Il primato della coscienza

L’Aula della Camera, con voto segreto, ha negato l’autorizzazione all’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti del deputato di Forza Italia Diego Sozzani, indagato in un’inchiesta della Dda milanese con l’accusa di illecito finanziamento dei partiti e corruzione. È stato negato anche l’uso delle intercettazioni telefoniche nell’ambito dell’inchiesta stessa.

Si è gridato al quasi-scandalo volendo intravedere in questi voti da una parte la difesa d’ufficio della casta, dall’altra un’operazione politica di contatti fra maggioranza e Forza Italia con l’obiettivo di blindare il governo al Senato: siamo alla dietrologia a tutti i costi.

Nessuno si preoccupa di spiegare in cosa consistano e su cosa si basino le accuse mosse a questo deputato; mi auguro che i suoi colleghi, chiamati ad esprimersi sulla fondatezza del procedimento giudiziario avviato, abbiano, nei limiti del possibile, approfondito il caso sulla base della documentazione a loro disposizione. Non si tratta di una questione politica, né di una questione di governo: c’è in ballo la persona e la dignità di un parlamentare.

Per legge, nessun parlamentare italiano può subire una limitazione della libertà personale – come ad esempio l’arresto ai domiciliari o altre misure cautelari – a meno che lo permetta esplicitamente la Camera a cui appartiene. A luglio la Giunta per le autorizzazioni della Camera aveva votato a favore della richiesta della procura di Milano, quindi dei domiciliari. Nel voto finale in aula a scrutinio segreto, 309 deputati hanno votato per respingere la richiesta della procura, e solo 235 per accoglierla. Se i deputati, a maggioranza, dopo aver ascoltato anche l’accorata autodifesa dell’interessato, hanno ritenuto che non esistessero gli estremi per concedere l’autorizzazione e/o che ci fossero seri dubbi in merito ad essa, non vedo motivo per stracciarsi le vesti, gridare all’inciucio e intorbidire le acque.

Il leader (?) del M5S, Luigi Di Maio, ha commentato il voto in questi termini: «Chi ha votato contro l’arresto di Sozzani dovrebbe risponderne davanti all’opinione pubblica. E invece a causa del voto segreto, non ne risponderà davanti agli italiani. È proprio in questi casi che emerge tutta la differenza tra noi e il resto del sistema». Nossignori, di quel voto i parlamentari dovranno rispondere solo ed esclusivamente davanti alla propria coscienza ed il voto segreto, in casi del genere, mi sembra sacrosanto. Quanto al sistema, è ora di finirla con questi rivoluzionari da operetta, che hanno appena (giustamente) trafficato nella cucina del sistema per preparare il piatto indigesto del Conte 2 e ora fanno gli schizzinosi se qualcuno si permette di ordinare un caffè amaro.

I colpevoli di trasgressione segreta sarebbero diversi deputati del partito democratico: non avrebbero seguito le indicazioni del gruppo a cui appartengono, che si era espresso a favore della concessione degli arresti domiciliari.  Quello dell’Aula su Sozzani “non era un voto sul governo ma su una procedura, noi avevamo dato delle indicazioni precise e i deputati hanno votato secondo coscienza, può succedere”. Così il capogruppo del Pd alla Camera. Condivido pienamente questa lapidaria dichiarazione.

L’intelligence guerrafondaia

L’inviato a New York de “La stampa”, in una pregevole corrispondenza dalla capitale statunitense, in ordine all’inquietante situazione venutasi a creare in Medio Oriente, ipotizza che “l’attacco contro le strutture petrolifere saudite sia stato lanciato da una base iraniana, o da una nave militare nel nord del Golfo Persico, usando missili che volavano a bassa quota assistiti dai droni. Questo è il sospetto più fondato su cui sta lavorando l’intelligence americana, per determinare il colpevole del bombardamento di Abqaiq, e la riposta definitiva potrebbe arrivare presto, perché gli investigatori hanno in mano almeno uno dei vettori usati. Se le prove confermeranno la responsabilità di Teheran, la Casa Bianca dovrà decidere la risposta, e il Pentagono ha già presentato al presidente Trump una serie di opzioni”.

Il reportage prosegue così: “Se questa ipotesi verrà confermata, si tratterebbe di un atto di guerra di cui Teheran sarebbe colpevole. A quel punto Trump dovrebbe decidere come reagire, evitando però l’impressione che stia conducendo una guerra per procura al posto dell’Arabia, e soprattutto il rischio di scatenare un conflitto totale con la Repubblica islamica, proprio dopo aver licenziato il consigliere per la Sicurezza nazionale Bolton perché premeva troppo per il cambio di regime. Quando a giugno gli iraniani avevano abbattuto un drone americano Global Hawk, il capo della Casa Bianca aveva prima ordinato e poi fermato una rappresaglia. Restando nuovamente immobile rischierebbe di fare come Obama, quando aveva rinunciato a far rispettare la «linea rossa» varcata da Assad con l’attacco chimico del 2013. Il Pentagono ha proposto bersagli come i siti di lancio dei missili, o attacchi digitali per bloccare la produzione petrolifera, più che gli stessi pozzi”.

Ebbene, mentre il giornalista succitato azzarda un parallelismo con l’inerzia di Obama nei confronti degli attacchi siriani del 2013, mi permetto di rammentare un’altra situazione simile. Tutti ricordiamo Colin Powel, allora segretario di Stato americano, che mostrava un reperto a dimostrazione della presenza di armi atomiche in Iraq. Allora fu l’inizio di una guerra inutile volta ad abbattere il regime di Sadam Hussein, oggi potrebbe essere l’avvisaglia della virata bellicista contro lo scomodo e pur folle interlocutore iraniano.

Come ho già scritto in altre occasioni, a volte, nella storia passata e recente, sono state adottate decisioni epocali e drammatiche sulla scorta di elementi falsi (guerra all’Iraq), di ricostruzioni romanzate, di finte battaglie di principio (guerra alla Libia), di menzogne spudorate sciorinate per catturare consenso all’interno del proprio Stato, di questioni democratiche messe in campo per coprire sporchi interessi speculativi. Non dimenticherò mai appunto l’impudenza con cui fu preso in giro il Consiglio di sicurezza dell’Onu con autentiche “patacche spionistiche”: ne nacque una guerra in Iraq con migliaia e migliaia di morti le cui conseguenze stiamo ancora pagando e probabilmente pagheremo per non so quanto tempo.

La presenza in campo di un personaggio imprevedibile, sconclusionato e inaffidabile come Donald Trump mi mette ancor più i brividi: un referto spionistico, con tutte le incertezze che comporta, messo nelle mani di un irresponsabile, diventa una spaventosa evenienza. È vero che gli iraniani hanno il vizio di punzecchiare gli Usa e l’Occidente, toccandoli nel punto debole petrolifero, ma speriamo prevalga la prudenza di non scherzare col fuoco. Non c’è crisi petrolifera che possa giustificare una guerra.

 

Gli scherzi tra calcio e politica

È ripartito il campionato di calcio con le solite menate di contorno giornalistico, arricchite dalle avvisaglie di una polemica tra i nuovi allenatori della Juventus e dell’Inter. Maurizio Sarri ha giustificato una prova modesta della sua Juventus con il caldo del primo pomeriggio sofferto in quel di Firenze, lasciando intendere una penalizzazione della sua squadra rispetto ad altre che hanno potuto giocare ad orario più abbordabile dal punto di vista atmosferico. Antonio Conte, ringalluzzito dal momentaneo primato in classifica della sua Inter, ha risposto al collega collocandolo fra i poteri forti del calcio e quindi fra coloro che non possono minimamente lamentare ingiustizie o roba del genere.

I media, in una sarabanda televisiva riveduta e scorretta, si sono buttati a capofitto in questa polemichetta da strapazzo, intravedendo il leitmotiv del campionato nella rivalità tra queste due squadre e i loro allenatori. Gente che guadagna compensi astronomici e che osa fare del penoso protagonismo dialettico. Tutto il campionato girerà attorno a due dubbi amletici: riuscirà Sarri a far dimenticare gli innegabili ed annosi successi juventini; riuscirà Conte a rilanciare le quotazioni dell’Inter riportandola ai fasti di epoche lontane?

Antonio Conte mi dà l’idea di un personaggio umanamente intrattabile e insopportabile, un vincente a tutti i costi, un professionista che gioca a fare l’alfiere nerazzurro, un demagogo calcistico capace di arringare i tifosi e spremere i calciatori. Maurizio Sarri si conferma allenatore che punta più al gioco che alla classifica in una piazza che punta più alla classifica che al gioco: per superare queste contraddizioni dovrà fare i salti mortali. Fossero rimasti entrambi dov’erano ne avremmo guadagnato tutti in tutti i sensi.

Antonio Conte insidia la ribalta di Giuseppe Conte: in un certo senso, ragionando da bieco tifoso, anche lui è un trasformista, passato dalla Juventus all’Inter, come, politicamente parlando, si passa dalla Lega al Partito democratico. Chi non salta bianconero è e lui non potrà saltare, perché è stato bianconero e ha questo tatuaggio impresso sulla pelle calcistica. Anche il manager interista Beppe Marotta è un ex juventino: un vero e proprio ribaltone.

Maurizio Sarri deve arrivare al dunque e non può tergiversare: potrà e dovrà promettere al popolo juventino di vincere alla svelta, come sta facendo Matteo Salvini col popolo leghista. Non ce lo vedo nei panni di arringatore di tifosi in cerca di trofei trionfali. Nel frattempo i capi della tifoseria juventina ricatterebbero la loro squadra per ottenere o difendere vantaggi e privilegi di varia natura. Roba da matti! Sarri avvisato mezzo salvato.

Non so se sia più pazza la politica con i suoi esponenti o il campionato di calcio con i suoi dirigenti. Facciamo finta che siano tutti matti. E se scambiassimo i ruoli…Giuseppe Conte non lo vedrei male ad allenare una squadra di calcio. Matteo Salvini sarebbe un perfetto amministratore delegato di una società sportiva in cerca di vendette. Antonio Conte avrebbe tutta la grinta necessaria per governare il Paese; Maurizio Sarri potrebbe fare il Renzi della situazione: l’accento toscano non gli manca. Tutti alla conquista di uno spazio in Europa. Buon divertimento!

La rottura a caldo

La storia, passata e recente, è piena di scissioni all’interno di partiti e movimenti, che generalmente non hanno fatto bene a nessuno, né a coloro che, più o meno sdegnosamente, hanno abbandonato la casa, né a chi è rimasto chiuso in casa, né agli attoniti aderenti alla casa, che se la sono vista spartire o addirittura sparire sotto gli occhi. Alle valide ma forzate motivazioni ideologiche si sono spesso aggiunte inevitabili ma dannose spinte personalistiche. Sto grossolanamente generalizzando, ma credo di non essere molto distante da una lettura obiettiva degli accadimenti politici.

Ho preso un’opportuna rincorsa storica per approcciare una questione che avvelena i rapporti interni al partito democratico: da tempo soffia aria di scissione. Sulla sinistra se ne sono andati i vedovi della foresta burocratica post-comunista. Al centro sembra se ne stiano andando gli inconsolabili nostalgici della balena bianca post-democristiana. Sto brutalmente semplificando i termini della questione.

Il partito democratico è nato prematuramente dopo essere stato frettolosamente concepito in provetta, ma ormai è nato e bisogna tenere conto che da una separazione il figlio gracile e pieno di problemi ne uscirebbe disorientato e danneggiato. Posso capire le ragioni di tutti anche se spesso non ne condivido lo spirito. Lasciamo stare il fallimento annunciato di Leu, l’ennesimo partitino della sedicente sinistra pura e dura. Ora siamo alle prese con le smanie renziane di occupare il centro del ring a costo di prendere un sacco di botte. Si intravede una incontenibile voglia di rivincita associata al desiderio di rispondere alla necessità di avere una forza politica autenticamente liberal-democratica, collocata in Europa a dispetto del resto del mondo, che sta andando disperatamente verso altre soluzioni politiche di stampo populista.

Questo teorico progetto rischia di buttare o di accantonare l’acqua sporca del burocratismo e dello snobismo di sinistra assieme al bambino palpitante dell’uguaglianza e della giustizia sociale.  Oltre tutto questa insofferente e insopprimibile spinta nuovista prende corpo proprio nel momento in cui il PD sta riprendendo quota: ha promosso un governo in cui detiene cariche importantissime, ha recuperato ruolo, spazi e protagonismo a livello europeo, sta faticosamente elaborando una strategia per difendere la sua presenza a livello territoriale.

Matteo Renzi ha spinto sull’acceleratore del governo con i cinquestelle anche se ha lasciato intendere una concezione di tale operazione politica più di necessità che di virtù. Abbandonare il campo sarebbe comunque una decisione avventata e spregiudicata. Non vorrei che allo “stai sereno” rivolto qualche anno fa a Enrico Letta, se ne aggiungesse uno rivolto a Zingaretti e Conte. Non si può nemmeno mettere continuamente il partito sotto la spada di Damocle di una scissione: sarebbe uno stillicidio molto pericoloso. Renzi dica cosa vuol fare e la smetta di giocare a nascondino persino con le istituzioni democratiche. La mia montante delusione nei suoi confronti raggiungerebbe l’apice.

Vedo anch’io, modestamente e dal mio punto di vista piuttosto defilato, tutti i difetti di questo partito: mi ero illuso potesse sintetizzare al meglio la cultura politica del cattolicesimo democratico con quella del socialismo democratico. Nel mio impegno politico ero sempre stato orientato in tal senso: nel mio piccolo, dalle fila della sinistra DC lanciavo sfide dialogiche ai comunisti disponibili al percorso democratico. Quando si costituì il partito democratico mi considerai ingenuamente e presuntuosamente un profeta: finalmente si avverava il sogno della mia militanza politica. Forse mi illudevo, ma prima di affossare questo disegno vale la pena riflettere con molta pazienza. Non è il caso di sostituire una fusione a freddo con una rottura a caldo.

I vilipendi paralleli

C’era da aspettarselo. Le rabbiose manciate di fango leghiste contro le istituzioni democratiche non hanno risparmiato il presidente della Repubblica. Durante la giornata preparatoria del raduno di Pontida, dedicata ai giovani padani o leghisti, come dir si voglia, il deputato veneto Vito Comencini ha lanciato parole durissime contro Sergio Mattarella: «Questo presidente della Repubblica, lo posso dire? Mi fa schifo. Mi fa schifo chi non tiene conto del voto del 34 per cento degli italiani». Sono penose dichiarazioni che si configurano come vilipendio del Capo dello Stato.

Non mi stupisco perché la follia di questa gente non ha limiti e il loro rancore deve pur trovare uno sfogo. C’è però un piccolo particolare: il voto del 34 per cento degli italiani, prima di brandirlo come arma politica, i leghisti se lo devono conquistare nelle urne giuste, quelle delle elezioni politiche. Poi, semmai, se ne potrà parlare. Se vanno avanti così, può darsi che quella percentuale si assottigli, anche se la pancia degli italiani non ha certo smesso di brontolare.

Mi sono ricordato che anche i grillini, durante le consultazioni che culminarono nella formazione del governo giallo verde, il precedente governo, quello che io amo chiamare pentaleghista, per bocca di Luigi Di Maio attaccarono duramente il Capo dello Stato. L’esecutivo M5s-Lega era alle prese con la candidatura di Paolo Savona come ministro dell’Economia, giustamente contrastata da Mattarella in quanto caratterizzata da una chiara impronta antieuropeista. Immediata fu la reazione di Lega e M5S. Salvini invocò immediatamente un ritorno alle urne. Anche Luigi Di Maio puntò il dito contro il Quirinale: “La scelta di Mattarella è incomprensibile. La verità è che non vogliono il M5S al governo, sono molto arrabbiato ma non finisce qui. Dovete sapere che oggi ci è stato impedito di fare il governo del cambiamento e non perché noi ci eravamo intestarditi su Savona ma perché tutti quelli come Savona non andavano bene… chi era stato critico su euro ed Europa non va bene come ministro”. Poi intervenendo telefonicamente a Che Tempo che fa arrivò a chiedere l’impeachment per Mattarella: “Io chiedo di parlamentarizzare questa crisi, utilizzando l’articolo 90 della Costituzione, per la messa in stato d’accusa del presidente della Repubblica. E chiedo alle altre forze politiche di appoggiarla”.

La farneticante storia si ripete. Il governo M5S-Lega si fece, Savona andò ad occupare una poltrona ministeriale meno imbarazzante e la minaccia di impeachment non so se suscitò più orrore, pena o umorismo. Ora tocca alla Lega raccogliere il testimone della “stupidità politica”. Questa staffetta antidemocratica e questo obiettivo collegamento storico aggiungono seri dubbi alla serietà del movimento cinque stelle e del suo coinvolgimento in un governo diverso dal precedente. Sì, perché quel signore, che un anno fa voleva mettere in stato d’accusa Sergio Mattarella, ricopre oggi nientepopodimeno che la carica di ministro degli Esteri.  Meglio lasciar perdere, perché più ci penso e più trovo ragioni di scetticismo verso il governo Conte 2.  Per dirla con una ardita parafrasi di Giuseppe Giusti e del suo Sant’Ambrogio, “qui, se non fuggo, abbraccio Calenda e Richetti, col loro bravo liberismo centrista, piantato lì come moderato riformismo”. Dio mio, come rischio di finire…, liberale, schiacciato nella morsa tra leghismo e grillismo. E la sinistra? Rimandata al prossimo secolo!

Gli slogan stanno in poco posto

Lo stucchevole ritornello leghista sulla vocazione alle poltrone è puro ed acido qualunquismo per due motivi molto semplici. Innanzitutto se c’è questo difetto è generale e trasversale; riguarderebbe tutta intera la classe politica, tutti i partiti, tutti i governi e non soltanto gli ultimi arrivati a palazzo Chigi. Per giungere all’accordo di governo i pentaleghisti impiegarono oltre un mese in un tira e molla vergognoso: si era ormai avviata la procedura per un governo tecnico e ci volle solo la pazienza e lo scrupolo presidenziale di Mattarella per consentire che nascesse il governo giallo-verde. Quella interminabile trattativa riguardò il contratto di governo, ma anche gli equilibri di potere e le scelte dei componenti la squadra a cominciare dal premier. Salvini puntava decisamente alla poltrona di ministro degli Interni e anche le altre poltrone furono spartite col bilancino del farmacista (basti pensare ai due vice-premier messi di guardia…). Quindi è perfettamente inutile fare finta di scandalizzarsi, atteggiandosi a verginelle della politica e a difensori del popolo. Ma fatemi il piacere…

Poi, il problema della spartizione delle poltrone non è di per sé cosa negativa: bisogna vedere con quale spirito si vanno ad occupare e a quale scopo. Questo lo si può verificare solo a posteriori. Il precedente governo non ha certo brillato in tal senso e non ha onorato le poltrone, facendone spesso il pulpito da cui fare una estenuante campagna elettorale. Sarà meglio quindi cambiare ritornello.

In effetti c’è un secondo punto d’attacco per la propaganda pregiudiziale dei leghisti contro il governo Conte 2. “Elezioni, elezioni” si grida nelle piazze, in Parlamento, nei media. Questa eventualità è stata valutata ed esclusa per il momento dal presidente della Repubblica, che ha verificato l’esistenza di una maggioranza parlamentare, un po’ strana ma reale, e quindi ha concesso il giusto respiro alla legislatura. Vale ben poco l’obiezione riguardante il cambio degli equilibri fra i partiti alla luce delle consultazioni locali, regionali ed europee: ogni elezione, pur avendo rilevanza politica, ha il suo scopo istituzionale e non a caso la consultazione politica ha una prospettiva quinquennale, per legare cioè il giudizio popolare al completo svolgimento del mandato parlamentare. Certi provvedimenti possono avere impatto negativo sul giudizio dei cittadini, poi, alla lunga possono avere un effetto ben diverso. Non si può quindi sottoporre il Parlamento ad un monitoraggio sondaggistico ed a continue verifiche provvisorie.

L’opposizione deve indubbiamente fare il proprio mestiere, ma sarebbe opportuno che si applicasse al merito e non si limitasse a pregiudiziali di metodo. Posso capire il livore leghista verso l’amante traditore, ma devono farsene una ragione: il loro matrimonio di interessi, formalizzato nel famoso contratto di governo, è miseramente fallito e, come avviene per i veri matrimoni, è inutile e impossibile risalire alle colpe, perché esse generalmente sono imputabili ad entrambe le parti. Chi è il traditore? Salvini con la sua smaniosa voglia di comandare e dettare le regole o Conte con la fine della pazienza messa a dura prova? Salvini che flirtava con le piazze o i grillini che flirtavano con l’Europa? I leghisti con i loro sbrigativi “sì” o i pentastellati con i loro infiniti “no”? Si tratta di un esercizio inutile e dannoso per tutti. I leghisti se ne facciano una ragione e si guardino in casa: le loro contraddizioni prima o poi usciranno dal baccano propagandistico e appariranno in tutta la loro evidenza.

È una fase politica strana e quasi paradossale. Bisogna raffreddare il clima. L’opposizione torni ad essere costituzionale. La maggioranza abbia la pazienza di costruire qualcosa di buono. Il governo smetta di litigare e chiacchierare per svolgere il suo compito di governare. Poi, a suo tempo, si giudicherà e, quando sarà il momento, si andrà anche a votare. Lo decideranno le scadenze costituzionali o quelle determinate dal capo dello Stato. Una cosa è certa: non andremo a votare perché urla Salvini o perché lo desidera la Meloni.

Quando la villania diventa stile

Ho ascoltato con sofferta attenzione l’intervento del senatore del partito democratico Matteo Richetti, il quale, in dissenso rispetto alla linea del partito, non ha votato la fiducia al governo Conte 2: argomentazioni lucide, obiettive e condivisibili. Nell’intervista rilasciata successivamente ha spiegato di avere dialogato a lungo col collega Graziano Del Rio, che ha tentato inutilmente di convincerlo a dare la fiducia a Conte, magari con tutti i distinguo, rimanendo nel gruppo parlamentare e nel partito. Due persone molto serie, due politici impegnati finalmente in discorsi di fondo. Dopo avere ascoltato, quasi con commozione, le loro reciproche attestazioni di stima, mi sono un po’ riconciliato col PD: pur con tutti i difetti e i limiti è l’unico partito politico che meriti attenzione e considerazione. Un vero peccato che Richetti se ne vada e che Del Rio non sia entrato nel nuovo governo.

Sono andato indietro nel tempo della mia modestissima esperienza politica: al termine della leadership zaccagniniana, emerse nella democrazia cristiana il ritorno all’impostazione di stampo doroteo, allora incarnata dal pur intelligente Arnaldo Forlani. Non poteva più essere il mio partito e decisi di dimettermi da semplice iscritto qual ero. Il carissimo amico Giorgio Pagliari tentò di convincermi a rimanere in pista, puntando sull’accattivante argomentazione di fare argine, come sinistra Dc, alla deriva di destra che si stava profilando. Restai fermo nella mia decisione, che diventò addirittura un addio definitivo alla militanza politica. Giorgio Pagliari ha fatto, con rara coerenza e grande spirito di servizio, la sua carriera politica. Io mi sono ritirato in buon ordine ed ho cercato di fare, con altrettanta coerenza e senso del dovere, un diverso percorso a livello professionale e sociale. Siamo rimasti amici, anzi sempre più amici. La politica comporta scelte importanti e decise, perché è una cosa seria e come tale va rispettata e vissuta.

Il giorno successivo al voto parlamentare sul governo Conte mi è capitato di assistere a una squallida performance televisiva dell’ex ministro leghista dell’agricoltura Gian Marco Centinaio: non riuscendo a trattenere, ma nemmeno a contenere, la rabbia per la disfatta politica leghista, si è addirittura rifiutato di incontrare la nuova ministra Teresa Bellanova per il passaggio delle consegne, trincerandosi dietro il fatto che tutto è perfettamente conosciuto dai tecnici ministeriali, ammettendo indirettamente di non aver dato alcun indirizzo politico a quel  dicastero.  Possibile scendere a tanta scortesia? Almeno un po’ di correttezza, un po’ di stile, un po’ di rispetto per una collega. No, la politica brutalmente incattivita. E questi sarebbero i preferiti dagli italiani? Ben venga il nuovo governo del sollievo (come lo ha acutamente e simpaticamente definito Beppe Severgnini).

Nello stesso giorno o in quello immediatamente successivo, durante una trasmissione politica mattutina Giuliano Cazzola, politico, giornalista, economista, ex sindacalista, ex parlamentare, si è espresso in modo triviale in un giudizio categorico su Matteo Salvini, mandandolo, senza giri di parole, a fare in c… Non mi scandalizzo, durante la mia esperienza, nelle sedi politiche o parapolitiche ho sentito e visto di peggio, con una piccola differenza:  allora  erano sfoghi episodici, che non intaccavano la sostanza del dibattito politico, oggi sono la triste sostanza del dibattito ridotto a sberleffi, rutti, urla, pernacchie e simili. Giuliano Cazzola si è adeguato, evidentemente non ne poteva più al punto che ha fatto addirittura molta fatica a chiedere scusa. Salvini ci va a nozze: è la sua politica. Speriamo che il sollievo di cui sopra non finisca, ma diventi definitivo.

 

La pagliuzza nell’occhio dei disperati

Come tutti forse ricorderanno, l’esponente radicale Marco Cappato è finito sotto processo per aver assistito e confermato Fabio Antoniani, meglio conosciuto come dj Fabo, nelle sue intenzioni suicidarie. Nell’ambito di questo procedimento giudiziario, lo scorso anno la Corte d’Assise di Milano, a proposito della sospetta illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice Penale, che punisce chi aiuta o istiga una persona al suicidio, ha sollevato la questione davanti alla Corte Costituzionale, la quale ha deciso di rinviarne la trattazione  all’udienza del prossimo 24 settembre, invitando nel frattempo il Parlamento a colmare il vuoto giuridico riguardante le situazioni relative al fine vita.

Il Parlamento non ha concluso praticamente niente, l’attuale governo si è chiamato fuori dalla questione, ritenuta di esclusiva competenza parlamentare, tutti pontificano e nessuno ha il coraggio di varare uno straccio di legge che cerchi di regolamentare seriamente problemi delicatissimi, incidenti direttamente sulla pelle delle persone in stato, comunque, di gravissima sofferenza.

Tra chi pontifica c’è naturalmente la Chiesa cattolica, che si è espressa in questi giorni con un intervento del cardinal Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia e presidente della Conferenza episcopale italiana. Egli non ha risparmiato critiche al Parlamento che «incaricato dalla Corte costituzionale di legiferare attorno alle questioni dell’eutanasia e della morte volontaria», si è «limitato a presentare alcune proposte di legge, senza pervenire né a un testo condiviso, né ad affrontare in modo serio il dibattito». Poi è entrato nel merito, esprimendo forti dubbi «sulla presunta esistenza di un diritto alla morte». Ha quindi ribadito con forza: «Va negato che esista un diritto a darsi la morte: vivere è un dovere, anche per chi è malato e sofferente. Mi rendo conto che questo pensiero ad alcuni sembrerà incomprensibile o addirittura violento. Eppure, porta molta consolazione il riconoscere che la vita, più che un nostro possesso, è un dono che abbiamo ricevuto e dobbiamo condividere, senza buttarlo, perché restiamo debitori agli altri dell’amore che dobbiamo a loro. (…) Anche nel caso di una grave malattia, va respinto il principio per il quale la richiesta di morire debba essere accolta per il solo motivo che proviene dalla libertà del soggetto. (…) La vita non ce la siamo data e come non ce la siamo data, non ce la possiamo togliere. Tutto deve essere pro-life, tutto deve essere per la vita. Bisogna solo cambiare mentalità e convertirsi, non scegliere le strade più semplici. È un messaggio a tutti».

Non mi soffermo sul discorso della laicità dello Stato e quindi sull’inopportunità della Chiesa di parlare nella mano a legislatori e governanti. Questi interventi, come altri ne ha conosciuto la storia politica italiana, sono magari formalmente rivolti ai cattolici impegnati in politica, nel sociale, nelle scuole o nelle università, ma in realtà tendono a intromettersi nel campo riservato alle istituzioni democratiche. Vedo spuntare all’orizzonte una seconda vicenda simile a quella del divorzio, che fu drammaticamente divisiva all’interno della Chiesa e assolutamente fuorviante per la politica.

Come ai tempi del referendum sul divorzio non mi limito alla distinzione fra Chiesa e Stato, ma come cattolico mi permetto di dissentire dall’impostazione della gerarchia nel merito del problema. La vita è certamente un dono di Dio, ma quando mai un dono diventa un obbligo, un dovere, un limite alla libertà. Come può la carità divina non capire il dramma di un figlio che, distrutto fisicamente e/o psicologicamente, al colmo della sofferenza, decida di chiudere dignitosamente la propria esistenza rimettendola nelle mani di Dio? Mi ribello al solo pensare che Dio possa rispondere alla Bassetti, tirando in ballo l’etica, l’antropologia e la teologia, di fronte alle immani sofferenze di una persona che non ce la fa più a vivere e chiede di mettere fine ai suoi giorni.

La Chiesa continua imperterrita a legare e caricare pesi gravi e insopportabili sulle spalle degli uomini, senza volerli muovere neppure con un dito.  Non è infatti sufficiente il richiamo al sostegno ed all’assistenza dei malati e delle persone deboli: ci devono essere, ma possono anche non esserci o non essere sufficienti. E allora? Continuiamo pure, come diceva Indro Montanelli, a nasconderci dietro “beghe di frati”. Pierluigi Bersani, fra le tante battute discutibili, ne azzeccò una in materia di fine vita, respingendo seccamente l’ipotesi che il momento della propria morte potesse dipendere dal volere del parlamentare devoto Gaetano Quagliariello. Io vado giù ancora più duro e affermo solennemente che la mia morte non la condizionerà nemmeno il cardinal Bassetti con la sua Conferenza episcopale schierata, il quale ha così concluso il suo intervento: «Ognuno nella Chiesa ha la propria responsabilità.  Io stasera. Vescovo pilota o non pilota, ho fatto un atto di magistero che mi competeva come responsabile dei 228 vescovi italiani». Bene. E, dopo avere fatto questo atto di magistero, riuscirà a dormire in pace pensando alle persone disperate nella loro sofferenza, che desiderano morire, non per un capriccio ma per terminare il loro calvario?  Buona notte Eminenza, sogni d’oro!

 

Lo sfarfallamento di Conte

Giuseppe Conte dopo aver guidato un governo contrattuale espressione di M5S e Lega, si appresta a guidarne uno programmatico appoggiato da M5S, Pd e Leu. Se un cittadino italiano si fosse totalmente estraniato dalla politica e rientrasse in pista, non riuscirebbe a capacitarsi di quanto avvenuto in questi ultimi tempi.

Qualcuno liquida sbrigativamente il cambiamento della situazione come un’operazione trasformistica col passaggio di Conte dal ruolo di burattino in cui era costretto al ruolo di burattinaio a cui si sta convintamente candidando. C’è indubbiamente un aspetto sorprendente nel comportamento di questo personaggio, che apre la porta contro la quale spingeva da fin troppo tempo Matteo Salvini e quest’ultimo cade rovinosamente. Eliminato l’incomodo, si presenta disponibile a rimettere in piedi la baracca con altri interlocutori. Il partito democratico, dopo un iniziale richiesta di discontinuità a livello di guida governativa, si adegua e accetta Giuseppe Conte premier di un governo di segno assai diverso dal precedente.

L’operazione suscita qualche perplessità anche se si può capire come Conte pian piano sia passato da bruco (mero notaio) a crisalide (problematico garante) ed infine abbia rotto il bozzolo leghista per trasformarsi da crisalide in farfalla (vero politico) e volare autonomamente, assumendo il ruolo di play maker di una nuova squadra rinnovata a metà e rimotivata totalmente. Il problema però è che anche i giocatori grillini non ne azzeccavano una, ma sono stati salvati dopo un bagno rigeneratore culminato nel tuffo dalla piattaforma Rousseau. Nel calcio, quando la squadra va male, si tende a cambiare l’allenatore, nel governo italiano si è preferito mantenere lo stesso allenatore e cambiare metà squadra nella speranza che egli sia capace di adeguare la tattica alla nuova compagine a sua disposizione.

L’allenatore godeva tutto sommato della fiducia dei tifosi, era ritenuto da molti vittima dello spogliatoio in cui non riusciva ad imporsi. Fino al giorno del redde rationem, quando l’ha messa giù dura: o via Salvini o via io. Sarebbe meglio dire: via Salvini, dopo di che io posso anche restare. C’hanno creduto ed eccoci al governo Conte 2. Il campionato è lungo e ancora tutto da giocare. Se non si è capito, pur tra mille perplessità non mi sento di buttare addosso a Giuseppe Conte la croce dell’opportunismo trasformista. Guidare una squadra con due capitani come Salvini e Di Maio deve essere stato un autentico stillicidio e da questo punto di vista ha tutta la mia comprensione: dal momento che non si potevano eliminare entrambi i galli del pollaio, si è fatta la scelta del male minore, sperando di recuperare gioco e punti negli stadi europei all’uopo riaperti.

Ecco spiegato a modo mio il ribaltone. In un programma televisivo si sono divertiti a spulciare le frasi contraddittorie pronunciate da Conte: forse nella vita di tutti, se si facessero simili impietose rivisitazioni, pochi uscirebbero indenni. Conte non passerà alla storia come un raro esempio di coerenza, ma nemmeno come il recordman del trasformismo. Chi vivrà, vedrà.

Uno sfregio al Parlamento

Mi risulta che in sala parto vengano ammessi solo la partoriente, medici ed assistenti e, a richiesta, il padre del nascituro. Per la nascita del governo Conte 2 si è fatta un’eccezione, perché al parto oltre al Parlamento ha partecipato la piazza con grida e urla, che hanno coperto le parole contenute e misurate del presidente del Consiglio. Non mi riferisco tanto alla sguaiata ed equivoca manifestazione di piazza tenutasi in contemporanea all’inizio del dibattito parlamentare per la fiducia al governo (stendardi, saluti fascisti, persino crocifissi in chiave esorcista), ma alla piazzata fatta in aula dai parlamentari della Lega e di Fratelli d’Italia con reiterati cori da stadio, interruzioni continue, applausi di scherno (mancava solo il “devi morire” che a volte si sente negli stadi all’indirizzo di qualche avversario in campo).

Uno spettacolo indecente, un’autentica picconata alla democrazia parlamentare, uno sgarbo alla costituzione, offese urlate, grida vergognose e rancorose. Mi sono sentito umiliato e offeso. Il presidente del Consiglio, durante la sua replica, è riuscito a tenere un atteggiamento corretto anche se talora provocatorio: forse la decisione di controbattere puntualmente alle pesanti accuse è stata dettata dalla volontà di smascherare fin dall’inizio un’opposizione intenta alla contestazione violentemente parolaia e pregiudiziale. Non so dargli torto. Meglio giocare a carte scoperte.

Mi ha invece sorpreso e innervosito l’atteggiamento debole e inconcludente del presidente della Camera Roberto Fico: non ha voluto e saputo fronteggiare sul piano disciplinare l’attacco alla dignità dell’aula parlamentare trasformata in una vera e propria bolgia. Solo deboli e penosi richiami alla correttezza, un permissivismo inaccettabile e pericoloso. C’erano gli estremi per un richiamo altisonante e per l’interruzione della seduta con immediata convocazione dei capigruppo per i provvedimenti del caso. Roberto Fico, come si suole dire, non ha tirato fuori i coglioni, forse perché, politicamente ed istituzionalmente parlando, non li ha o forse perché temeva di essere coinvolto dagli attacchi leghisti (si sono ben guardati dall’applaudire all’operato di Mattarella e, se tanto mi dà tanto, potevano incollare al muro il presidente della Camera come una pelle di Fico).

Ha risuonato reiteratamente l’urlo “elezioni-elezioni” come delegittimazione del Parlamento riunito in assemblea, del Governo che chiedeva la fiducia, del Presidente della Repubblica che ha ritenuto di proseguire la legislatura e di non sciogliere il Parlamento. A Fico correva l’obbligo di intervenire per chiarire questi aspetti e di reagire a difesa del Parlamento e delle altre Istituzioni: un Pertini, uno Scalfaro, una Iotti ed un Napolitano avrebbe reagito duramente sentendosi investiti della parte. Invece, “Colleghi vi richiamo all’ordine…” e quelli a urlare ancora più forte con gesti da osteria (con tutto il rispetto per le osterie).

Stiamo bene attenti perché gli attacchi alla democrazia partono proprio dalla sostituzione della logica parlamentare con quella della piazza in una confusione di ruoli che sappiamo dove tende a parare. Pur non essendo mai stato comunista, ho tanta nostalgia per il senso di responsabilità di quel partito, che sapeva fare durissima opposizione nelle piazze e in Parlamento, ma rispettando la Costituzione e la democrazia. Qualcuno sta facendo un forzato parallelismo tra la diplomazia politica di Giuseppe Conte e quella storica dei democristiani: mi sembra un po’ eccessivo e fuorviante. Se mai Conte potesse assomigliare a un democristiano, certamente i leghisti e i fratelli d’Italia non assomigliano ai comunisti, non in quanto portatori di una politica di estrema destra, ma in quanto estranei al patto costituzionale che sta alla base della nostra democrazia parlamentare.