce n’è per l’intera società vergognosamente assente nei suoi presidi territoriali, nelle sue strutture assistenziali, nella sua incapacità di individuare e intervenire in questi clamorosi casi di abbandono e di necessità. Ce n’è per la comunità cristiana che sarà pur presente a Manduria, in provincia di Taranto, ma incapace di attenzione e solidarietà verso gli ultimi.

Ce n’è per la politica locale e nazionale, impegnata a fare grandi discorsi sui massimi sistemi socio-economici e menefreghista nei confronti dei piccoli problemi quotidiani del vivere civile. Ce n’è per i social media che mettono in rete le brutture della società, facendone un terreno di paradossale divertimento e passatempo. Ce n’è per gli amministratori comunali e per gli operatori sociali del comune: possibile che nessuno si sia accorto ed abbia visto come viveva questa persona, in un edificio a piano terra, praticamente sulla strada, con vetri rotti e porta imbrattata, nell’abbandono, nella solitudine e nella paura.

Non so se commiserare di più questa vittima di una società malata o i protagonisti attivi e passivi della sua sofferta passione e morte. Forse, se lui potesse parlare, potrebbe parafrasare quanto Gesù disse alle donne che lungo il calvario piangevano sulle sue sofferenze: “Non piangete su di me, ma sulla società che sforna orribili comportamenti giovanili ed omertosi atteggiamenti pubblici e privati…”. L’unico gesto di pietà sembra essere stato quello dei poliziotti che gli hanno comprato acqua e biscotti, ma il loro generoso tentativo di assistenza non ha potuto sortire effetto. Troppo tardi!

 

 

Le ombre leghiste del perbenismo

Mentre Matteo Salvini è rigorosamente schierato, a furor di garantismo, contro l’impeachment verso il sottosegretario al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Armando Siri, e in pregiudiziale difesa del sottosegretario Giorgetti, il suo autorevole e storico collega di partito Roberto Maroni è molto più cauto e chiede chiarezza e spiegazioni soprattutto a Gian Carlo Giorgetti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, per una parallela vicenda piuttosto imbarazzante. Cosa sta succedendo in casa Lega?  Da una parte Siri è indagato per avere contrattato appoggi politici con Paolo Arata (esiste peraltro una certa confusione sulle intercettazioni telefoniche che chiamerebbero in causa Siri), il quale avrebbe scritto il programma sull’energia della Lega e che, secondo le inchieste in atto sarebbe il faccendiere di Vito Nicastri, imprenditore detto il “re dell’eolico” per il quale il p.m ha chiesto, in un processo davanti al Tribunale di Palermo, la condanna a 12 anni di reclusione per concorso in associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni. Dall’altra parte Giorgetti avrebbe assunto a livello ministeriale il figlio di Paolo Arata. Armando Siri peraltro ha patteggiato nel 2014 una condanna per bancarotta fraudolenta e quindi ha un brutto precedente nella sua fedina penale.

Di fronte a questa vicenda piuttosto ingarbugliata e imbarazzante Salvini sta resistendo agli attacchi del M5S, che vorrebbe la testa, politicamente parlando, di Armando Siri. Sembrerebbe molto più delicata e compromettente la questione di Giorgetti che avrebbe ingaggiato il figlio di Arata, Federico: su questa vicenda i pentastellati sono molto cauti, forse perché non vogliono affondare i colpi più di tanto, mettendo a repentaglio la tenuta del governo con la chiamata in causa del secondo più autorevole esponente leghista. Roberto Maroni, che affronta queste problematiche con sorprendente distacco (sembra infatti parlare non del suo partito, ma di qualcosa d’altro), ritiene fondamentale chiarire il comportamento di Giorgetti, uomo di primissimo piano nella Lega e nel gabinetto Conte (di lui si parlò con una certa insistenza un anno fa durante le trattative per la formazione del governo, quale autorevole premier di compromesso politico). Al di là della complessa vertenza emerge quindi un dato importante: un esponente leghista di primo piano come Roberto Maroni, impegnato ad alto livello Istituzionale, sembra prendere sostanzialmente le distanze dal suo partito atteggiandosi a cauto osservatore degli sviluppi della situazione.

A Vittorio Veneto, città in cui è stato celebrato, con notevole e toccante enfasi, il 74 esimo anniversario della Liberazione con la partecipazione del Presidente della Repubblica, era schierato in prima fila ed è intervenuto prendendo la parola il presidente della regione Veneto Luca Zaia, uomo di punta della Lega in tacito ma aperto dissenso con Matteo Salvini, recalcitrante ministro nei confronti delle celebrazioni resistenziali. I giornalisti presenti si sono ben guardati dal chiedere conto a lui di questo atteggiamento in chiaro dissenso con quello assunto dal capo del suo partito: forse non volevano turbare il clima unitario o forse non volevano disturbatori “i” manovratori. In un’intervista rilasciata il giorno precedente a “Fanpage.it” Luca Zaia aveva dato delle motivazioni risibili al suo obiettivo distinguo, tentando di salvare capra e cavoli, senza riuscirci.

Resta quindi il dato di fatto di una seconda autorevole presa di distanza rispetto alla linea barricadiera di Salvini: sembra che i leghisti delle istituzioni periferiche regionali abbiano un concetto molto più morbido e riguardoso. E allora viene spontaneo chiedersi: qual è la Lega? Quella delle sbracate posizioni salviniane o quella dell’aplomb istituzionale dei Maroni e degli Zaia? E magari, quale delle due può ritenersi più attendibile? Potrebbe essere il solito giochino tattico del tenere i piedi in due paia di scarpe, ma potrebbe essere anche il sintomo di una certa qual confusione di linea politica. Della serie: fin che si scherza può andare bene, ma quando si fa sul serio…

Le fogne a stadio aperto

Come noto, “la madre degli imbecilli è sempre incinta” e quindi non deve stupire più di tanto che una sessantina di ultrà della Lazio abbiano esposto a Milano in piazzale Loreto uno striscione inneggiante al Duce proprio alla vigilia della celebrazione della liberazione dal nazifascismo. Culturalmente parlando si tratta di una delle solite provocazioni fatte alla propria ignoranza e stupidità; politicamente siamo in presenza di puzzolenti carogne alla ricerca di fogne purtroppo pronte ad ospitarle direttamente o indirettamente; dal punto di vista sociale sembrano il misero sfogatoio di indistinte e generiche pulsioni rancorose; sul piano psicologico emerge una smania di protagonismo all’insegna della paradossale ritualità antistorica. Niente di nuovo, anche se non bisognerebbe fare l’abitudine a tali deleteri fenomeni.

L’aspetto inquietante è invece quello dell’infausto gemellaggio tra il tifo calcistico e la nostalgia fascista. Se ne intravedono i motivi nella violenza adottata come schema nei rapporti con gli avversari-nemici, nel culto del predominio fisico sovrapposto alla competizione sportiva, nello sport adottato come metafora di guerra sociale in campo e sugli spalti, nel fanatismo che accomuna tutte le possibili occasioni di esibizionismo. Oserei dire che il fenomeno degli ultrà del calcio è l’anticamera ideale per dare sfogo ai peggiori istinti giovanili e farne sfoggio: violenza politica, odio razziale, rivalsa sociale, protesta globale.

Mentre mio padre adottava lo stadio quale pulpito per le sue disincantate lezioni di umanità, troppi soggetti considerano il calcio gridato come un virgulto socio-economico da coltivare. Mi riferisco alle società calcistiche, le quali, anziché puntare alla socializzazione dell’evento calcistico nel senso della valorizzazione a livello di spettacolo e tempo libero, rimangono al palo del tifo mero sostenitore della “guerra” nell’arena-stadio. Penso ai media che gonfiano a dismisura l’evento sportivo innescando le micce della violenza e dell’intolleranza, salvo piangere coccodrillescamente sul calcio perduto. Penso a tutto un sistema ad incastro in cui si collocano gli ultrà: sono diventati la stucchevole colonna sonora di un film vietato ai minori, dove giganteggiano i mercenari, i manager, gli sponsor, gli scommettitori clandestini, etc. etc.

D’altra parte la società ha il calcio e lo sport che merita: il fascismo aveva bisogno di una cassa di risonanza per il regime, oggi abbiamo bisogno di un fenomeno di evasione di massa debordante nelle peggiori manifestazioni di gratuita violenza. Quando vedo queste masse, prevalentemente giovanili, scortate dalla polizia, mentre urlano come bestie feroci avviate ai recinti loro destinati, mi prende una grande tristezza e la voglia di oscurare il più bel gioco del mondo dal momento che il mondo non lo merita.

Il presidente del municipio genovese del Levante, a margine delle disgustose manifestazioni di follia fascista offerte dai tifosi laziali, ha pubblicato un post inneggiante al Duce: «È grazie a Mussolini se gli italiani hanno la tredicesima, non grazie ai sindacati». Mi permetto di rispondere a tono: «È grazie alla democrazia e alla sua forse eccessiva tolleranza se certi personaggi possono ancora esprimere simili idiozie e pubblicarle». Così come ho iniziato queste brevi considerazioni così le termino precipitosamente: “la madre degli imbecilli è sempre incinta”. A volte nel bagno e nel lavandino si avverte un fastidioso odore di fogna: è importante eliminarlo prima che si diffonda per casa. Dovrebbero bastare l’aceto bianco del buonsenso e il bicarbonato di sodio della democrazia.

La Resistenza in cantina

Nemmeno il 25 aprile riesce a dare un minimo di compattezza all’attuale governo e tutto sommato è un bene: tutto il mal non vien per nuocere. È brutto doverlo ammettere, ma nella maggioranza parlamentare che sta guidando il Paese si annidano alcuni importanti e ben identificabili germi antidemocratici e tipici dei regimi da cui ci siamo liberati (?) nell’aprile del 1945.

Il sovranismo non è forse l’anticamera o la cantina del nazionalismo di più vecchia data? Il populismo non è un dato comune e costante dei regimi autoritari e il fascismo in Italia non andò al potere proprio sfruttando il malcontento qualunquistico che serpeggiava nella gente e che non trovava sbocchi politici convincenti nelle forze democratiche? Lo strisciante esorcismo contro il fenomeno migratorio non è una moderna e camuffata espressione di razzismo?

Come la mettono con questi evidenti segni di nostalgia quanti, pur provenendo ideologicamente, culturalmente, socialmente e politicamente dall’antifascismo e dalla Resistenza, votano bellamente Lega e M5S, che dei suddetti agenti patogeni sono portatori più o meno sani? Non voglio esagerare, ma come si sentirà chi ha dato la propria vita per combattere il nazifascismo di fronte al tradimento più o meno consapevole di coloro che si lasciano incantare dai serpenti? Possibile che dopo quasi settantacinque anni le coscienze siano talmente obnubilate da far prendere le lucciole pentaleghiste per lanterne democratiche?

Anche le recenti scaramucce tra Leghisti e Pentastellati in vista delle celebrazioni della liberazione non sono affatto convincenti, lasciano il tempo che trovano, puzzano di strumentale lontano un miglio: non so se sia più eloquente la ritrosia salviniana all’ufficialità delle manifestazioni o la frettolosa e distratta adesione dimaiana alle stesse. Sono le due facce di una stessa medaglia che non ha nulla a che vedere con la nostra difficile e mai terminata storia di positiva affrancatura dal nazifascismo. Litighino pure anche sui presupposti della nostra democrazia, dove ci sta il più ci sta anche il meno.

Insisto nel chiedermi come possa votare Lega un anziano combattente partigiano o un suo erede in linea retta, come possa buttarsi nelle braccia grilline un socialista o un cattolico che legga la storia del nostro Paese, come si possa gettare nella latrina il bambino dell’antifascismo assieme all’acqua sporca della democrazia corrotta e imperfetta.

Urgono due drammatici esami di coscienza: da parte di quanti portano la gravissima responsabilità di avere, strada facendo, deviato dal solco resistenziale e costituzionale, dando magari per scontato il patrimonio ideale accumulato col sangue della lotta di liberazione e andando di fatto e con molta leggerezza in libera uscita rispetto al “fortino” democratico; da parte di coloro i quali stanno scherzando col fuoco pentaleghista magari per punire  quanti hanno sprecato la spinta ideale e tradito il bene comune per fornicare con gli affaristi e con gli opportunisti sempre in agguato.

Dopo la confessione delle proprie colpe, c’è la penitenza da fare. Propongo la rilettura meditata delle lettere dei condannati a morte della Resistenza. Se aspettiamo che questa ricetta ce la ordinino gli attuali stregoni e mediconi, patetici duellanti di fronte alle sacrosante celebrazioni della Liberazione, facciamo in tempo a perdere quel po’ di democrazia che ci resta e che dobbiamo difendere con le unghie e coi denti.

 

Raggi x Raggi x M5S

Nell’Italia del dopoguerra lo Stato ha salvato molte cose di pubblica (?) utilità: enti, aziende, personaggi, etc. etc. Oggi sarebbe la volta del comune di Roma sull’orlo di una crisi finanziaria, funzionale e politica. Non c’è verso di riportare ad una gestione accettabile la disastrata capitale.

Parto dall’esempio della raccolta dei rifiuti. Possibile che i cittadini romani non siano capaci di prepararli ed esporli in modo corretto? Possibile che non si riesca ad effettuarne la raccolta in modo sistematico? Possibile che non si possa programmarne lo smaltimento? Si fa abbastanza bene a Parma, perché non a Roma? Temo che la risposta  coinvolga troppi soggetti e il loro scarso impegno: manca evidentemente quel minimo senso civico nei cittadini che consenta di salvaguardare un minimo di pulizia e di decoro delle strade; manca la voglia di lavorare dei dipendenti pubblici e privati addetti alla raccolta; manca la capacità organizzativa per un servizio essenziale; manca la serietà e la qualità degli amministratori pubblici comunali e municipali nonché la professionalità dei dirigenti degli enti preposti a tale servizio. Una catena assurda di inefficienza e menefreghismo che si sta ripercuotendo sui conti e sull’immagine dell’Italia.

Non nutro antipatia personale verso la sindaca Raggi (mi ispira tenerezza), non sono prevenuto rispetto alla sua sindacatura (capisco le difficoltà), tuttavia ogni giorno nasce uno “scandaletto”, mentre la città, a detta della stessa sindaca, è fuori controllo e i cittadini, quando aprono la finestra, vedono cacca. E allora? Deve intervenire il governo con aiuti finanziari a sostegno di un comune in gravissime difficoltà? Se nel frattempo fossero state messe in atto tutte le procedure possibili e immaginabili per sanare la situazione, sarei possibilista. Il ragionamento non è tanto quello di Salvini: “O tutti o nessuno, in democrazia funziona così. Non ci sono Comuni di serie A e Comuni di serie B, Il tema è l’equità, Perché bisognerebbe favorire Roma?”. Rispunta in casa leghista lo storico e propagandistico “Roma ladrona”. Rischia di scaricarsi su Virginia Raggi l’ira salviniana e su Roma lo scontro politico incalzante fra leghisti e pentastellati: “Salvini chiede le mie dimissioni per coprire Siri. Se mi dà felpa da ministro, sgombero Casapound”.

Il ragionamento è: aiutati che il governo ti aiuta! L’amministrazione comunale romana non si aiuta e quindi non può pretendere l’aiuto dal governo. Lo stanziamento a favore della capitale ha tutta l’aria di un grazioso omaggio piuttosto che di un ragionato sostegno. Non si possono concedere fondi a scatola chiusa: si faccia una precisa ed approfondita indagine prima di decidere sul cosiddetto Salva-Roma. Tutti sanno come sia inutile o addirittura controproducente aiutare chi è sull’orlo del fallimento. Voglio sperare non sia il caso di Roma, ma lo appurino e poi decidano a ragion veduta.

Oltretutto sulla solidità del governo il vicepremier leghista rassicura: «No, no, abbiamo troppe cose da fare quindi figuriamoci se la Lega abbia voglia di far saltare tutto questo». Quindi nessuna strumentalizzazione contro i grillini e la loro irrinunciabile sindaca. Ho qualche serio dubbio, ma il rischio non è la crisi di governo provocata dal detonante comune di Roma, ma che si trovi una mediazione purchessia per continuare ad amministrare male la capitale e governare male l’Italia. Con tanto di placet degli elettori frastornati, becchi e bastonati.

L’autocaricatura governativa

Un predicatore e teologo statunitense, James Freeman Clarke, nel 1800 diceva: “Un politico guarda alle prossime elezioni; uno statista guarda alla prossima generazione. Un politico pensa al successo del suo partito; lo statista a quello del suo Paese”. Allo stupendo aforisma, che alcuni (giustamente) collegano al pensiero degasperiano, i partiti, protagonisti di questa stagione e sostenitori dell’attuale governo giallo-verde o pentaleghista come dir si voglia, hanno apportato una variante peggiorativa per la classe politica: anziché alle prossime elezioni, guardano ai sondaggi e su quelli impostano la loro lungimirante azione.

Se si passano rapidamente in rassegna i provvedimenti adottati o adottandi da Lega e M5S, si riscontrano misure che vanno dal demagogicamente emblematico al trucemente simbolico, prive di effetti concreti nel breve, medio e lungo termine. In campo economico sull’altare degli effettacci populistici del reddito di cittadinanza e del prepensionamento legalizzato si sacrificano sviluppo ed occupazione: mentre il portafoglio piange per l’andamento economico piatto e preoccupante, il governo fa il solletico alla gente inducendola alla risatina isterica.

Nel tanto chiacchierato e contrastato discorso sull’immigrazione ci si limita a usare il cotone emostatico della chiusura portuale, mentre l’emorragia prosegue con i suoi toni drammatici e inquietanti. Sul tema della sicurezza si sbandiera una illusionistica riforma della legittima difesa e ci si accontenta quindi di chiudere la stalla quando i buoi sono scappati.  Il discorso vale per la castrazione chimica per combattere le violenze sessuali.

L’enorme problema della fiscalità viene affrontato all’insegna della promessa della “flat tax”: paghiamo meno tasse alla faccia dell’evasione clamorosamente presente e del debito pubblico che ci sovrasta. Per i corrotti e corruttori basterà alzare il cartellino rosso di un daspo per eliminare la piaga che incide pesantemente sulle casse erariali. Per rimettere in moto l’economia ecco spuntare la bacchetta magica del decreto sblocca-cantieri: il giorno dopo partiranno i lavori e migliaia di persone troveranno lavoro.

Forse sto esagerando, ma penso risulti chiaro il concetto da cui sono partito: il governo pur di ottenere immediati consensi è disposto ad offrire una coordinata e continuativa auto caricatura di se stesso. Diventa quindi difficile anche fare opposizione: o ci si mette sullo stesso piano della sondaggistica rincorsa dell’epidermico consenso o si sposta il confronto sui problemi reali e sui tempi adeguati a soluzioni effettive. Bisogna rifasare i tempi della politica con quelli dei problemi della società, diversamente non si può nemmeno discutere nel merito dei provvedimenti legislativi ed amministrativi, perché sono soltanto fumo,  proveniente da due diverse ciminiere, che finisce negli occhi di chi non vuol vedere. Non pretendo che il Parlamento diventi una sorta di “Camera degli statisti”, ma nemmeno che resti il “pirlamento” dei prestigiatori e degli illusionisti.

 

Le nostre bilance truccate

Nello Sri Lanka, otto esplosioni in chiese ed hotel, causate probabilmente da attentati terroristici di matrice islamica, hanno causato oltre 200 morti e 500 feriti. Il clamore mediatico e l’impressione popolare suscitati da questo evento non sono minimamente paragonabili a quelli provocati dall’incendio alla cattedrale di Notre Dame a Parigi. Con tutto il rispetto per l’arte e la cultura mi permetto di essere molto più toccato dalla carneficina scatenata in Sri Lanka. Forse sto facendo grottesche ed assurde graduatorie, ma questo strano accostamento merita una riflessione.

La nostra visione del mondo non si basa sul valore della persona umana, ma sul clamore emergente dagli avvenimenti: ai Giudei aveva fatto molto effetto la risurrezione di Lazzaro e la successiva entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme, molto più dell’arresto, delle torture, della crocifissione e della morte inflitti allo stesso Gesù a distanza di pochi giorni. I giudei del trattamento riservato a Gesù o se ne fregano altamente con un’alzata di spalle (scenda dalla croce e gli crederemo…) o addirittura preferiscono patrocinare la grazia ad un delinquente (liberaci Barabba!) istigati dai cinici opinion leader dell’epoca e/o dai politici opportunisti.

Abbiamo in testa uno schema totalmente sbagliato e pretendiamo addirittura che Dio lo adotti e si comporti di conseguenza. Essendo Pasqua, viene spontaneo fare riferimento agli insegnamenti evangelici. Essere attenti alle esigenze del nostro prossimo è una delle due facce della medaglia cristiana. Agli Ebrei non fregava niente dei Samaritani agonizzanti sulla strada, a noi non frega niente di chi muore negli attentati terroristici lontano dal nostro territorio. Alle gerarchie religiose non interessava niente delle speculazioni affaristiche che avvenivano all’ombra del tempio, l’importante era la sua fisica integrità e Gesù, che ebbe il torto di scacciare i mercanti, fu tolto di mezzo come un inutile e pedante rompiscatole.

A noi interessa l’integrità artistica di una cattedrale e allarghiamo pigramente le braccia di fronte alle chiese/comunità dello Sri Lanka buttate all’aria assieme ai loro frequentatori. “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”, dice Gesù e tutti a scandalizzarsi. Piangiamo sull’arte di Notre Dame messa a soqquadro e sorvoliamo su 200 persone trucidate in una lontana isola dell’oceano Indiano, di cui ricordarsi solo al momento di scegliere una chiccosa meta turistica.

Dopo il tremendo tsunami del 2004, che colpì proprio anche lo Sri Lanka oltre Indonesia, India, Thailandia, Birmania, Bangladesh e Maldive, ci fu chi si preoccupò innanzitutto e soprattutto delle proprie vacanze andate in fumo, al punto che il ministro Gianfranco Fini dovette stigmatizzare questi atteggiamenti da gente con una spanna di pelo sullo stomaco. Siamo fatto così, siamo fatti molto male!