I mangiatori di democrazia

In Lombardia e Piemonte i carabinieri e la guardia di finanza hanno emesso parecchi ordini di custodia cautelare nell’ambito di un’inchiesta che ipotizza un giro di tangenti tra importanti politici, imprenditori e dirigenti tra Milano e Varese, principalmente a livello dell’amministrazione regionale. Tra gli interessati ci sono anche diversi politici di spicco del centrodestra lombardo (l’appartenenza partitica non è purtroppo una discriminante ma una questione accomunante). In totale sono 95 le persone indagate a vario titolo per associazione a delinquere e corruzione.

I giornali riportano in particolare che l’indagine avrebbe individuato un tentativo di corruzione nei confronti del presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, della Lega, che però non è indagato bensì “parte offesa”. Il tentativo di corruzione sarebbe arrivato da Gioacchino Caianiello, ex coordinatore provinciale di Forza Italia a Varese, già condannato in via definitiva per concussione nel 2017. Stando al Corriere della Sera, l’episodio risale al marzo del 2018, quando Caianiello avrebbe proposto a Fontana una nomina a capo del “settore Formazione” della Regione Lombardia, in cambio di garanzie su alcune consulenze legali che sarebbero state poi richieste a un amico e collega di Fontana.

Fontana, che non è indagato, secondo i giornali non avrebbe però denunciato l’episodio: non è chiaro perché. In una conferenza stampa, il procuratore Francesco Greco ha detto che le indagini avrebbero rivelato che il collega di Fontana in questione «ha poi ottenuto un incarico dalla Regione», e che quindi si sta «accertando lo spessore e la regolarità della procedura». Se devo essere sincero, non mi sembra una questione molto rilevante, anche se magari emblematica di una certa disinvoltura nella gestione pubblica, ma anche di una certa pignoleria giudiziaria.

L’inchiesta è però molto più ampia e comprende vari filoni.  Ci puzza maledettamente di tangentopoli. Anche allora il tutto partì dalla Lombardia. Qualcuno dice che tangentopoli non è mai finita. Fatto sta che la corruzione continua ad emergere, anche se è presto per elaborare teorie e giudizi di carattere generale. Rischia tuttavia di piovere sul bagnato del qualunquismo serpeggiante nella società, che trova sbocchi assurdi e paradossali nel populismo e nel finto e strumentale perbenismo. Un mio conoscente, attento osservatore delle cose della politica, sostiene però come sia capzioso accusare di qualunquismo l’uomo della strada: qualunquismo è rubare e degradare la politica ad arte dei propri affari più o meno loschi. Ha perfettamente ragione. Non ci si può scandalizzare della stizzita reazione della gente ad un certo andazzo politico.

Bisogna fare molta attenzione alla storia passata e presente: la corruzione della politica è un disgraziato incentivo alla messa in discussione della democrazia. Temo che dietro la recente deriva pentaleghista ci stia anche e soprattutto un’accentuata insofferenza verso il sistema corrotto e inaffidabile. Stiamo offrendo acqua a chi vuole sguazzare sulle scorrettezze dello stile politico per costruirci sopra pericolose scorciatoie antidemocratiche.

Quando il grande giornalista Indro Montanelli giudicava la storia di un politico partiva proprio dalla sua etica e operava una sorta di implacabile esame finestra: si è arricchito, ha intascato tangenti, ha fatto gli affari suoi, ha fatto i propri comodi, ha saputo mettere gli interessi pubblici prima dei suoi?   Possono sembrare parametri minimalistici, invece bisogna ripartire di lì per salvare la democrazia e per sconfiggere anche le nostalgie della sbrigatività nelle risposte e maniere forti. C’è un detto parmigiano: “La pulissia l’è méz magnär”. Sembra che troppi politici pensino invece: “Magnär l’è méza pulissia”.

 

 

La sana iconoclastia calcistica

Di Padre Eterno ne riconosco solo uno, figuriamoci se sono disposto ad ammetterne altri, seppure in chiave sportiva. Tempi duri per le divinità pallonare: i Messi, i Ronaldo, gli Icardi cadono dagli altari alla polvere con eloquente velocità. Il trono di Messi è durato meno di una settimana: dal paradiso di Barcellona all’inferno di Liverpool.

Il loggione di Parma in passato ogni tanto ruggiva: il famoso e simpatico critico Rodolfo Celletti ammetteva di godere, sotto sotto, allorquando i parmigiani spazzolavano qualche mostro sacro del bel canto. Però aggiungeva: «Ho la sensazione che a voi parmigiani piacciano un po’ troppo gli acuti sparati alla viva il parroco…». I loggionisti degli stadi, aizzati dagli opportunisti mediatici dello sport, si lasciano troppo incantare dai cosiddetti fuoriclasse del football, non capendo che il calcio è il più bel gioco del mondo e come tale è imprevedibile e impossibile da incapsulare negli schemi tattici.

All’inizio del campionato 2018-2019 sembrava che Carlo Ancelotti, il nuovo allenatore del Napoli, fosse in grado di “far venire il vino nell’uva”, come dice una simpatica espressione dialettale parmigiana: lui sì che era bravo, non il suo predecessore (Maurizio Sarri). Ebbene la campagna ancelottiana sta finendo tra i fischi per gli scarsi risultati ottenuti nelle competizioni italiane ed europee. Tutti i commentatori lo osannavano e oggi? Colpa delle scelte societarie! Ma fatemi il piacere. Attenti, perché potrebbe succedere così anche a Roberto Mancini, il nuovo tecnico della nazionale: tutti lo incensano a priori, poi…staremo a vedere.

Torno ai padreterni con cui ho iniziato il discorso, in particolare all’argentino Lionel Messi.  Mio padre pretendeva molto dai grandi campioni superpagati, arrivava alla paradossale esigenza del goal ad ogni tiro in porta per un fuoriclasse come Zico (col da la ghirlanda) incoronato re di Udine al suo arrivo nella città friulana: cose da pazzi! Ma non solo con Zico, anche con altri giocatori superpagati: mio padre non accettava gli ingaggi miliardari, ne avvertiva l’assurdità prima dell’ingiustizia, faceva finta di scandalizzarsi, ma in realtà coglieva le congenite contraddizioni di un sistema sbagliato. Cosa direbbe oggi di Messi e Ronaldo: sogghignerebbe soddisfatto del loro ridimensionamento, nonostante la testarda e inguaribile vena giornalistica osannante.

Sarò un inguaribile bastian contrario, ma di fronte al capitombolo barcellonese e alle recenti sfide di coppa campioni ho goduto assai. Perché? Innanzitutto perché questi episodi di ribaltamento rimettono il calcio al suo posto: uno stupendo, imprevedibile, fantasioso gioco di squadra in cui si può vincere e si può perdere, combattendo fino all’ultimo respiro, punto e stop. In secondo luogo, in men che non si dica, crollano i facili e sciocchi divismi e speriamo si ridimensionino anche i relativi cachet. Inoltre perdono di credibilità i prezzolati mestieranti, che vivono sulle stucchevoli chiacchiere del prima e dopo partita. Il concetto, che aveva mio padre del fenomeno calcio, tagliava alla radice il marcio; viveva con il setaccio in mano e buttava via le scorie, era un “talebano” del pallone. Per evitarle accuratamente pretendeva che il dopo partita durasse i pochi minuti utili per uscire dallo stadio, scambiare le ultime impressioni, sgranocchiare le noccioline, guadagnare la strada di casa e poi…. Poi basta. “Adésa n’in parlèmma pu fìnna a domenica ch’ vén”. Si chiudeva drasticamente e precipitosamente l’avventura in modo da non lasciare spazio a code pericolose ed alienanti, a rimasticature assurde e penose.

 

Inni e canti della nostalgia

Il 06 maggio 1959 gli azzurri del calcio ebbero l’onore di giocare nel tempio di Wembley. Quella partita non passò alla storia per il risultato (un prestigioso 2 a 2 con rimonta italiana suggellata dai gol di Brighenti e Mariani), ma per la clamorosa gaffe (?) iniziale: la banda suonò in onore dell’Italia la Marcia Reale. Chi ironizzò sullo splendido isolamento inglese (una sorta di segnale profetico di Brexit) che impedì di conoscere come l’Italia fosse una repubblica da oltre dieci anni; chi pensò ad una provocazione istituzionale britannica in nome della sua irrinunciabile fede monarchica; nessuno si accontentò di archiviare l’episodio come un mero svarione protocollare.

Il re Felipe VI e suo padre Juan Carlos hanno partecipato, in questi giorni a Napoli, all’evento del Cotec Europa, una fondazione che si occupa di sviluppo tecnologico, soprattutto nella pubblica amministrazione. Il re spagnolo durante il suo discorso ha detto: «Le macchine già ci superano in molti campi, ma non ci superano in empatia e creatività, che debbono essere al primo posto nella formazione degli addetti alla pubblica amministrazione in un contesto sempre più automatizzato e digitalizzato ed in un quadro di mutamenti sociali e tecnologici accelerati». Queste parole, peraltro molto serie e realistiche, hanno avuto un ritorno di gusto assai ironico nel fatto che gli altolocati ospiti iberici sono stati accolti al teatro San Carlo di Napoli sulle note dell’inno di Spagna eseguito da orchestra e coro in una versione adottata durante il franchismo e abbandonata in democrazia. Attualmente, infatti, l’inno si esegue senza parole. I due sovrani non hanno fatto neanche una piega ascoltando l’esecuzione del coro delle voci bianche del San Carlo, ma il presidente Mattarella si è dovuto scusare per l’incidente.

Sono errori così clamorosi da lasciare sempre qualche margine di dubbio: in questi casi la dietrologia può veramente sbizzarrirsi alla ricerca di inconfessabili finalità pseudo-diplomatiche o clamorose provocazioni politiche. Alle recenti elezioni spagnole il partito neo-franchista ha ottenuto un buon risultato elettorale, inferiore tuttavia rispetto alle allarmistiche previsioni. Nel nostalgico clima reazionario europeo ci può stare anche un simile lapsus freudiano? Non saprei. Certo, siamo riusciti a fare una figuraccia: non ho idea di come si sarà giustificato Mattarella.

Alle esequie rigorosamente laiche di Enrico Berlinguer partecipò l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, assai poco amato dal popolo comunista e sonoramente fischiato. A chi gli chiese un commento il leader socialista rispose con il suo solito stile arrogante e tranchant: “A funerali politici c’è posto anche per la contestazione politica”. L’episodio napoletano di cui sopra potrebbe essere chiosato con una parafrasi della suddetta frase craxiana: “Nell’aria destrorsa che tira in Europa e in Italia c’è posto anche per un inno franchista”. Meditiamo gente…

Aspettando Draghi

Si può governare litigando continuamente su tutto e su tutti? Ogni giorno nasce un contenzioso aggiuntivo al già pur abbondante pacchetto di scontri al calor bianco messi sotto il naso di un Giuseppe Conte sempre più attonito e ingarbugliato nella sua matassa governativa. In Italia forse da sempre c’è la tendenza a incasinare i problemi per non risolverli. Fino a qualche anno fa andava di moda l’acronimo Ucas (ufficio complicazione affari semplici). Oggi nei palazzi ministeriali romani potrebbe essere esposta tranquillamente la targa Ucag (ufficio complicazione affari governativi). È perfettamente inutile fare l’elenco dei punti di grave scontro tra i partiti politici di maggioranza e tra i loro debordanti esponenti che ricoprono importanti cariche ministeriali. Sembra che se ne comincino ad accorgere anche i cittadini, se è vero che i sondaggi, per quel che valgono, registrano un calo di gradimento per Salvini e Di Maio: sui vice-premier peserebbero infatti le liti nell’esecutivo, di cui peraltro il 60% degli elettori del Carroccio prevederebbe la caduta entro la fine del 2019.

Come sempre succede, le tensioni avvengono in un clima di grosse difficoltà economiche: quando i conti vanno bene, tutti i santi aiutano, ma quando non quadrano, le faccende si complicano. L’economia italiana, pur nel balletto contraddittorio di cifre, non va bene, anzi sta peggiorando vistosamente. I conti pubblici sono fuori controllo e su di essi gravano gli autentici macigni delle clausole di salvaguardia, dei controlli europei e dei giudizi dei mercati. Il ministro dell’economia Giovanni Tria sembra un acrobatico equilibrista costretto a camminare sulla corda delle cifre di bilancio, ma senza l’aiuto della tradizionale asta: anzi, i colleghi di governo gli gufano contro e lo mettono in ulteriore imbarazzo con i loro assurdi proclami.

La litigiosità è poi frutto anche di eclatante impreparazione e di clamorosa strumentalizzazione. Spesso si ha la netta impressione che nell’esecutivo scoppino risse su proposte improvvisate e fuorvianti, lontane dai veri problemi e vicine alle blandizie elettorali. Il governo Conte è nato nell’equivoco di una maggioranza numerica ma non politica: il presidente della Repubblica ha dovuto considerare la mancanza di alternative e prendere atto di un accordo/contratto destinato a creare inevitabili contenziosi. La mancanza di alternative continua a sussistere, perché il Pd continua ad essere in crisi di identità e credibilità, mentre il centro-destra, appiattito sull’estremismo leghista, non offre alcuna garanzia di governabilità.

In questo quadro, che verrà forse un po’ chiarito o addirittura complicato dai risultati delle elezioni europee e dai successivi indirizzi a livello Ue, se la situazione economica, come purtroppo è prevedibile, dovesse peggiorare ulteriormente e la litigiosità di conseguenza dovesse aumentare, rispunterebbe la carta del governo tecnico, dal momento che le elezioni politiche anticipate potrebbero soltanto cristallizzare una situazione di ingovernabilità.

Il mandato di Mario Draghi quale presidente della Bce scade il 31 ottobre del 2019. Non ci sono per lui prospettive di conferma, ha lavorato infatti troppo bene per essere rinnovato nell’incarico. Non so se avrà voglia di imbarcarsi in una tremenda avventura di traghettamento, ma sarebbe l’unica soluzione in grado di dare al nostro Paese una guida autorevole, esperta e competente. In attesa che la politica e i cittadini italiani rinsaviscano. La scadenza del settennato di Mattarella al Quirinale è nel maggio 2022. Restano un paio d’anni per mettere l’Italia nelle mani di questi due personaggi seri ed affidabili, che saprebbero rispettare i limiti politici ed istituzionali loro imposti, ma potrebbero costringere la politica ad uscire dal tunnel dell’inconcludenza e i cittadini a ragionare.

 

La guerra riscaldata

Dopo la seconda guerra mondiale, per circa mezzo secolo, abbiamo vissuto la tensione della cosiddetta “guerra fredda”, un equilibrio basato sulla contrapposizione politica, ideologica e militare tra la democrazia capitalista da una parte, guidata dagli Usa, e il totalitarismo comunista dall’altra, egemonizzato e dominato dall’Unione Sovietica. La fine dell’impero sovietico, emblematicamente raffigurata nel crollo del muro di Berlino, la riunificazione della Germania, la problematica costruzione dell’Unione Europea, l’emergere di Paesi in via di forte ma confuso sviluppo (Cina soprattutto), la sempre più drastica contrapposizione fra Paesi ricchi e Paesi poveri, la debole funzione dell’Onu, hanno ridimensionato e scompigliato le speranze e le attese di un mondo pacificato.

Se la guerra fredda aveva scongiurato le eruzioni vulcaniche, il dopo guerra fredda si è sfogato nei geyser di quella che papa Francesco definisce la terza guerra mondiale combattuta a pezzi. Temo che il Venezuela possa diventare l’ennesimo focolaio bellico in una risorgente contrapposizione strumentale tra Usa e Russia, in vena di tardive ma sempre attuali spinte imperialistiche. Da quello che ho potuto ascoltare e leggere mi pare che ad una delle ultime e classiche dittature comuniste o giù di lì, si contrapponga una velleitaria e improvvisata rivoluzione democratica, con la pronta scesa in campo, per ora solamente diplomatica, delle due super-potenze: la Russia di Putin dalla parte dell’indifendibile regime di Maduro,  gli Usa di Trump a sostegno della inconcludente rivolta innescata da Guaidó, paladini entrambi assai poco credibili sul piano ideologico e molto motivati dal punto di vista economico e tattico.

L’Europa gioca un ruolo di puro e peraltro tentennante contorno. L’Italia…lasciamo perdere.  Il popolo venezuelano sembra diviso, ma prevalentemente orientato al cambiamento di regime. Le forze armate sembrano invece prevalentemente schierate in difesa dello status quo, vale a dire dalla parte di Maduro. Le schermaglie diplomatiche russo-americane si stanno complicando e non resta che sperare nella paradossale amicizia tra Putin e Trump, così diversi ma così somiglianti nel loro delirio di onnipotenza e nel loro machismo tattico. Siamo ridotti male.

Nel 1945 George Orwell, riflettendo sulla bomba atomica, preconizzava uno scenario in cui le due grandi potenze, non potendo affrontarsi direttamente (per il rischio di distruzione mutua assicurata), avrebbero finito per dominare e opprimere tutti gli altri. Andò, più o meno, così. Oggi il quadro è più complesso, ma, stringi-stringi, il discorso non è molto cambiato. L’Onu non conta un cavolo e i venezuelani berranno da botte una soluzione pasticciata concordata tra due squallidi personaggi più stupidi che potenti.

Non ricordo l’autore, ma, l’indomani del crollo del muro di Berlino, apparve una vignetta in cui, con una amara e semplicistica visione, si passava drammaticamente dal filo spinato alle siringhe della droga, dalla padella alla brace. Oggi, alla luce degli avvenimenti venezuelani, e non solo, potremmo dire: dalla guerra fredda alla guerra riscaldata. Tra gli Usa impelagati in un capitalismo isolazionista, ottuso e spietato e la Russia impostata come una grande piovra mafiosa, emerge la Cina quale peggior sintesi tra capitalismo e comunismo. L’Europa traccheggia e boccheggia. In mezzo tutti gli altri. Adesso è la volta del Venezuela.

La sommossa delle coscienze

Un napoletano dichiara: “Situazione drammatica, servono militari e sommossa popolare”. Lo ha detto ai microfoni di una televisione sull’onda emotiva del dopo raid di stampo camorristico, che ha causato il ferimento di una bimba di quattro anni ricoverata in gravissime condizioni all’ospedale Santobono. Ha sicuramente interpretato un senso comune di ribellione al clima di paura e insicurezza esistente nella città campana, che ha raggiunto livelli pazzeschi.

La guerra tra clan camorristici impazza.  Chi di fronte a questi scontri cruenti non si è lasciato andare a pensare che possa essere paradossalmente un bene che i camorristi si ammazzino fra di loro? Una sorta di sfoltimento automatico delle file delinquenziali, una specie di fuoco amico che sgombra parzialmente il campo. Reazione cinica. Purtroppo però la camorra non è una sfida pseudo-cavalleresca tra gli addetti ai lavori, ma è un sistema sociale, uno stile di vita che coinvolge tutti in un modo o nell’altro: chi accetta di entrare in questo schema di vita, chi sta a guardare e finge di non vedere, chi ha il coraggio di ribellarsi, chi si trova senza arte né parte in mezzo alla bagarre.

La camorra è radicata, infiltrata, collegata, inserita nella società: non si può quindi pensare di farle guerra mobilitando l’esercito. Contro chi? Contro cosa? Forse è proprio quel che desiderano i camorristi, perché in una sorta di guerra totale di tutti contro tutti pensano di poter prevalere legittimandosi ulteriormente e imponendo il loro ordine. Le mafie non esitano ad alzare il livello dello scontro: hanno tutto da guadagnare da un clima di disordine generale. Ecco perché, a mio avviso, la richiesta di un intervento massiccio dell’esercito è comprensibile, ma irrazionale e fuorviante.

Veniamo alla seconda richiesta, peraltro nettamente contraddittoria rispetto alla prima: la sommossa popolare. Bisogna capire cosa si intende per sommossa. Se pensiamo ad un tumulto popolare contro il governo o il potere costituito, cadiamo in una trappola e facciamo un piacere alla camorra che saprà immediatamente ed efficacemente inserirsi nel gioco per strumentalizzarlo a proprio favore. Non è successo così con la sommossa di Reggio Calabria del 1970 per protestare violentemente contro il trasferimento del capoluogo regionale a Catanzaro?

Storicamente parlando la politica e le istituzioni (dagli Usa a certi governanti italiani, dalla Chiesa a certe forze politiche di destra estrema) si sono illuse di strumentalizzare le mafie contro ipotetici nemici esterni, che si potevano chiamare soprattutto comunismo. Questa fase di coesistenza al limite del collaborazionismo sembra essere finita, anche se permangono collegamenti sotterranei con parecchi gangli vitali a livello pubblico e parecchie tolleranze a livello privato. Parlare di sommossa vorrebbe dire fare un passo indietro per ributtare confusamente il potere nelle braccia della criminalità organizzata, facendo un colpevole sgarbo a quanti hanno dato la vita per portare le istituzioni fuori dai recinti mafiosi.

E allora? Se di sommossa o rivolta si vuol parlare bisogna fare riferimento a quella delle coscienze che sappiano rifiutare ogni e qualsiasi compromissione col sistema mafioso. Se si vuol proprio invocare un esercito, deve essere quello delle forze democratiche che sappiano liberare definitivamente e irreversibilmente le istituzioni e la società dalla piovra mafiosa. Coscienza e politica: un benefico e imprescindibile connubio. Solo in questo rinnovato quadro culturale e politico possono avere un senso la mobilitazione delle forze dell’ordine e l’impegno a controllare il territorio.

In cauda venenum. Pensiamo a una cattiva e amara barzelletta, dal sapore vagamente razzista, provocatoria al punto giusto, che ha per protagonista una simpatica vecchietta su un autobus a Napoli. Ad un certo punto si crea un certo subbuglio, la gente si muove preoccupata, qualcuno vuole scendere. Alla fine tutto è chiaro: c’è stata una rapina… La donna tira un respiro di sollievo e confessa alla sua amica: «Meno male, avevo paura che fosse salito il controllore!». Sarebbe oltretutto importante che quel sanguigno signore, che invoca esercito e sommossa, si mettesse d’accordo con questa sua ipotetica concittadina.

 

Fare il prete a Manduria

In una delle tante trasmissioni che si accaniscono sui fatti di cronaca più eclatanti e sconvolgenti, allestendo con insistenza macabri salotti, ho potuto ascoltare – in merito alla incredibile vicenda del pensionato di Manduria  letteralmente massacrato dalla violenza di una baby gang e dall’omertà dell’intera comunità – la testimonianza, raccolta sul posto, del sacerdote che svolge la sua attività pastorale in quel luogo (non ho capito bene se si trattasse del parroco territorialmente competente o comunque di un prete inserito in quel contesto).

Mi ha spiacevolmente sorpreso la sua troppo prudente e quasi distaccata analisi, preoccupata di salvare l’insalvabile, vale a dire – stando ai drammatici fatti che stanno sempre più assumendo il carattere di una denuncia civica – una comunità fantasma, chiusa nel suo castello omertoso, totalmente incapace non solo di solidarizzare, ma persino di guardare la realtà circostante. Mi sarei aspettato un onesto e doveroso mea culpa, mentre invece emergeva una opportunistica sdrammatizzazione dell’accaduto e una teorizzazione problematica del contesto socio-culturale in cui è avvenuto il fatto.

Spero che tutta Manduria non sia cestinabile nel cassonetto dei rifiuti emergente dalla cronaca, credo anch’io senza dubbio che la realtà sia complessa e difficile da analizzare, ma non si può sfuggire alla realtà di un fatto gravissimo che deve turbare tutte le rette coscienze.   La comunità cristiana di Manduria non può rifugiarsi nei luoghi comuni della crisi famigliare e dello sfacelo valoriale, ma si deve assumere le proprie responsabilità.

IL buon samaritano, quando ha incontrato quel poveretto massacrato dai briganti, non se la è presa con la società, ma si è rimboccato le maniche ed ha operato come tutti sappiamo. I cristiani devono fare così e i loro pastori devono snidarli senza troppo preoccuparsi di “sputtanarli”. Non è ammissibile che nella comunità cristiana di Manduria nessuno abbia trovato il coraggio di intervenire se non direttamente, almeno indirettamente. I casi sono due: o la comunità e i cristiani che ne dovrebbero fare parte non esistono e si confondono in mezzo al mondo di paura, indifferenza ed egoismo imperante, oppure non hanno capito nulla del Vangelo e pensano di cavarsela nascondendosi fuori dal mondo. I sacerdoti di Manduria conoscevano l’inferno in cui viveva quel povero figlio di Dio? Se sì, dovevano fare qualcosa: almeno parlarne con la gente, con le autorità, con il vescovo, con il papa, con chi poteva interessarsi di quel soggetto in gravissime difficoltà. Se no, dove e come svolgevano la loro missione? Se la comunità cristiana e i suoi pastori non sanno essere quel pugno di lievito che fa fermentare la massa amorfa in cui vivono, sarà bene che si interroghino profondamente e cerchino di darsi una benefica scrollata.

Anche in quel salotto televisivo tutti si aspettavano qualcosa di forte dall’esperienza umana e cristiana di quel prete, che invece continuava a chiedere di poter parlare per non dire niente di toccante e importante e invitava tutti a capire, a vivere le situazioni, a toccare con mano. Certo, bisogna stare in mezzo alla gente e condividerne i problemi. E non è facile! Ma lui come ha vissuto questa vicenda? come ne è uscito? cosa può testimoniare? Per favore, se ha qualcosa nel cuore, lo “sputi” senza pietà.

Ho avuto il dono grande dell’amicizia con sacerdoti capaci di calarsi nella realtà dei poveri e degli oppressi. Forse è per questo che mi sono un tantino scandalizzato. Magari quel prete sarà impegnatissimo nella sua testimonianza, magari non è riuscito a rendere l’dea del dramma cristiano che vive ogni giorno. Il mio non vuole essere un giudizio: chi sono io per giudicare un prete di Manduria? Resta il fatto che oggettivamente si è constatata l’esistenza di un buco nero di indifferenza, che va coperto al più presto. Poi si può discutere, dissertare, analizzare.

As…Siri e Babilonesi

Armando Siri aveva patteggiato una condanna per bancarotta fraudolenta e quindi, secondo il rigoroso schema moralistico pentastellato, non avrebbe dovuto essere insediato come sottosegretario di Stato. Sì, ma il fatto risaliva a un periodo antecedente la formazione del governo giallo-verde, e allora si è chiuso un occhio. L’eccezione dovrebbe confermare la regola.

La sindaca di Roma è o è stata plurindagata (al riguardo ho perso il conto) e quindi, secondo l’intransigente filtro etico grillino, avrebbe dovuto andarsene dal Campidoglio per non intaccare la correttezza delle Istituzioni. Sì, ma i reati per cui era o è chiamata in causa Virginia Raggi non sono gravi e tali da imporre un passo indietro. Altra eccezione che dovrebbe confermare la regola.

Il ministro Salvini, in merito alla nota vicenda della nave Diciotti, viene indagato per il reato di sequestro di persona aggravato (per essere stato commesso in danno di soggetti minorenni) e il tribunale dei ministri chiede al Parlamento l’autorizzazione a procedere. Secondo il severo codice grillino la giustizia avrebbe dovuto fare il suo corso e, forse, il ministro si sarebbe addirittura dovuto dimettere. Sì, ma la piattaforma Rousseau, il tribunale popolare on line istituito dalla Casaleggio e c., ha deciso di soprassedere: era una questione politica. Altra eccezione che dovrebbe confermare la regola.

E qual è la regola? I politici devono essere a posto con la giustizia penale. E chi lo stabilisce se lo sono o meno? Luigi Di Maio! In base a quali criteri? Quelli che vengono comodi al M5S! Questo è cambiamento? Sì, nel senso che ai tre gradi di giudizio ne viene aggiunto uno totalmente nuovo e pregiudiziale, una sorta di vaglio di grado zero, riservato al movimento pentastellato, che lo esercita secondo le modalità ad esso preferite.

Il giustizialismo non mi piace. Mi piace ancor meno se non viene praticato dalla magistratura, ma da certe forze politiche che lo interpretano a proprio uso e consumo. Vi ricordate il cappio esibito dai leghisti in pieno parlamento ai tempi di tangentopoli? Oggi i leghisti sono improvvisamente diventati garantisti dopo il bagno salviniano. Come cambia il mondo…Il movimento cinquestelle è giustizialista a corrente alternata: quando la politica si intrufola nella giustizia può succedere di tutto. Non escluderei che, fra qualche tempo, quel che rimarrà del partito grillino possa diventare garantista…a corrente alternata.

In questo bailamme politico-giudiziario il premier Antonio Conte vuol fare il fine dicitore: l’avvocato del popolo, altra inedita formula giuridica. Ritiene opportuno politicamente che Armando Siri venga esautorato, ma chiede ai partiti di non farne una questione politica. Io non ci capisco più niente, siamo in piena babilonia. Siri sfoglia la margherita. Salvini spara le solite cazzate. Di Maio fa il duro, ma non troppo. Conte quadra il cerchio. E la giustizia va a farsi benedire…

 

 

Buon riso (non) fa buona politica

L’Ucraina è un Paese assai travagliato, sotto scacco della Russia che si è annessa la Crimea, in odore di Europa a cui è legata da un accordo di associazione, da molto tempo in gravi difficoltà nel mantenere la propria indipendenza economica e politica, oggetto di una nuova guerra fredda tra Russia e Usa, divorata internamente da una corruzione radicata, condizionata dalle oligarchie e bloccata da un basso tenore di vita.

La gente ha votato per il cambiamento eleggendo alla presidenza Vladimir Zelensky, un attore comico prestato alla politica a cui tutti stanno lanciando messaggi distensivi, dalla Ue, che ribadisce il proprio sostegno all’integrità, indipendenza e sovranità dell’Ucraina, alla Russia che a parole rispetta la scelta degli ucraini mettendo tuttavia in discussione il fatto che a tre milioni di cittadini ucraini che vivono in Russia sia stato negato il diritto di voto, a Donald Trump, che ha sottolineato l’incrollabile appoggio statunitense per la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina e l’impegno a lavorare insieme con Zelensky.

Ammetto di non conoscere la storia passata e recente di questo Stato e quindi non ho la capacità di analizzare le conseguenze di questo voto, che sembra finalizzato a voltare pagina. Penso che a molti sarà venuto spontaneo chiedersi come mai la popolazione dell’Ucraina abbia deciso di affidarsi ad un neofita della politica e soprattutto ad un attore comico, che ha interpretato in una fiction televisiva la parte del cittadino qualunque che diventa presidente per caso e poi lo diventa per davvero ottenendo un 73% di consensi. Si tratterà di un fenomeno mediatico o di una novità sostanziosa per la politica interna ed estera di questo Paese?

Riflettendo sulla incapacità della politica di esprimere una classe dirigente preparata ed esperta non ho potuto evitare di operare qualche collegamento con l’avventura politica del comico nostrano Beppe Grillo: anche lui ha ottenuto un grosso consenso seppure per interposto movimento puntando sulla lotta alla corruzione e sul cambiamento a tutti i livelli. Mi pare tuttavia che ci sia una bella differenza fra le condizioni dell’Ucraina e dell’Italia: resta il dato in comune dell’antipolitica impersonificata da un comico, del voto espresso come uno sberleffo verso l’establishment, della protesta consegnata a scatola chiusa a chi fa dell’inesperienza e dell’impreparazione una inestimabile virtù.

D’altra parte in un mondo messo nelle mani di un tycoon americano, di un despota russo, di un capitalista-comunista cinese, non c’è da stupirsi di niente. L’effetto domino si sta propagando nell’illusione di poter dribblare la politica, affidandosi al primo che passa per la strada, perché riesce a tenere alto il morale con le sue gag. E le idee, i valori, la storia? Ridiamoci e beviamoci sopra! Mio zio quando voleva giustificare le sue eccessive bevute, trovava spunto da quanto gli succedeva intorno per dire qualunquisticamente: «E mi ag bév sôra…». Mio padre non lo rimproverava e si limitava a rispondergli: «E mi ag bév frè…».

 

Nel buio leghista tutti i gatti sono bigi

Lo stupro di una donna è un atto infame che associa la violenza al sesso, approfittando della forza bruta maschile per segnare in modo vomitevole il predominio machista e relegando la donna a creatura della serie “usa e getta”: è uno di quei crimini per i quali non riesco a trovare alcuna spiegazione, se non a livello di pura delinquenza.

In questi giorni la cronaca ha registrato lo stupro di una trentaseienne a Vallerano, un comune in provincia di Viterbo, effettuato da due uomini aderenti al movimento CasaPound.   In base alla ricostruzione fatta finora, i due uomini e la donna la sera del 12 aprile sono tutti e tre a una festa privata durante la quale bevono. Successivamente, da quanto risulta con il consenso della donna, si spostano insieme presso il locale Old Manners, di Viterbo, considerato un punto di ritrovo dei militanti del movimento di estrema destra. Il locale è chiuso, ma uno dei due uomini ha la chiave per entrare. Dentro il locale i tre bevono ancora. Quindi i due uomini tentano un primo approccio con la donna, ma lei li respinge. A questo punto scatta la violenza, la donna viene colpita a calci e pugni fino quasi a svenire e poi i due abusano di lei, ripetutamente e a turno, filmando tutto con i cellulari. Nei giorni successivi, la donna decide di denunciare lo stupro subito. Partono le indagini. Sui cellulari dei due uomini vengono trovati i video con le riprese della violenza. E scattano gli arresti. “Stai zitta, tanto non ti crederà nessuno”. È la minaccia che i due militanti di CasaPound arrestati – secondo quanto si apprende da fonti investigative – avrebbero rivolto alla donna dopo averla violentata all’interno del locale. “È stata una violenza inaudita – sottolineano gli investigatori -: la donna è stata abusata più volte prima da uno e poi dall’altro per alcune ore, fino a quando non è stata abbandonata dai due ragazzi sotto casa”.

Lo stupro è sempre e comunque un gravissimo atto di criminalità indipendentemente dalla tessera politica degli stupratori. Il discorso però è un altro. Se l’atto assume anche i connotati di trasgressione ideologicamente marchiata e divulgata, il problema si fa decisamente serio ed assume un rilievo politico. Ancor più se consideriamo che il movimento CasaPound riesce ad avere un seguito a livello elettorale e può contare sull’atteggiamento omertoso di certe forze politiche, che non riescono a distinguersi ed alle quali viene comodo restare in un’area grigia di tolleranza.

Ho ascoltato con interesse la netta e coraggiosa posizione espressa da Gino Strada sull’assenza di Matteo Salvini dalle manifestazioni celebrative del 25 aprile: in modo chiaro ed inequivocabile ha detto che Salvini non poteva partecipare perché è un fascista e quindi meglio che si tenga alla larga. Sono sostanzialmente d’accordo con Gino Strada, aggiungo però che Salvini non può essere perseguito per apologia di fascismo perché è camuffato dietro un populismo da strapazzo, che confonde le acque, e quindi, in un certo senso è ancor più pericoloso.

Cosa sta infatti succedendo? I rigurgiti fascisti trovano terreno fertile quando si viene a creare un clima equivoco in una notte in cui tutti i gatti sono bigi. Successe quando Gianfranco Fini era vice-premier e al G8 di Genova si scatenò il finimondo repressivo con la macelleria poliziesca contro i manifestanti: non fu certo lui a dare questi ordini, ma la presenza politica ad alto livello di un esponente storicamente legato ad una certa ideologia suonava rassicurante per chi voleva dare libero sfogo ad azioni di stampo fascista. Successe con l’elezione a sindaco di Roma di Gianni Alemanno con una trionfale saga di saluti romani e di slogan fascisti, che peraltro non finirono lì. Sta succedendo a margine della politica leghista: basti dire che Salvini ha pubblicato un libro-intervista con una piccola casa editrice, Altaforte, guidata da un militante di CasaPound. Un anno fa, come ricorda Andrea Carugati su “La Stampa”, il capo leghista fece una comparsata allo stadio indossando un giubbotto col marchio amato dall’estrema destra. Salvini sta attento a non commettere reati contro la legge Scelba, ma lancia segnali di un certo tipo e contribuisce indirettamente a legittimare certi comportamenti politici di stampo fascista. Salvini e la casa editrice di cui sopra si nascondono dietro il sovranismo e dietro una pseudo-cultura identitaria e non allineata.

Tornando allo stupro di gruppo, CasaPound ha preso le distanze (volevo vedere…), ha deciso di espellere in via cautelativa i due militanti, mentre uno dei due, consigliere comunale, si dimetterà dalla carica. È interessante notare come, tra i post razzisti e fascisti di questo signore, ci sia una locandina su Instagram, che ritrae un negro nell’atto di violentare una donna bianca e sopra la scritta “Difendila!”. La dimostrazione brutale e lampante della strumentalità delle campagne denigratorie verso gli immigrati.

“Nessuna tolleranza per pedofili e stupratori – ha commentato Salvini -: la galera non basta, ci vuole anche una cura. Chiamatela castrazione chimica o blocco androgenico, la sostanza è che chiederemo l’immediata discussione alla Camera della nostra proposta di legge, ferma da troppo tempo, per intervenire su questi soggetti. Chiunque essi siano, bianchi o neri, giovani o anziani, vanno puniti e curati”. Siamo al polverone demagogico che lascia intatti i dubbi di una certa qual sotterranea (?) connessione tra la Lega e l’estremismo di destra violento e nostalgico. Così come lasciano il tempo che trovano i “coccodrilleschi” pianti grillini sul latte versato: per alcuni di loro “i rapporti tra Salvini e CasaPound sono da sempre alla luce del sole ed estremamente imbarazzanti” e sarebbero “chiare e definite le posizioni da cui si sentono lontanissimi”. Forse allora sarebbe il caso di risolvere il famigerato contratto. O no!?