Se il ministro Nordio studiasse il pensiero penalistico di Aldo Moro

Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha annunciato la costituzione di una task force per affrontare l’emergenza del sovraffollamento carcerario. Il Guardasigilli ha in mente di far uscire dalle carceri oltre 10.000 detenuti per destinarli a pene alternative. Una mossa a sorpresa che, di fatto, nel breve e medio periodo lo mette al sicuro dagli attacchi dell’opposizione che a più riprese ha chiesto le sue dimissioni.

Dopo un monitoraggio sulla situazione carceraria, il ministero guidato da Carlo Nordio ha reso noto che 10.105 detenuti in tutta Italia presentano una pena residua inferiore ai 24 mesi e non sono stati condannati per reati ostativi.

Si tratta, cioè, di quelli elencati all’articolo 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario, e non hanno subito sanzioni disciplinari gravi negli ultimi 12 mesi.

Si parla quindi di soggetti che, secondo la normativa vigente, potrebbero accedere a pene diverse dalla detenzione in carcere: affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare e sanzioni sostitutive previste dalla recente riforma Cartabia.

 Per coordinare questo processo, è stata istituita una task force che ha già avviato contatti con la magistratura di sorveglianza e con i direttori degli istituti penitenziari, con l’obiettivo di accelerare la valutazione delle singole posizioni.

Il gruppo si riunirà ogni settimana e dovrà concludere i lavori entro settembre 2025. La scelta del Ministero della Giustizia si inserisce in un quadro di riforma del sistema penale, che punta a rendere più efficaci le misure alternative, alleggerendo il carico sulle carceri.

Secondo gli ultimi dati, le carceri italiane ospitano oltre 61.000 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di poco più di 51.000 posti. Si parla di emergenza, ma il sovraffollamento, di fatto, è cronico.

Il tempismo con il quale da una maggioranza di destra arriva la decisione di scarcerare oltre 10.000 detenuti per destinarli a pene alternative fa alzare un’antenna a chi sospetta che si tratti anche di una mossa strategica per stemperare le polemiche.  (virgilio.it)

Voltaire, nel diciottesimo secolo, affermava: «Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri». L’affermazione che uno stato democratico si giudica dal suo sistema carcerario è un tema di dibattito e riflessione. Sebbene non sia l’unico indicatore, il sistema carcerario riflette in modo significativo i valori e i principi di una società democratica, in particolare per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani e il reinserimento sociale.

Un sistema carcerario che garantisce il rispetto della dignità umana, condizioni di vita dignitose, e programmi di riabilitazione e reinserimento sociale, può essere considerato un segno di uno stato democratico che pone al centro il valore della persona, anche di chi ha commesso reati. Al contrario, un sistema carcerario caratterizzato da sovraffollamento, violazioni dei diritti, e mancanza di programmi di riabilitazione, può essere indice di una società che non riesce a garantire i principi democratici fondamentali.

Temo purtroppo che l’approccio governativo al problema sia di carattere meramente contingente: una sorta di scolmatura della fetida pentola carceraria in cui succede di tutto. Politicamente parlando rischia di essere un contentino che non risolverà il problema delle carceri, ma lo sottrarrà alle ricorrenti e purtroppo inconcludenti polemiche.

Sempre meglio di niente, sono perfettamente d’accordo! Sorge però il dubbio che questa uscita nordiana serva a lui per sgattaiolare fuori dagli attacchi parlamentari subiti sul caso Almasri e sulla riforma della giustizia. Ecco perché senza buttare benzina sul fuoco, penso sia necessario comunque andare in profondità e lo faccio richiamando il pensiero di Aldo Moro tratto da “Il punto quotidiano-Albo scuole”.

Secondo Moro, lo Stato non deve solo preoccuparsi di punire chi ha commesso il reato, ma deve anche rivolgere lo sguardo all’avvenire applicando e svolgendo dei programmi e percorsi di prevenzione: “l’attenzione primaria verso ciò che è accaduto con il reato non vuole escludere che lo stato nel ricorrere alla pena debba rivolgere uno sguardo anche all’avvenire, e cioè alla prevenzione” e questo perché “l’intervento repressivo e quello preventivo” devono procedere insieme “avendo di mira, con diversità di mezzi, lo stesso fine generale che è la difesa della società”. Per Moro dunque la pena non deve significare far male per il male ricevuto, la pena non è la legge del taglione, ma è lo strumento per affermare valori fondamentali come il bene e la giustizia, per riportare la società dal disordine all’ordine. L’elemento che ha contraddistinto l’opera e il pensiero di Moro è sempre stata questa grande fiducia nell’uomo, uomo che tra il bene e il male può scegliere il bene. Scrive sul “Giorno” il 20 gennaio 1977: “Non dobbiamo forse ritenere che un momento di bontà, un impegno dell’uomo, dell’uomo interiore, di fronte alla lotta fra bene e male, serva per far andare innanzi la vita? Un impegno personale che non escluda, è ovvio, il necessario ed urgente dispiegarsi di iniziative sociali e politiche, ma lasci alle energie morali di fare, esse pure, nel profondo, la loro parte”. E ancora sullo stesso quotidiano, il 10 aprile, “La storia sarebbe estremamente deludente e scoraggiante, se non fosse riscattata dall’annuncio, sempre presente, della salvezza e della speranza. E non parlo naturalmente solo di salvezza e di speranza religiose. Parlo, più in generale, di salvezza e di speranza umane che si dischiudono a tutti coloro che hanno buona volontà”. È forse proprio grazie agli insegnamenti di Aldo Moro se oggi vengono messi in atto percorsi riabilitativi per i carcerati. Per Moro, la giustizia deve essere contemporaneamente repressione, purificazione e rieducazione, essa è reazione ad un comportamento considerato socialmente da sanzionare e la definizione di una purificazione che possa consentire il rientro sociale della persona.

Di fronte a un gigantesco problema, come quello della carcerazione, non si può traccheggiare, giocare al rinvio, limitarsi a togliere un po’ di carne dal fuoco. Bisogna rifarsi al pensiero penalistico di un autentico gigante della scienza giuridica e della politica. Politici, parlamentari e ministri abbiano l’umiltà di rifarsi alla Costituzione e ad uno dei padri costituenti più autorevoli in materia. Noi – plurale maiestatis assai poco prestigioso e riferito a tanti, dai burattinai internazionali ai burattini brigatisti, dai perbenisti della politica ai coccodrilli di regime – l’abbiamo ucciso come un cane, lui ci continua a parlare di giustizia.

Una Milano ancora da bere

«Questa città ha sempre avuto una certa riluttanza ad affrontare la questione morale» spiega oggi il professore di Sociologia della criminalità organizzata all’Università degli Studi di Milano. «Me ne accorsi proprio in quella campagna elettorale. La legalità spaventa, inquieta: è il dehors costruito senza permesso, il gradino abusivo, la raccomandazione. Da allora quando parlo di questi temi, suggerisco a chi vuole candidarsi di parlare di correttezza, piuttosto che di legalità. È un concetto più semplice da accettare per il cittadino comune. Peccato poi che quando si fa riferimento al principio di correttezza, la correttezza da discutere è solo quella degli altri».

(…)

«Come si fa a non provare imbarazzo per le carte che stanno uscendo dalla Procura? Chi può immaginare di costruire grattacieli dentro un cortile? Spero si provi almeno un po’ di vergogna…».

(…)

«Per questo dico che Milano non ha gli strumenti per affrontare la questione morale. Non vuol dire che devono comandare i tribunali, al contrario. Vuol dire che la legalità può essere un sentimento e una risorsa da utilizzare dal punto di vista etico e giuridico per immaginare un futuro sostenibile. Invece, nel tempo dell’edilizia forsennata, è stato fatto tutto immaginando che Milano dovesse essere una città di ricchi. Ma le città dei ricchi non esistono, perché dove ci sono i ricchi esistono anche i poveri. Il punto è che ai poveri non ha pensato più nessuno. Chi ha tutelato i diritti di insegnanti, autisti, rider, lavoratori del terziario? Nessuno. Così nella metropoli è scomparso anche il ceto medio».

(dall’intervista rilasciata da Nando Dalla Chiesa al quotidiano “Avvenire”)

 

Non ho molto da aggiungere, in ordine alla grave emergenza amministrativa conseguente alle indagini in corso a Milano sulla gestione “allegra” dell’urbanistica, rispetto a questa sacrosanta e civica denuncia: non so se molti cittadini avranno la forza di indignarsi, mentre i politici sgattaiolano intorno al problema, rifugiandosi all’ombra del garantismo che li accomuna tutti.

Non è un caso che Giorgia Meloni abbia così dichiarato: “La mia posizione è quella che ho sempre su questi casi: penso che la magistratura debba fare il suo corso, e per quello che riguarda il sindaco, io non sono mai stata convinta che un avviso di garanzia porti l’automatismo delle dimissioni. È una scelta che il sindaco deve fare sulla base della sua capacità, in questo scenario di governare al meglio. Non cambio posizione in base al colore politico degli indagati”.

Prima della questione giudiziaria viene quella morale. La vogliamo smettere di confabulare alle spalle dei cittadini e di distrarci di fronte alle moderne e sofisticate congiure ai danni delle nostre città?

Come ai brutti tempi di tangentopoli anche oggi esistono due istituzioni che possono aiutarci nella difesa contro la deriva della corruzione: la Magistratura e la Chiesa.

La magistratura, forse un po’ troppo a macchia d’olio e sporadicamente, scoperchia le pentole, salvo essere immediatamente accusata di esorbitare dai suoi poteri e di volersi intromettere nella politica o quanto meno di volerla condizionare. Non bisogna disturbare il manovratore?

Papa Francesco aveva idee molto chiare: «È l’ambiente che facilita la corruzione. Non dico che tutti siano corrotti, ma penso sia difficile rimanere onesti in politica. Parlo dappertutto, non dell’Italia. Penso anche ad altri casi. A volte vi sono persone che vorrebbero fare le cose chiare, ma poi si trovano in difficoltà ed è come se venissero fagocitate da un fenomeno endemico a più livelli, trasversale. Non perché sia la natura della politica, ma perché in un cambio d’epoca le spinte verso una certa deriva morale si fanno più forti» (papa Francesco intervista a “Il Messaggero” del 29 giugno 2014).

Anche lui, quando era in vita, veniva ascoltato per modo di dire, adesso è stato precipitosamente giubilato: come sostiene don Luigi Ciotti, la corruzione rimane un tema non sufficientemente entrato nella riflessione della Chiesa ed è tuttora un vuoto da colmare.

Il mio caro amico Pino mi ha regalato una delle sue stupende riflessioni: “Madre Teresa di Calcutta è la capofila dei mistici della compassione, padre Pio da Pietrelcina è il capofila dei mistici dell’espiazione, Giorgio La Pira è capofila dei mistici della politica. Quanto è difficile conciliare la mistica con l’impegno in politica!”.

Ecco come si espresse il sindaco di Firenze Giorgio La Pira nel 1955 alla segreteria nazionale della DC: «Fino a quando mi lasciate a questo posto, mi opporrò con energia massima a tutti i soprusi dei ricchi e dei potenti. Non lascerò senza difesa la parte debole della città: chiusura di fabbriche, licenziamenti e sfratti troveranno in me una diga non facilmente abbattibile… Il pane (e quindi il lavoro) è sacro. La casa è sacra. Non si tocca impunemente né l’uno né l’altra! Questo non è marxismo: è Vangelo! Quando gli Italiani poveri saranno persuasi di essere finalmente difesi in questi due punti, la libertà sarà sempre assicurata al nostro Paese».

Non voglio buttare, prematuramente e sbrigativamente, la croce addosso a nessuno, ma, se il sindaco di Milano Giuseppe Sala avesse tenuto la barra dritta nella direzione indicata da La Pira, forse Milano non sarebbe ancora nell’occhio del ciclone.

 

 

 

 

 

 

Il benaltrismo della rassegnazione

Un ministro fa fermare un treno per rispettare un appuntamento? La moglie di un ministro salta la fila in aeroporto per motivi di sicurezza? Una ministra non si dimette anche se sotto processo per truffa ai danni dell’Inps? Un ministro non si dimette anche se ha combinato un disastro giuridico-diplomatico? Migliaia di persone inneggiano al fascismo in provocatorie sarabande nostalgiche?

Sono tutti episodi di fronte ai quali scatta l’alzata di spalle tra qualunquismo, benaltrismo e rassegnazione. Qualunquismo: sono tutti uguali e quindi… Benaltrismo: esistono problemi ben più grossi e importanti perciò… Rassegnazione: non ci si può fare nulla ragion per cui…

È severamente vietato scandalizzarsi, indignarsi è roba da bigotti, protestare è tempo perso. Questa è la narrazione popolare: il presupposto pseudo-culturale per il disimpegno civico e politico. È inutile aggiungere che tutto ciò rappresenta l’anticamera ideale per lasciar fare tutto alle destre più o meno estremistiche, più o meno reazionarie.

C’è però anche un’analisi più sofisticata e snob: è politicamente inutile insistere sui pericoli del risorgente fascismo, delle derive autoritarie dietro l’angolo, della strisciante fine della politica; è inutile gridare al lupo perché ormai la gente ha imparato a conviverci; è controproducente spaventare l’elettorato ormai avvezzo ad oscillare fra il proprio portafoglio al posto del cuore e la propria pancia al posto del cervello.

Il berlusconismo prima e il trumpismo oggi hanno istituzionalizzato il menefreghismo, capovolgendo lo schema valoriale, per cui è da ammirare il politico che approfitta della sua posizione: non solo lo si accetta, ma in lui ci si immedesima.

In questo senso si è riusciti anche a neutralizzare la magistratura declassandola a istituzione faziosa e fastidiosa. Come sono lontani i tempi del consenso popolare al pool di mani pulite! Anche la Chiesa non riesce ad intercettare l’eventuale malcontento: come diceva Umberto Bossi, i vescovoni facciano il loro mestiere e non rompano le scatole.

Cosa può far saltare questo malefico equilibrio? C’è uno spot televisivo che lascia intendere di poter risolvere vari problemi “andando da Conad”. Chi pensa di andare da Meloni, chi pensa di non andare più a votare, chi pensa di ritornare a qualche puzzone di turno, chi non pensa proprio.

Sommessamente, tutto considerato e per provare a reagire, dopo aver constatato il livello penoso della classe politica, mi sentirei di consigliare: “Ma vai da Draghi!”. Sì, a Canossa dopo averlo mandato a casa qualche anno fa.

 

 

 

 

 

 

Evviva Sinner, il tennista patriota

Poi, in una magica serata londinese destinata a restare nella storia patria, il vincitore del torneo di tennis più prestigioso al mondo, mai appannaggio d’un italiano, sale a due a due i gradini per correre ad abbracciare i suoi: allenatori, amici, il padre (la madre è appena un poco più su, la raggiungerà tra un attimo). E quel giovanotto di 23 anni, Jannik Sinner, si getta… no; si accosta… no; si fonde con suo padre.

L’immagine è una scultura, nessun dettaglio va ignorato. È il figlio ad appoggiare il capo sulla spalla del padre, il braccio sinistro abbandonato, quasi a dire: non mi serve, ci sei tu. Il figlio chiude gli occhi, sereno, affinché nulla lo possa distrarre. E di distrazioni attorno ne avrebbe a iosa. Il padre non lo stringe con energia, non serve, il suo non è un figlio in fuga da trattenere, un figlio bisognoso di protezione o di rassicurazioni. Il figlio sa che il padre c’era, c’è e ci sarà. Ha avuto il primo grosso, deciso segnale che il padre era presente, assieme alla madre, quando a 13 anni lo ha lasciato andare via. Non l’ha trattenuto per paura, poca fiducia, ansia. L’ha lasciato volare dalle Dolomiti di Sesto al mare di Bordighera, tutto un altro universo. Non l’ha stretto a sé in un abbraccio che sa di prigione, dietro l’apparenza della protezione. Gli ha dato fiducia.

Così adesso Jannik può appoggiare il capo sulla sua spalla, grato. E il padre gli sfiora appena la schiena perché sa che quello è un attimo e il figlio presto ripartirà per il suo viaggio meraviglioso. Gli occhiali scuri proteggono dal sole ma soprattutto dagli sguardi ingordi dei ladri di emozioni, quel pubblico vorace da cui tenersi alla larga. (“Avvenire” – Umberto Folena)

Se non è retorica questa… Smettiamola per cortesia di incensare i fatti sportivi trasformandoli in esaltazioni etiche e pseudo-sentimentali: non facciamo un buon servizio né allo sport né alla società. Non voglio fare il bastian contrario, ma pensiamo ai guadagni da nababbi di questi “eroi”: oltretutto sui loro introiti allargati dallo sport alla pubblicità, che gridano vendetta al cospetto della povertà economica che divora tante persone, a quanto è dato sapere, non pagano nemmeno le tasse rifugiandosi nei paradisi fiscali.

Mio padre non concepiva, nella sua semplicità di vita, questi enormi guadagni. Sogghignava di fronte agli scandalosi ingaggi: “Mo co’ nin farani äd tutt chi sòld li, magnarani tri galètt al di?”  Scherzi a parte mio padre era portatore di un’etica del dovere, del servizio e reagiva, alla sua maniera, alle incongruenze clamorose della società.

Amava mettere a confronto il fanatismo delle folle di fronte ai divi dello sport e dello spettacolo con l’indifferenza o, peggio, l’irrisione verso uomini di scienza o di cultura. Diceva: “Se a Pärma a véna Sofia Loren i corron tutti, i s’ mason par piciär il man, sa gnìss a Pärma Fleming i gh’ scorèzon adrè.”

Alle imprese sportive va tutta la mia ammirazione, ma dei loro protagonisti non accetto di farne una sorta di prototipi esistenziali, come se, per essere persone serie, occorresse imitare le gesta e i comportamenti di Jannik Sinner.

Tanti anni fa durante un amichevole dialogo con un carissimo amico mi venne posta una provocatoria domanda: qual è il personaggio che ammiri di più? Risposi senza tentennamenti: madre Teresa di Calcutta. Non se lo aspettava, chissà cosa avrà pensato dopo il momentaneo imbarazzo…

Nel mio personale ranking al primo posto non c’è Sinner alla faccia dell’equivoco entusiasmo scatenato dalla sua vittoria a Wimbledon. Il tennis è una disciplina sportiva che mi piace molto. Di questo passo riusciranno a rendermela insopportabile come e più del calcio.

 

Tirare a trumpare

L’Europa è pronta ad accettare l’inevitabile: un dazio del 10 per cento imposto dagli Stati Uniti sulla gran parte delle sue esportazioni. Ma non a qualsiasi condizione.

Il commissario europeo al Commercio, Maros Sefcovic, è al lavoro per siglare entro martedì 9 luglio un’intesa commerciale con l’amministrazione di Donald Trump che, pur ammettendo un certo squilibrio a favore degli Usa, consenta di proteggere settori strategici come farmaci, alcolici, semiconduttori e componentistica per aerei.

Lo slovacco si recherà a Washington, dove incontrerà Jemieson Greer, il rappresentante Usa per il commercio, a seguito degli incontri tecnici avuti fra i funzionari europei e degli Stati Uniti in questi giorni. (EUROPATODAY)

La melina non mi piace nel calcio, immaginiamoci nei rapporti pseudo-diplomatici: l’ostruzionismo, per perdere o guadagnare tempo, lo fa chi è in vantaggio e vuol sfruttare la propria posizione di forza; chi è in posizione di debolezza deve cercare di stringere i tempi e di recuperare per portarsi almeno in pareggio.

Donald Trump cambia continuamente le carte in tavola. Era partito, lancia in resta, per silenziare brutalmente Zelensky e dare fiato a Putin e così mantenere la promessa elettorale e avviare a soluzione la guerra contro l’Ucraina in men che non si dica.

Strada facendo ha puntato sull’accaparramento delle terre rare, ammorbidendo l’atteggiamento verso l’Ucraina; ha verificato che Putin è un osso molto duro e sfuggente e quindi si è piegato ad un riarmo ucraino seppure per interposta Ue (una sorta di triangolazione bellica), accontentandosi, si fa per dire, di vendere alla Ue il surplus di armi destinate all’Ucraina.

Trump aveva promesso di risolvere anche il conflitto israelo-palestinese, calmando i bollenti spiriti di Netanyahu e trovando una soluzione plausibile per i rimanenti palestinesi della striscia di Gaza.

Strada facendo ha dovuto far buon viso a cattiva sorte nei confronti dell’incontenibile aggressività israeliana e, dopo aver supportato in modo importante Netanyahu contro l’Iran, si è limitato a dialogare con Israele rilasciando a questo scomodo alleato la licenza di uccidere.

In estrema sintesi la politica estera americana si può definire come la politica del “materasso”: far pagare all’Europa enormi costi, atti a ridurre il debito americano, in termini di armi (oltre le armi all’Ucraina anche il 5% a carico dei Paesi Nato finirà per sostener l’industria bellica statunitense) e di indebolimento industriale.

Questa è la beffarda politica di pace di Trump a fronte della quale la pantomima europea è piuttosto penosa e inconcludente: capisco benissimo le difficoltà di una trattativa con un interlocutore inaffidabile che ha soltanto lo scopo di mettertelo in quel posto. Proprio per questo però bisognerebbe abbandonare la prospettiva di cure palliative che tanto assomigliano ad una poco dignitosa eutanasia di un Europa, smetterla cioè di “tirare a trumpare” per arrivare al dunque.

Un mio carissimo amico, quando gli si chiede come stia di salute, risponde laconicamente che si sopravvive. Mi pare la nitida fotografia della tattica europea nelle trattative con gli Usa: il coraggio i Paesi europei non ce l’hanno e non cercano minimamente di darselo. Sono sparpagliati e intendono solo limitare i danni in una logica che non ha niente di europeismo e tutto di nazionalismo. È un atteggiamento che porta inevitabilmente alla disonorevole e disastrosa sconfitta. Chi ha detto che non esistano alternative: l’Europa unita non è un’entità così facilmente snobbabile e/o dribblabile.

Mio padre, pur essendo di modestissime condizioni socio-economiche, progressivamente e laboriosamente migliorate nel tempo, quando adottava una qualsiasi decisione, non si faceva condizionare dal freno minimalista, ma tendeva sempre al meglio, dicendo: «Bizoggna fogäros in ‘t al mär grand».

Presentarsi uniti, fare massa critica, inserire il discorso dei dazi e delle armi nel rapporto complessivo con gli Usa da reimpostare e ridefinire: questa è l’unica strategia seria di largo e lungo respiro.

Non invidio chi deve presentarsi negli Usa a nome della Ue col cappello in mano, sapendo che c’è dietro l’Europa degli amici del giaguaro. Giulio Andreotti sosteneva cinicamente che fosse meglio tirare a campare piuttosto che tirare le cuoia: nell’attuale quadro politico internazionale le due opzioni sono perfettamente sovrapponibili.

Abbiamo fatto i furbi da gran tempo, pensavamo bastasse far finta di essere europei. Bisognerebbe procedere ad una inesorabile verifica all’insegna del “chi ci sta ci sta, chi non ci sta se ne vada…”. Invece temo che non ci creda e non ci stia (quasi) nessuno e allora non rimane che sperare da malvestiti che l’inverno trumpiano non sia così freddo come può sembrare.

L’altro giorno mi è capitato di seguire su Rai storia una trasmissione di “Passato e presente” dedicata a Francois Mitterand: l’Europa aveva un tempo personaggi di questo calibro, pieni di limiti, difetti ed errori, ma emblematici di una classe di governo carismatica ed autorevole, che saprebbe fronteggiare l’odierna emergenza con ben altro piglio rapportuale e ben altra capacità politico-diplomatica. Con essi Trump non avrebbe il tempo di fare il bullo, oggi invece si permette di prendere tutti per i fondelli giocandoseli l’un contro l’altro.

 

 

 

 

 

PD, primadonnismo democratico

La vicepresidente dell’Europarlamento attacca la linea del partito: “Serve un congresso per chiarire la natura del Pd, oggi chiuso e autoreferenziale”. “Un partito senza confronto non è più il Pd”.

In un’intervista al quotidiano Domani, la vicepresidente del Parlamento europeo Pina Picerno rompe il silenzio e lancia un duro atto d’accusa contro la direzione del Partito Democratico. Le sue parole delineano un clima di crescente malcontento interno: “Sono sorpresa che a due settimane dalla richiesta di convocazione della direzione, e a un mese dalla sconfitta del referendum, non sia stata ancora convocata una direzione per discutere. È sbagliato. Anche deprimente, nel senso che mira a deprimere la vivacità del confronto”.

“Difendere la pace significa difendere e aiutare gli aggrediti – prosegue –. Confondere il pacifismo con la neutralità è un’operazione di comodo. Le classi dirigenti hanno la responsabilità di spiegare e dirigere”.

Il cuore della denuncia riguarda l’identità politica del Pd. “La mia battaglia per ricostruire un partito plurale e rispettoso delle differenze non è solo per la possibilità di avere, da riformista, cittadinanza nel mio partito. Riguarda la natura stessa del Pd”, afferma Picierno. E aggiunge: “Se ci arrendiamo all’idea del club ideologico, smarriamo la funzione per cui siamo nati nel 2008”.

L’europarlamentare rilancia la proposta di un congresso vero: “Se qualcuno lo vuole per rafforzare la sua leadership, lo dica chiaro. Per me è necessario un appuntamento programmatico aperto. Per decidere una volta per tutte la natura, il perimetro e la proposta di governo per il Paese”.

Posso essere stanco di queste “donnette” in cerca di visibilità? A costo di essere considerato politicamente misogino, mi sento di esprimere tutta la mia insofferenza nei confronti di queste persone, che non hanno nulla da dire se non per fare polemica soprattutto fra di loro, sostenendosi indirettamente a vicenda in una continua gossippara passerella.

In questo caso abbraccio, come si diceva un tempo, tutto l’arco costituzionale (?), meglio dire che vado da destra a sinistra senza troppi distinguo. Mia madre direbbe: “Tròppi dònni…”. Hanno peraltro tutti i difetti degli uomini, senza averne i pregi. Quanta nostalgia per donne come Tina Anselmi, Nilde Iotti, Tullia Carrettoni e Maria Eletta Martini.

Di Giorgia Meloni ho una pessima idea come donna-politica e di governo: non aggiungo altro. Per Elly Schlein il discorso è più articolato: non c’è carisma, non c’è esperienza, non c’è soprattutto l’animus popolare della sinistra laica e cattolica. Nel Pd non c’è troppa ideologia, semmai, a mio spassionato giudizio, ce n’è poca.

Sarebbe Pina Picerno in grado ‘d fär gnir al ven in-t-l’uvva? Ma fatemi il piacere… Nel partito democratico vedo soltanto due personaggi in grado di rianimarlo e di riportarlo alle intenzioni serie dei fondatori: Gianni Cuperlo e Graziano Del Rio, gli unici capaci di riattualizzare l’incontro fra cultura cattolica e comunista. Sono però molto isolati. Forse perché fanno politica senza cercare la ribalta a tutti i costi. Di primedonne ce ne sono già a sufficienza tra le donne e tra gli uomini. Forse PD significa primadonnismo democratico?

Quanto al riformismo e/o al centrismo che dovrebbero trovare casa nel PD, sono piuttosto scettico anzi sono decisamente irritato da queste inconcludenti menate. Di quali riforme stiamo parlando? A quale centro si può fare riferimento? Di centro ne ho avuto abbastanza nella Democrazia cristiana: un centro, come diceva De Gasperi, che guardava a sinistra. Altro discorso era la politica morotea, che mirava a garantire i moderati pur nelle scelte di progresso da portare avanti tramite l’alleanza con le forze di sinistra, prima i socialisti e poi i comunisti.

Adesso io mi accontenterei di politiche di sinistra. Vorrei tanto, come diceva Nanni Moretti, sentire dal PD qualcosa di sinistra. Se aspettiamo Pina Picerno, stiamo freschi…  Poi so benissimo che l’arco politico non finisce lì: ci può essere qualcuno a sinistra del Pd e qualcuno più moderato del PD. E a chi affidiamo l’incarico di federatore? A Pina Picerno in dialogo con renziani, calendiani e simili? Ma fatemi il piacere… La politica è mediazione purché sia fatta da esponenti politici altamente rappresentativi e credibili. La storia italiana nel dopoguerra ha offerto quattro progetti in tal senso: il patto costituzionale, il centro-sinistra di Moro e Nenni, il compromesso storico o per meglio dire, la solidarietà nazionale tra Moro e Berlinguer e l’Ulivo di Romano Prodi. La Costituzione rimane l’esempio più alto e riuscito; l’alleanza tra Dc e socialisti è stato un esperimento riuscito solo a metà; il rapporto tra democristiani e comunisti è stato bloccato dalla miscela tra le tensioni statunitensi, quelle terroristiche e quelle neofasciste; l’Ulivo è durato l’espace d’un matin quale preludio alla nascita del partito democratico tuttora in lunga e faticosa gestazione (non so se si tratti ormai di aborto terapeutico o di nascita cronicamente prematura).

Torno precipitosamente all’attuale classe dirigente del Pd in cui non manca la presenza del genere femminile: ho l’impressione che serva solo ad aumentare il sex appeal del partito ed il tasso di polemica interna ed esterna al partito stesso.

Sul fatto poi che il PD di Elly Schlein sia troppo pacifista non sono assolutamente d’accordo: veda semmai Pina Picerno di smuovere le acque europee del partito socialista appiattito sul pragmatismo guerrafondaio spacciato per realismo diplomatico.

Se mi sento poco rappresentato da Elly Schlein, che, fortunatamente, non ho votato, mi sento totalmente estraneo rispetto al vuoto politico picerniano.

 

Il matto dei dazi e i savi delle franchigie

“Pagare dazio” è un modo di dire che significa subire le conseguenze di un errore o di un comportamento sbagliato. L’espressione deriva dal contesto storico medievale, quando il “dazio” era una tassa da pagare per far transitare merci attraverso i confini di un comune o territorio. Quindi, “pagare dazio” metaforicamente indica il prezzo da pagare per le proprie azioni, spesso in termini di sofferenza o punizione.

La situazione a livello internazionale è analoga a quella medievale (è già detto tutto…), mentre in senso metaforico dovremmo andare alla ricerca degli errori commessi che ci stanno portando a pagare dazio.

Nel panorama dell’insensatezza generale il presidente Sergio Mattarella afferma: «I dazi sono inaccettabili per noi, ma dovrebbero esserlo per tutti i Paesi del mondo. Una collaborazione su regole leali è indispensabile. Bisogna impegnarsi perché queste regole siano rispettate, anche se sappiamo che non sempre questo avviene». Perché la «tessitura» di collaborazione tra i Paesi, che poggia sul libero commercio sia rafforzata, e così la fiducia: «Così si garantisce la pace». «La nostra posizione è chiarissima», conclude il presidente. «Per la pace nel mondo e per il vantaggio delle popolazioni occorre avere mercati aperti: è una regola di civiltà che da tanto tempo è stata affermata». E che non dovrebbe essere modificata.

Non c’è dubbio che la cosiddetta guerra dei dazi sia causa-effetto del clima di guerra generale che stiamo vivendo. Perché siamo arrivati a questo punto? L’egoismo individuale si è fatto egoismo di Stato e i due egoismi vanno perfettamente a braccetto verso la catastrofe. Tutti i freni si sono rotti, non si è più nemmeno in grado di cambiare marcia a seconda della situazione, rimane solo il pedale dell’acceleratore su cui pigiare nell’illusione di arrivare primi.

Gli Usa stanno precipitando nel gorgo della politica del più forte, l’Europa si sta sciogliendo come neve comunitaria al sole (sic!) dei sovranismi e dei nazionalismi: Usa ed Europa erano e dovrebbero essere i due punti d’appoggio nella ricerca degli equilibri democratici internazionali, sono diventati i principali fattori di squilibrio.

Si vis pacem para datium (latino peraltro maccheronico)? Se entriamo in questa logica perversa in cui ci vuole trascinare Donald Trump, non ne usciamo vivi. E se provassimo ad andare per la nostra strada senza imporre dazi ad alcuno e battendo testardamente la strada del libero commercio? E se considerassimo la collaborazione tra i Paesi non tanto una virtù ma addirittura una necessità? E se l’Europa avesse la calda freddezza di non rispondere alle deliranti missive del presidente Usa? E se lasciassimo gli americani fare indigestione dei loro beni (a l’ozlèn ingordi ag crépa al gòz)? E se provassimo una buona volta a dialogare, non per evitare il peggio, ma per cercare il meglio?

E chi ha detto che l’Europa non può fare a meno degli Usa? Di questi Usa se ne deve fare a meno. Non dimentichiamo che “chi schiva ‘n mat fa ‘na bòn’na giornäda”.

Mio padre, amante dei proverbi e dei modi di dire, riusciva anche in questo campo a mettere il proprio grano di sale. Era solito citare due proverbi: “chi fa da sè fa per tre” e “l’unione fa la forza”. Aggiungeva: “E l’ora cme s’à da far”. È il dubbio atroce che blocca i Paesi europei. Uniti sì, ma pacificamente contro l’arrogante follia degli Usa.

 

 

 

Il lapsus dannunziano

Il confronto è diventato ancora più teso quando Bocchino ha criticato duramente la segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein. «Non ha una proposta politica – ha dichiarato – si limita a ballare al Gay Pride e a inaugurare murales dedicati a Michela Murgia… ma chi se ne frega della Murgia, agli italiani serve altro». Parole che hanno scatenato la reazione indignata di Padellaro, che ha risposto con fermezza: «Non ti permettere. Michela Murgia è stata una grande scrittrice, morta di tumore. Se continui così, mi alzo e me ne vado». Nonostante i momenti di forte attrito tra i due relatori, e tra Bocchino e una parte del pubblico, l’incontro si è comunque concluso regolarmente. (open.line)

Il motto “Me ne frego”, tradotto letteralmente come “non me ne importa”, è un’espressione che divenne celebre durante il periodo fascista in Italia. Inizialmente, era un motto dannunziano, ripreso poi dalla retorica del regime per esprimere un atteggiamento di sfida e disprezzo verso le difficoltà e i pericoli, enfatizzando la volontà di non arrendersi e di andare avanti a tutti i costi.

Nel periodo   in cui mio padre lavorava da imbianchino come lavoratore dipendente si trovò ad eseguire un lavoro del tutto particolare, scrivere sui muri, a caratteri cubitali, motti propagandistici fascisti (“vincere” – “chi si ferma è perduto” – “me ne frego” – e roba del genere).

Al geometra che sovrintendeva, ad un certo punto, tra il serio ed il faceto disse: “Quand è ch’a gh’dèmma ‘na màn ‘d bianch?”.   “Beh”, rispose in modo burocratico, “per adesso andiamo avanti così, poi se ne parlerà. A proposito cosa dice la gente che passa?”.  Era forse un timido ed innocuo invito ad una sorta di delazione, ma mio padre, furbamente, non ci cascò ed aggiunse: “Ch’al s’ mètta ‘na tuta e ch’al faga fénta ‘d njent e ‘l nin sentirà dil béli “. La zona era infatti quella del Naviglio, autentico covo di antifascismo e papà mi raccontò come tutti quelli che passavano di lì, uomini, donne e bambini, le sparassero grosse anche contro di lui, senza tener conto del famoso detto “ambasciator non porta pena”.

Mio padre voleva dare una mano di bianco sui motti fascisti, Italo Bocchino approfitta dell’occasione per dare una mano di nero sul dibattito politico-culturale. Ognuno usa il colore che preferisce…

C’è poco da fare, il fascismo purtroppo uno ce l’ha dentro e non riesce a reprimerlo nemmeno di fronte ad una scrittrice morta di tumore, colpevole di considerare il governo Meloni come governo di stampo fascista. Se gli italiani aprissero gli occhi e le orecchie…

La risposta plausibile a tanti problemi l’ho trovata, pensate un po’, nella impietosa analisi che faceva mia sorella Lucia delle magagne del popolo italiano: siamo rimasti fascisti con tutto quel che segue. Sosteneva che gli italiani sono affascinati dall’ «uomo forte». Lei lo diceva con la sua solita schiettezza e in modo poco aulico ed elegante, ma molto efficace: «Gli italiani sono rimasti fascisti».

E oggi sono affascinati dalla donna forte!

 

 

 

 

La pubblicità è l’anima…della Chiesa

Per il momento è più un consiglio da amico che non una proposta politica, ma il suggerimento avanzato dal ministro dell’Economia alla Cei è di quelli da tenere in buon conto. Anche in senso letterale. Secondo Giancarlo Giorgetti, infatti, le parrocchie farebbero bene a dotarsi di strumenti come i Pos per raccogliere le offerte con modalità digitali e in maniera tracciabile. Ciò potrebbe, verificate altre condizioni, rendere anche deducibili o detraibili tali offerte, garantendo così un beneficio fiscale ai fedeli (e un incentivo alla loro generosità). (da “Avvenire.it)

Proprio in questi giorni ho inviato alla redazione di “Avvenire”, quotidiano cattolico per eccellenza, la seguente mail, senza naturalmente ottenere risposta:

“Sono un assiduo frequentatore del vostro sito internet. Da un po’ di tempo a questa parte registro una forte e fastidiosissima presenza pubblicitaria, tale da rendere quasi inagibile il sito stesso. Capisco le esigenze finanziarie, ma tutto dovrebbe avere un limite, anche e soprattutto per chi si richiama a una certa etica a livello di informazione. È diventato veramente problematico navigare nel vostro sito: quindi spesso sono al limite della rinuncia. Mi dispiace anche perché ne apprezzo i contenuti e la possibilità di accedervi senza pedaggi: se però il prezzo diventa l’invadenza della pubblicità, allora tanto vale… Buon lavoro! Grazie e un cordiale saluto”.

Per non parlare di TV 2000, il canale televisivo pilotato dalla Cei, che inonda le sue trasmissioni di pubblicità: mi aspetto da un momento all’altro che tra un mistero del rosario e l’altro, tra la liturgia della Parola e quella Eucaristica vengano inseriti messaggi pubblicitari magari a sfondo etico-religioso (otto o cinque per mille), tanto per confondere le acque.

Sono un cattolico praticante patito di laicità: non digerisco l’8 per mille, oltretutto, come noto, forzato nelle sue modalità applicative; sono contrario a tutte le prebende di Stato alla Chiesa che dovrebbe autosostenersi senza comodi favoritismi.

Di questo passo arriveremo non solo a sopportare i mercanti nel tempio, ma a portare il tempio nel mercato, commercializzando, anche tramite la pubblicità, tutta la religione con buona pace di Martin Lutero.

Forse oggi Gesù agli apostoli, che gli chiedevano come sfamare la folla che lo seguiva, consiglierebbe di attingere ai fondi dell’otto per mille e di non portare né borsa, né sacca, né sandali, ma di non dimenticare il Pos.

In cauda beneficum venenum: «Condividere con gli ultimi anche la ricchezza della Chiesa. Occorre fare chiarezza nei bilanci parrocchiali, d’istituto. Adoperarsi perché le uscite in favore dei poveri siano più consistenti. Rivedere certe formulazioni tariffarie che danno l’impressione di una Chiesa interessata più alla borsa dei valori che alla vita dei poveri, e insinuano il sospetto che anche i sacramenti si diano dietro il compenso segnato dal listino prezzi» (Don Tonino Bello, vescovo e profeta).

 

 

 

Tutto lo Spirito Santo minuto per minuto

Alle mie eccessive e frettolose perplessità su Papa Leone XIV si risponde col discorso, più fatalistico che fideistico, dell’accettazione passiva dell’intervento dello Spirito Santo, che avrebbe scelto Prevost per guidare la Chiesa e illuminare la società in questo lacerante e lacerato periodo storico.

Mi permetto di avere un’idea complessa ed articolata dell’azione dello Spirito Santo, che agisce, a mio giudizio, in senso molto più largo e lungo rispetto alla nostra limitata visuale cristiana.

Mi sento in dovere, per l’ennesima volta, di riportare di seguito una gustosa barzelletta che dicono piacesse molto a papa Giovanni Paolo II.

“Dio Padre osserva, con attenzione venata da una punta di scetticismo, l’attivismo dei cardinali di Santa Romana Chiesa, ma non riesce a capire fino in fondo lo scopo della loro missione. Con qualche preoccupazione decide di interpellare Dio Figlio in quanto, essendosi recato in terra, dovrebbe avere maggiore dimestichezza con questi importanti personaggi a capo della Chiesa da Lui fondata. Dio Figlio però non fornisce risposte plausibili, sa che sono vestiti con tonache di colore rosso porpora a significare l’impegno alla fedeltà fino a spargere il proprio sangue, constata la loro erudizione teologica, la loro capacità diplomatica, la loro abilità dialettica, ma il tutto non risulta troppo convincente e soprattutto rispondente alle indicazioni date ai discepoli prima di salire al cielo.  Anche Dio Figlio non è convinto e quindi, di comune accordo, decidono di acquisire il parere autorevole di Dio Spirito Santo, Lui che ha proprio il compito di sovrintendere alla Chiesa.  Di fronte alla domanda precisa anche la Terza Persona dimostra di non avere le idee chiare, di stare un po’ troppo sulle sue ed allora il Padre insiste esigendo elementi precisi di valutazione, minacciando un intervento diretto piuttosto brusco e doloroso. A quel punto lo Spirito Santo si vede costretto a dire la verità ed afferma: «Se devo essere sincero, anch’io non ho capito fino in fondo cosa facciano questi signori cardinali, sono in tanti, ostentano studio, predica e preghiera. Pregano soprattutto me affinché vada in loro soccorso quando devono prendere decisioni importanti. Io li ascolto, mi precipito, ma immancabilmente, quando arrivo col mio parere, devo curiosamente constatare che hanno già deciso tutto!»”.

E chi mi garantisce che quanto sopra non sia successo anche per la nomina in conclave di papa Leone XIV e che quindi lo Spirito Santo non debba ricorrere al pungolo critico degli insoddisfatti per ridimensionare e rimettere in carreggiata un papato che sta viaggiando ad intra sul filo del rasoio dell’indietrismo, camuffato da spasmodica ricerca dell’unità interna alla Chiesa riavvicinando problematicamente progressisti e conservatori, e ad extra sull’acrobatico interventismo chiaro nelle parole e sfuggente nei fatti.

L’azione dello Spirito Santo, in cui credo fermamente, non si limita alle nostre scadenze e agende, ma va ben oltre, ragion per cui una visione critica della pastorale prevostiana non è roba da eretici, ma pur sempre esercizio di un carisma critico e stimolante.

Il teologo Congar, parlando della presenza dei laici nella Chiesa, diceva che questi devono andare in chiesa, ascoltare e mettere mano al portafoglio: in buona sostanza voleva dire che i laici dovrebbero solo fare quel che decidono i preti. La Pira aggiungeva però che non bastava l’elemosina, ma che i laici dovevano impegnarsi a trasformare il corpo sociale e le strutture.

Il mio prezioso amico Pino continua a comunicarmi le sue riflessioni, considerando il papato di Leone XIV come un bel rompicapo: alla sordina messa nei rapporti interni fa infatti da contraltare la denuncia nei rapporti esterni (“far morire di fame le persone è un modo molto economico per fare la guerra” – messaggio inviato alla Fao). Un papa molto riflessivo ed equilibrato, che non ha la cultura di Paolo VI, né la forza mistica di Giovanni Paolo II, né la radicalità intransigente di Francesco. Visto che i paragoni si sprecano, ne voglio introdurre provocatoriamente uno che non ho ancora sentito: e se Leone XIV assomigliasse a Pio XII?

Il paragone più (in)calzante potrebbe essere quello con Paolo VI, che si trovò a guidare la Chiesa in tempo di “esodo”, fra insofferenze e rimpianti e che, con gesti audaci e mediazioni pazienti, riuscì a mantenerla unita, senza pronunciare scomuniche e senza cedere allo sconforto.

Gira e rigira da sempre le scelte ecclesiali ruotano, non senza un certo imbarazzo assai poco evangelico, attorno al problema della povertà, questione fortemente divisiva. Niente e nessuno riesce a togliermi la convinzione che le contrarietà incontrate da papa Francesco dipendessero dalla sua chiara scelta a favore dei poveri e che la sua morte abbia fatto tirare un sospiro di sollievo a tutti quanti, cattolici e laici, italiani e stranieri furono costretti a sopportare obtorto collo la popolarità di Francesco.

Il carissimo amico don Luciano Scaccaglia amava ricordare un forte ed irrinunciabile insegnamento materno, di quelli che, anche volendo, non si possono dimenticare e tanto meno tradire: «Se nella vita non vuoi sbagliare, stai dalla parte dei poveri!». Una cosa però è altrettanto certa: chi sta dalla parte dei poveri gioca sempre in trasferta, ha l’arbitro e i segnalinee contro, il pubblico che prevalentemente fischia e rumoreggia. Subisce un sacco di goal, ma vince a tavolino due a zero, perché sapete chi è l’ultimo giudice!!! La storia insegna che chi si schiera coi poveri è universalmente perdente: non è un valido motivo per annacquare il Vangelo.

Don Andrea Gallo venne chiamato in Vaticano a rispondere del suo operato borderline. Andò a colloquio con un alto prelato e decise di adottare la seguente linea difensiva: “Io sto dalla parte del Vangelo e cerco soltanto di metterlo in pratica fino in fondo…”. L’inquisitore in evidente imbarazzo disse laconicamente: “Se la metti su questo piano…”. Don Gallo rispose in modo ultimativo: “E su che piano la dovrei mettere?”.

Speriamo che Prevost nel suo tentativo di mediazione non si lasci intortare dai conservatori. La Chiesa dei poveri, a livello papale, è iniziata con Giovanni XXIII, è continuata con Francesco e dovrebbe proseguire il suo corso magari dopo un periodo di assestamento, causato da certi strappi benefici operati da Bergoglio.

Alla fine credo che papa Prevost assomiglierà a se stesso e non si allontanerà di molto dalla linea pastorale che lascia intravedere. Lo Spirito Santo lo lascerà fare, ma ho fiducia che consentirà a tutti i battezzati di svolgere la propria funzione, compresa quella di criticare il papa, al sottoscritto di esprimere con audacia le proprie idee e all’amico Pino di somministrare le sue documentate pillole di saggezza. Grazie a tutti!