Chiesa, meglio copiare le ONG che scimmiottare l’ONU

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha definito “una grande idea” che il Vaticano possa ospitare eventuali negoziati di pace tra Russia e Ucraina, sottolineando come vi sia “molta rabbia” tra le parti e come il simbolismo del luogo possa contribuire a un clima più favorevole. 

“Penso che sarebbe fantastico farlo in Vaticano. Forse avrebbe un significato ulteriore”, ha dichiarato durante un evento alla Casa Bianca. Trump ha parlato lunedì separatamente con i suoi omologhi di Russia e Ucraina, Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky, e dopo questi colloqui ha annunciato che i due Paesi apriranno immediatamente dei negoziati per un cessate il fuoco e per porre fine alla guerra.

Papa Leone XIV aveva già manifestato la sua disponibilità a farsi coinvolgere nel dialogo, e Zelensky ha ipotizzato che il futuro incontro possa tenersi in Vaticano, in Svizzera o in Turchia. Trump si è detto favorevole all’ipotesi della Santa Sede: “C’è un’enorme amarezza, una grande rabbia, e penso che forse potrebbe aiutare ad alleviare parte di questa rabbia. Quindi farlo in Vaticano sarebbe una grande idea”, ha affermato. (da RaiNews.it)

La critica più frequente – peraltro subdola ed inconsistente – rivolta a papa Francesco era quella di avere trasformato la Chiesa in una ONG, di averla cioè appiattita sul piano sociale, trascurando quello spirituale.

In realtà ai detrattori di Bergoglio non interessava la spiritualità, ma erano infastiditi dall’attenzione ai poveri: è una storia vecchia come il cucco, chi sta dalla parte dei poveri in realtà non piace anche se magri si fa finta di ammirarlo.

Evidentemente anche Gesù aveva in mente le ong e si appiattiva sul sociale, dal momento che non faceva altro che parlare dei poveri, degli ultimi, dei sofferenti, etc. etc.

Non vorrei che, sulle ali dell’entusiasmo diplomatico conseguente alla sua elezione, papa Leone si facesse prendere la mano per trasformare la Chiesa in una sorta di ONU riveduto e scorretto.

In materia di pace e di intervento della Chiesa a favore della pace si sta facendo un po’ di confusione. Innanzitutto si confonde la Chiesa col Vaticano: sono due realtà ben diverse. Il Vaticano non è nemmeno lo specchio esaustivo della Chiesa-istituzione, figuriamoci della Chiesa-comunità, ma semmai quello della Curia romana implicata anche troppo nelle cose di questo mondo.

In secondo conseguente luogo la Pace che dona il Risorto non è quella che dà il mondo, vale a dire quella di Trump, Putin e c. La Chiesa quindi deve stare attenta a non diventare protagonista nelle questioni mondane: non è la “pasta”, ma il “lievito”. Gesù non ha nemmeno lontanamente pensato di fare da mediatore fra Romani ed Ebrei, se ne è ben guardato a costo di deludere tutti e di farsi mettere in croce. A Pilato, che gli chiedeva conto delle sue “strane” idee, non ha proposto di dialogare, ma lo ha elegantemente mandato a cagare.

La storia dei papi è piena di interventi a favore della pace: Giovanni XXIII riuscì, col carisma che possedeva, a scongiurare la crisi di Cuba con tutto quel che ne poteva conseguire: fortunatamente aveva come interlocutori personaggi di altra statura rispetto agli attuali. Non li ospitò ufficialmente in Vaticano, così come Giovanni Paolo II fece un autentico capolavoro diplomatico con Jaruzelski, senza intromettersi politicamente nelle vicende polacche, facendo valere la propria incontenibile autorevolezza umana e spirituale. Paolo VI si recò in visita all’Onu e lanciò il suo storico “jamais plus la guerre”, ma non offrì nessun tavolo vaticano per affrontare le emergenze belliche, anche perché dovrebbe essere proprio l’Onu la principale sede dove dirimere i conflitti fra le nazioni.

Essere il primo Pontefice americano fa sì che Washington e Bruxelles possano contare su di lui come canale di collegamento con Mosca, anche se il “passaporto Usa” può alimentare diffidenze dei russi ortodossi, orientati a vedere in lui un tipico rappresentante dell’Occidente complessivo. L’esperienza missionaria in Sudamerica amplia lo spettro del suo intervento.

Un Papa che conosce sia il campesino del Perù sia il businessman di Chicago può creare ponti tra visioni in conflitto, così come le sue iniziative di dialogo intessute in un linguaggio ampio di giustizia sociale possono risuonare positivamente nel Sud globale, ampliando il consenso anche a proposte ambiziose.

(…)

Dopo il colloquio tra Trump e Putin, nel quale è sembrata ancora prevalere l’ambiguità del leader del Cremlino, pronto a firmare memorandum preliminari a una tregua ma solo alle proprie condizioni, c’è più che mai bisogno di un mediatore che abbia il coraggio della chiarezza e della mitezza, avendo a cuore il valore della pace per sé, senza alcun secondo fine. L’accenno fatto dal presidente Usa sui social media sembrerebbe aprire ottimisticamente a trattative imminenti, forse ospitate proprio in Vaticano. (dal quotidiano “Avvenire” – Andrea Lavazza)

In questo delicatissimo momento storico il Papa rischia di essere visto come il mediatore per eccellenza tra le potenze del mondo, il Vaticano rischia di diventare la foglia di fico con cui coprire la fine della laicità della politica, nonché il tramonto del diritto e delle istituzioni internazionali: sarebbe una nefasta influenza pseudo-evangelica. Ed inoltre non accontentiamoci del dito dietro cui nascondere le comode inerzie dei cattolici che applaudono il Papa.

Mi sembra opportuno citare integralmente una preghiera, redatta dal Cardinale Zuppi, che ogni buon cristiano dovrebbe recitare ogni giorno: “Signore, che ci hai creati e ci chiami a vivere da fratelli, che vieni sulla terra per portare luce nelle tenebre, dona al mondo la pace. Donaci la forza per essere ogni giorno artigiani della pace. Donaci la capacità di guardare con benevolenza tutti i fratelli che incontriamo sul nostro cammino. Infondi in noi il coraggio di compiere gesti concreti per costruire la pace. Amen”.

Attenzione alle sbruffonate politiche di Trump, alle furbizie di Putin, alle ipocrisie di Netanyahu e persino alle disperate condizioni di Zelensky (come noto chi sta per affogare ti trascina nel gorgo…). Invece di andare dietro alle insulse chiacchiere dei delinquenti al potere, non sarebbe meglio scomunicarli nella sostanza e nei fatti, proclamando ad esempio che la carneficina dei palestinesi come quella degli ucraini non può andare su alcun tavolo di trattativa, direttamente o indirettamente patrocinato dalla Chiesa?

I vescovi statunitensi volevano negare la comunione a Biden. Non ho sentito nulla del genere nei confronti di Trump: attenzione papa Leone, perché alcuni suoi elettori probabilmente cadono in queste contraddizioni clamorose. Forse lo Spirito Santo eviterà che presentino il conto al nuovo papa. Nella storia della Chiesa è successo spesso che il Papa, una volta eletto, vada per la sua strada e non si faccia dettare il comportamento da chi lo ha eletto con secondi poco ecclesiali fini. Papa Francesco chiedeva sempre preghiere: gli servivano per resistere alle pressioni di chi lo voleva distogliere dalla sua pastorale evangelica!?

Sull’Ucraina oltre tutto si giocano anche i rapporti con una parte della Chiesa ortodossa (quella dei chierichetti di Putin), che magari vedrebbe di buon occhio una intromissione vaticana atta a compensare quella del patriarcato russo: le chiese cristiane affaccendate e intrecciate con gli equilibri di potere. Ci potrebbe esser di mezzo anche l’ecumenismo riguardante i rapporti tra cattolici e ortodossi.

Se c’è stata una preoccupazione particolare nella vita di Gesù è stata quella di non lasciarsi coinvolgere in questioni politiche, se non stando dalla parte dei poveri e degli ultimi. Credo che papa Francesco, per il quale il vademecum era solo ed esclusivamente il Vangelo, sia riuscito ad essere il miglior interprete possibile della beatitudine riguardante “i pacifici che saranno chiamati figli di Dio”. Nessuno è perfetto, nemmeno papa Francesco, ma ricordiamoci che, come diceva mio padre, «al ‘n era miga un gabiànn…» (non ho approfondito e stabilito da dove venisse questo modo di dire: probabilmente il richiamo al “gabbiano” era dovuto al fatto che questo strano uccello si diverte a rovistare nella spazzatura, nel “rudo” e quindi non dimostra di essere un mostro di intelligenza e furbizia).

Fantastico un tavolo di pace in Vaticano? Fantastico per Trump, ma non per me! Fin dal primo momento ho temuto che dietro l’elezione di papa Prevost ci fosse troppa politica. Vorrei tanto essermi sbagliato anche se lo “spatagliare” di governanti intorno a Leone XIV mi infastidisce e mi preoccupa.

 

L’assenteismo dei presenzialisti

Dopo la storica vittoria tennistica di Jasmine Paolini, anche la Premier Giorgia Meloni ha voluto unirsi alla celebrazione con un messaggio sui social: “Complimenti a Jasmine Paolini per una vittoria straordinaria agli Internazionali di Roma. Un’impresa che entra nella storia dello sport italiano e rende orgogliosa tutta la Nazione.”

Tuttavia, sotto il post della premier, è intervenuto con dure parole l’ex parlamentare Alessandro Di Battista, che ha scritto: “Subito a commentare i successi sportivi ma resti zitta di fronte a una mattanza di bambini senza precedenti. Come fai a guardarti allo specchio? Vigliacca come fai a dormire la notte? I tuoi amici terroristi israeliani uccidono per il gusto di uccidere. Stanno colpendo deliberatamente bambini e neonati e te zitta. Muta. La Storia non ti assolverà mai vigliacca!”.

Il presenzialismo off limits della premier italiana è decisamente fastidioso e provocatorio: il problema oltre tutto è che sotto questo vestito non c’è niente e che gli italiani ci stanno cascando alla grande.

Per la verità anch’io spesso mi sono chiesto e mi chiedo come facciano certi governanti di tutti i livelli a dormire sonni tranquilli di fronte ai problemi drammatici direttamente o indirettamente riconducibili alla loro inerzia o ignavia.

Purtroppo non tutti hanno la sensibilità di Giorgio La Pira che da sindaco di Firenze affermava di non poter dormire fintanto che nella sua città c’erano persone che passavano la notte sotto i ponti. Ecco come si espresse nel 1955 alla segreteria nazionale della DC: «Fino a quando mi lasciate a questo posto, mi opporrò con energia massima a tutti i soprusi dei ricchi e dei potenti. Non lascerò senza difesa la parte debole della città: chiusura di fabbriche, licenziamenti e sfratti troveranno in me una diga non facilmente abbattibile… Il pane (e quindi il lavoro) è sacro. La casa è sacra. Non si tocca impunemente né l’uno né l’altra! Questo non è marxismo: è Vangelo! Quando gli Italiani poveri saranno persuasi di essere finalmente difesi in questi due punti, la libertà sarà sempre assicurata al nostro Paese».

Mia sorella, nelle sue pur modeste cariche pubbliche ricoperte, soffriva una vera e propria ansia per non riuscire a rispondere ai problemi della povera gente a cui andavano le sue attenzioni. Ricordo che una volta, per tranquillizzarla un po’, arrivai a dirle che anche Gesù non riusciva a sanare e ad aiutare tutti, quindi…

Tornando a Giorgia Meloni e alla sua posizione verso i palestinesi, mi sembra opportuno richiamare il giudizio espresso da Moni Ovadia: secondo l’autorevole scrittore ed eclettico uomo di cultura che si definisce ebreo antisemita, forse il personaggio più lucido nel giudicare la vicenda israelo-palestinese, la premier italiana ha soltanto la preoccupazione di apparire in campo occidentale come la miglior amica di Israele. È detto tutto!

 

 

Un fiume di bombe e un rigagnolo di lacrime di coccodrillo

Per mettere fine a questa guerra è necessario comprendere il dolore. E credo che, fino a qui, il dolore della mia gente per il 7 ottobre non sia stato davvero capito. Non si tratta “solo” del peggior massacro terroristico che Israele ha subito dalla Seconda Guerra mondiale: è stato il massacro di persone che credevano nella pace, nella convivenza, che vivevano accanto, in senso fisico, a chi le ha uccise, bruciate, stuprate, rapite nel modo più crudele che si sia mai visto. Questo ha innescato meccanismi di auto-difesa, in un popolo intero, che non si possono liquidare con faciloneria. C’è poi il dolore dei palestinesi, e le assicuro che io, noi israeliani, lo sentiamo, lo viviamo come nostro. Ma c’è un’unica, sottolineo, un’unica chiave per aprire la porta a una soluzione, qualcosa che vi invitiamo a cercare insieme a noi, rivolgendo la nostra richiesta in particolare alla comunità cristiana: il rilascio degli ostaggi. Serve pressione per riportare a casa la nostra gente. Abbiamo 58 persone, là sotto, quaranta metri sotto terra, nelle condizioni che conosciamo. Abbiamo negoziato con Hamas. Ma li tengono lì, come arma per raggiunge il loro scopo che, in quanto jihadisti, è uno solo: cancellare il nostro popolo, e distruggere le altre religioni. Compresi i musulmani che non la pensano come loro, e che sono stati trucidati in quel Sabato Nero al pari di tutti gli altri. Ve lo posso garantire: se rilasciano gli ostaggi, ci sarà il più positivo e persistente cambiamento per Gaza e per tutta la regione. Come abbiamo visto in Siria e in Libano: situazioni che ci danno speranza. (così il presidente israeliano Herzog in un’intervista al quotidiano “Avvenire”)

La ferocia israeliana è forse il più grande paradosso della storia: da torturati a torturatori per colpa di un sentimento patriottico completamente fuorviante.

Altro che antisemitismo…

La tesi giustificazionista di Israele riguardo al genocidio di Gaza, che emerge anche dalle parole di Herzog, deve essere smontata pezzo per pezzo dal punto di vista etico, religioso, storico e politico.

I palestinesi non sono certo stinchi di santo, ma sono sempre stati lasciati a loro stessi, senza patria e senza degne prospettive di vita: si capisce persino la loro tentazione terroristica.

Come noto, in uno storico intervento al Senato, Giulio Andreotti, non certo un rivoluzionario, ebbe a dire: “Vorrei vedere come vi comportereste voi, se foste trattati da cani come i palestinesi…”.

Eticamente parlando, il comportamento di Israele non ha motivazioni plausibili se non quella della vendetta insensata e della rappresaglia spropositata.

Anche la storia parla in modo assai diverso dalla versione israeliana.

L’ipocrisia di Israele raggiunge il vertice nell’ostentata preoccupazione per i civili di Gaza: guardate come li tratta Hamas, urlano i democratici israeliani, così attenti ai diritti dei palestinesi. Hamas ha un atteggiamento tirannico, ma la sua tirannia non è nulla in confronto a quella di Israele, che ha imposto alla Striscia di Gaza un assedio di 7 anni e un’occupazione che dura da 47 anni.

L’assedio è la prima causa della distruzione della società e dell’economia di Gaza, e tante grazie a chi sostiene di volerla salvare, a chi si preoccupa della sua mancanza di democrazia, a chi si stupisce per la corruzione, a chi denuncia il fatto che i leader palestinesi vivono in hotel di lusso o in bunker nascosti, a chi si indigna per i soldi spesi per i tunnel e i razzi anziché per i parchi gioco e le attività ricreative. Grazie, grazie tante. (Gideon Levy, giornalista israeliano)

Se andiamo sul terreno religioso, come dimenticare che il potere in Israele e in tutto il mondo è fortemente condizionato dai vertici dell’ebraismo. Quante volte mi sono sentito dire che in Israele comandano i capi religiosi!

Dirò di più: leggendo l’antico testamento della Bibbia, che fa riferimento alla storia del popolo Ebreo, si intuisce l’equivoco religioso pazzesco in cui cadono gli Israeliani, accompagnato appunto da una bruttissima storia di potere e da una classe dirigente bigotta e spietata.

Mi convinco sempre più che la Bibbia va letta e interpretata alla luce del messaggio evangelico: se togliamo Gesù le religioni diventano trappole mortali. So di non essere molto interreligioso, ma senza Gesù l’uomo rischia una tragica deriva personale e comunitaria.

Gesù dice di porgere l’altra guancia e tutti sorridono, sminuiscono e sottovalutano il perentorio invito: il non vendicarsi non è una virtù, ma una necessità se vogliamo costruire la pace. Vale per tutti, anche per Israele, che deve uscire dall’imbuto della tremenda vendetta.

Mi permetto allora di toccare un tasto delicato: come coniugare il dialogo interreligioso con la necessaria condanna della complicità dell’ebraismo rispetto al massacro di Gaza e più in generale all’atteggiamento israeliano “colonialista” nei confronti dei palestinesi?

La ragion di stato e la realpolitik tentano di spiegare vomitevolmente l’atteggiamento morbido del cosiddetto Occidente democratico così ospitale nei confronti di Israele: è giunta però l’ora di finirla con la comprensione verso la furia vendicatrice e l’attenzione alle lacrime di coccodrillo.

A maggior ragione, dal punto di vista religioso, non è ammissibile voltarsi dall’altra parte, nascondersi dietro confusi e generici richiami alla pace del vogliamoci bene.

Un bel grattacapo per il nuovo Papa, il cui incipit teologico e pastorale è stata la ricerca della pace ed al quale vengono indirizzate pelose avance da parte israeliana – vedi l’intervista del presidente Herzog da cui sono partito: “Intendo porgere un messaggio sincero di amicizia, di rispetto e di dialogo. E voglio invitarlo in Terra Santa, qui da noi. Per incontrare il popolo israeliano” – sperando magari in un allentamento della posizione portata avanti da papa Francesco, peraltro nemmeno troppo spinta sul piano diplomatico, ma almeno cristianamente chiara.

 

La diplomazia asinina

Non è una delegazione con i pieni poteri, ma appare funzionale al raggiungimento di qualche risultato. A Mosca si dice che vi sia un altro gruppo pronto a partire. Non per parlare con l’Ucraina, ma con gli Usa, laddove ce ne fosse bisogno. Ne farebbero parte figure più note come il ministro degli Esteri Sergey Lavrov, che ieri ha definito «uomo patetico» Volodymyr Zelensky, il consigliere del presidente Yuri Ushakov, e Kirill Dmitriev, il russo di Harvard, l’anello di congiunzione tra Cremlino e Casa Bianca. Quanto al Capo, Vladimir Putin si muoverà soltanto se riceverà l’invito anche ufficioso da parte di Donald Trump. A quello di Zelensky non ha ritenuto neppure di dover rispondere. Con un apposito decreto ieri il presidente russo ha rinnovato fino al 2027 il piano di difesa nazionale per lo sviluppo delle Forze Armate e l’attuazione dei programmi di armamento, e già che c’era ha rimosso dal suo incarico il comandante Oleg Salyukov, capo delle forze terrestri dell’esercito, che aveva per altro guidato la recente parata della Vittoria. Forse vuole la pace, ma intanto continua a preparare la guerra. (dal “Corriere della Sera” – Marco Imarisio)

Il vertice sull’Ucraina sta diventando un’occasione tattica per Putin: ottenere da Trump il riconoscimento di “grande potenza” con cui fare i conti per la spartizione del mondo. E Trump cosa farà?  Era partito in quarta, pensando di mettere sbrigativamente nel sacco Vladimir Putin con qualche concessione da far ingoiare a Zelensky. Né Putin né Zelensky sono così sprovveduti da cascare nel tranello trumpiano. E allora? Putin si fa subdolamente sponsorizzare dalla Cina: è il momento buono in quanto i cinesi sono obiettivamente in difficoltà di fronte alla dichiarata guerra commerciale dei dazi. Zelensky si attacca all’Europa: è il momento buono in quanto gli europei sono obiettivamente in difficoltà di fronte ai provocatori sgarbi della nuova politica americana.

Trump crede di essere il miglior fico del bigoncio, ma probabilmente si sbaglia e infatti sta facendo vergognose marce indietro, creando una confusione diplomatica in cui probabilmente ha molto da perdere.

Putin crede di essere il più furbo e forse lo è, ma prima o poi dovrà pure fare i conti con la sua vittoria di Pirro in Ucraina.

Xi Jinping crede di essere il più forte dal momento che associa la tranquillità politica alla strategia economica del suo regime, ma fino a quando i cinesi si accontenteranno di un finto benessere e di una reale mancanza di libertà.

Lasciamo perdere l’Europa che pensa di farsi grande con il riarmo e la forza dei litigiosi Paesi di punta.

L’Ucraina è costretta a fare le spese di questo bailamme diplomatico, in cui sta trovando un ruolo persino il premier turco Erdogan.

Tiro un’amara e forse esagerata conclusione: in mancanza dei cavalli, trottano gli asini. Ulteriore complicazione: gli asini sono troppi e non si lasciano legare dove vuole il padrone, che, peraltro, non esiste. Troppi asini, troppi padroni, troppi…

Uno sterminio da cortile

Un drappo rosso sangue che spunta ai piedi di una culla in segno di protesta contro le morti dei bambini uccisi a Gaza e cartelli in aria, nel silenzio. È il presidio organizzato da Amnesty davanti alla Farnesina, sede del Ministero degli Affari Esteri, nel 77º anniversario della Nakba per chiedere la fine dell’invio di armi a Israele e il riconoscimento dello stato di Palestina. “L’appello è di intervenire per fermare il genocidio nella Striscia di Gaza – ha dichiarato Riccardo Noury di Amnesty International. – Un giorno forse una sentenza condannerà l’Italia per complicità. Bisogna riconoscere che a Gaza è in corso un genocidio, e contemporaneamente bisogna fermare ogni trasferimento di armi verso Israele e convincere altri partner dell’Ue a fare lo stesso”.

***

Su invito del leader del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte, i deputati di M5S, Pd e Avs si solo alzati in piedi in Aula per condannare “in silenzio” lo “sterminio” a Gaza. Un appello non accolto però dai membri del governo e dai parlamentari di maggioranza che, invece, sono rimasti seduti. “Siamo qui, nel luogo eletto della democrazia, e rivolgo un appello a tutti i colleghi, un segno di umanità diamolo. Condanniamo in silenzio questo sterminio di donne, di bambini, di giornalisti, tutte le vittime civili di Gaza. Alziamoci in piedi”, ha detto Conte durante il premier question time alla Camera. Il leader M5S si è allora rivolto alla presidente al Consiglio sottolineando: “Lei rimane seduta”, tra le grida dei colleghi che dicono: “Vergogna!”. “E gli ostaggi?”, hanno replicato i deputati del centrodestra rimasti anche loro seduti ai propri posti. Fontana a quel punto ha chiesto a Conte di terminare il suo intervento. “Mi rendo conto che lei agisce senza mandato sempre. Su Gaza non ha alcun nessun mandato degli italiani per dare copertura politica e militare al governo e alla condotta criminale di Netanyahu. Nessuna condanna nel suo intervento”, aveva sottolineato Conte rivolgendosi alla premier. (da “Il Fatto Quotidiano”)

Qual è la motivazione della pilatesca posizione di governo e maggioranza?

“Non è stato Israele a iniziare le ostilità e c’era un disegno alla base dei disumani attacchi di Hamas e la crudeltà rivolta agli ostaggi” (così Giorgia Meloni in Parlamento). 

Abbiamo tutti presente come i bambini reagiscono rispetto ai violenti litigi che li coinvolgono: è stato lui o sono stati loro a cominciare. Con la piccola differenza che nel caso di Gaza non siamo in presenza di una rissa da cortile, ma del massacro di un’intera popolazione. Eppure fior di opinionisti continuano (per tutti Federico Rampini) a praticare una omertosa equidistanza tra massacratori e massacrati, strumentalizzando il pur esecrabile attacco terroristico di Hamas. Per fortuna non tutti la pensano così persino in Israele.

È così facile essere un israeliano: la tua coscienza è pura come la neve, perché tutto è colpa di Hamas. I razzi sono colpa di Hamas. Hamas ha cominciato la guerra, senza alcuna motivazione. Hamas è un’organizzazione terrorista. I suoi esponenti non sono altro che bestie, nati per uccidere, fondamentalisti. Circa 400mila palestinesi hanno dovuto lasciare le loro case. Più di 1.200 sono stati uccisi. L’80 per cento erano civili. La metà erano donne e bambini. Circa 50 famiglie sono state spazzate via. Le loro case sono state distrutte con loro dentro. La tragedia ha raggiunto le dimensioni di un massacro, ma Israele ha le mani e la coscienza pulite. È tutta colpa di Hamas.

(…)

Personalmente non sono un ammiratore di Hamas, al contrario. Ma il tentativo di Israele di dare tutta la colpa a Hamas è inaccettabile. Presto la comunità internazionale giudicherà le atrocità di questa guerra. Hamas sarà criticata, giustamente, ma Israele sarà condannato e ostracizzato molto di più. E gli israeliani diranno: “È colpa di Hamas”. E il mondo intero riderà. (Internazionale.it -Gideon Levy – giornalista israeliano).

Ho letteralmente citato l’incipit e la conclusione dell’articolo di cui sopra, la cui lettura integrale consiglio a tutti coloro che vogliano uscire dai giochetti psico-politici per fare i conti con un vero e proprio sterminio in atto e prendere almeno le distanze dalle responsabilità di chi sta portando avanti questa disumana, vergognosa, tragica e colpevole guerra, nascondendosi dietro il dito della pur grave provocazione subita.

 

Il modello europeo è classico e non va fuori moda

«È urgente, direi prioritario, che l’Europa agisca, perché stare fermi non è più un’opzione». È dal summit sull’innovazione Cotec di Coimbra – lo stesso a cui era presente anche Mario Draghi – che Sergio Mattarella lancia un «appello all’azione» ai vertici delle istituzioni europee. Il tema scelto per l’edizione del 2025 è la competitività, parola finita in cima alle priorità di Bruxelles, in particolare dopo i report di Enrico Letta e dello stesso Draghi. «Progredire senza indugi e con efficacia in quest’ambito è largamente considerata condizione indispensabile all’ulteriore approfondimento del progetto d’integrazione continentale, al rilancio strategico dell’Unione Europea e alla preservazione di un’economia prospera per i suoi Stati Membri e i suoi cittadini», ha scandito Mattarella dal palco del summit in Portogallo.

Di fronte a un mondo che cambia sempre più rapidamente, il capo dello Stato invita l’Europa a darsi da fare per non rimanere indietro: «Sarebbe miope guardare all’Unione come a una costruzione nata “sottovuoto”. Al contrario, fin dalle sue origini gli Stati membri hanno prestato attenzione ad adattare l’Unione a un’ambiente politico ed economico in continua evoluzione». Il riferimento, anche se mai citato esplicitamente, è al terremoto politico, diplomatico e commerciale innescato dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Un passaggio delicato, a cui – secondo Mattarella – Bruxelles dovrebbe reagire lavorando «insieme per un’Europa più competitiva, tecnologicamente avanzata e quindi più sicura, capace di ridurre le sue dipendenze strategiche ma senza pregiudicare la tela di fondo di un ordine internazionale fondato sul libero commercio».

Il discorso di Mattarella a Coimbra arriva poco dopo la Turandot di Giacomo Puccini. Un assist perfetto per le parole che avrebbe pronunciato di lì a poco il capo dello Stato. «Poc’anzi abbiamo ascoltato la romanza ‘Nessun dorma’, potrebbe applicarsi alla nostra Unione», ha detto il presidente della Repubblica. Dopodiché, Mattarella ha rivendicato tutto ciò che distingue il modello economico e sociale europeo, soprattutto rispetto a quello americano e cinese. «L’Unione si erge su solide fondamenta: un’economia di mercato aperta alla concorrenza e agli scambi internazionali; un sistema di banche centrali indipendente; un quadro giuridico stabile e affidabile; una concezione di Stato di diritto saldamente ancorata a una convinta tradizione democratica; politiche di redistribuzione attive ispirate al principio di solidarietà. Occorre essere orgogliosi – ha insistito Mattarella – di questa “eccezionalità europea” e progredire su tali presupposti». (da open.online)

Sono tre gli aspetti toccati dal presidente Mattarella, un europeista convinto in mezzo a troppi europeisti di maniera. Il primo punto riguarda la dinamicità del sistema europeo: non si può giocare sempre di rimessa, imprigionarsi in una diplomazia asfittica e inconcludente, credere nell’Europa ma solo un pochettino, fino a mezzogiorno. Non sono ammesse mezze misure!

Il secondo perentorio invito è quello di reagire al mondo e al modo trumpiani non solo e non tanto tatticamente, ma passando al contrattacco, agendo concretamente per un’Europa protagonista che è in gradi di mettere in campo un modello economico e sociale diverso rispetto a quelli degli Usa e della Cina. È inutile piangere sul latte versato da Trump, bisogna salvaguardare il latte europeo. Ogni botte dà il vino che ha, non è il caso di tentare di tagliare il vino democratico con quello sovranista e populista, ne uscirebbe comunque una vomitevole bevanda.

Il terzo discorso riguarda la consapevolezza di essere portatori, come europei, di un modello originale e competitivo, non rinunciando ai nostri principi per opportunismo geopolitico. Non so se all’alba vinceremo, so che avremo contribuito a costruire un mondo decisamente migliore rispetto a quello emergente dal quadro internazionale di questi tristissimi tempi.

Fa benissimo Sergio Mattarella a farci queste flebo europeiste, a lanciare queste sublimi provocazioni: ne abbiamo un bisogno estremo, se non vogliamo sprofondare del tutto in un mondo di egoismo, ingiustizia e guerra. (Dis)armiamoci e partiamo!

 

 

 

L’algebra papale

Quali erano i rapporti di papa Francesco con la base cattolica e con la gente in genere? Fra la gente era molto popolare, perché riusciva a sintonizzarsi con l’umore delle persone a cuore e Vangelo aperto: in lui prevaleva l’impostazione pastorale della misericordia.

Le sue difficoltà erano invece sul fronte interno laddove tende da sempre a prevalere l’impostazione dottrinale. Il pensiero di Bergoglio fu chiaro fin dall’inizio: non tendere in maniera esagerata alla sicurezza dottrinale a scapito della misericordia.

In molti, preoccupati di svilire la dottrina, facevano buon viso a cattiva sorte: li sa solo lui i bastoni fra le ruote che gli avranno messo i patiti della tradizione. Gli avevano consegnato una Chiesa disastrata dagli scandali e lui era riuscito a recuperare la fiducia e il consenso, toccando certi nervi scoperti. Siccome faceva male alla carne conservatrice non vedevano l’ora di sbarazzarsene e l’ora purtroppo è venuta. Non mi stupisco quindi del respirone di sollievo tirato da parecchi ambienti cattolici a pieni polmoni prevostiani: finalmente un papa che torna a vestire prada.

Checché se ne dica è stata troppo repentina la presa di distanza dal papato bergogliano: lo hanno archiviato con tanta sospettabile fretta.

Riusciranno le due correnti di cui sopra esistenti nella Chiesa e di cui si deve prendere atto – anziché negarle ipocritamente confondendole nella melassa del vogliamoci bene – a trovare un punto d’incontro? La prima comunità cristiana, dove le diversità di vedute non mancavano, riusciva nel dialogo franco e costruttivo a superare le divisioni, forse perché allora le preoccupazioni “politiche” e gli equilibrismi conseguenti non esistevano.

E la gente? Non ha spina dorsale, è succube dei media e, siccome i media sono immediatamente saltati sul carro del vincitore, anche la gente si è buttata a capofitto su Leone XIV: in fin dei conti, morto un papa se ne fa un altro. Il bagno mediatico si è immediatamente spostato da Bergoglio a Prevost.

Per papa Francesco l’espressione matematica può essere la seguente: più gente meno Chiesa o meglio più misericordia meno dottrina. Come si sa in algebra il prodotto finale è negativo. Non sono bastate le preghiere, che insistentemente Francesco chiedeva, a mutare quel meno di Chiesa in un più di Carità cristiana per tutti. Non so quale sia il risultato finale nelle coscienze: nella mia è stato “scombussolatamente” positivo, papa Francesco mi ha fatto bene!

Per papa Leone: più gente più Chiesa, con il prodotto positivo fin dall’inizio. Il nuovo papa va sul velluto: si dà enorme credito al suo parlare di pace come se il suo predecessore non ne avesse mai parlato.

Mi sovviene una sferzante annotazione di mio padre. Parlava il nuovo allenatore di una squadra di calcio – non ricordo e non ha importanza quale – che aveva ottenuto subito una vittoria ribaltando i risultati fin lì raggiunti. L’intervistatore chiese il segreto di questo repentino e positivo cambiamento e l’allenatore rispose: “Sa, negli spogliatoi ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti che dovevamo vincere”. Non ci voleva altro per scatenare la furia ironica di mio padre che, scoppiando a ridere, soggiunse: “A s’ capìssa, l’alenadór äd prìmma, inveci, ai zugadór al ghe dzäva äd perdor”.

Tutto sommato, a tutti, convintamente o distrattamente, interessa più la dottrina della misericordia: la dottrina è fatta di parole che si possono aggirare e formalizzare, la misericordia richiede fatti concreti e ci tiene quindi sulla corda interpellandoci in prima persona.

Non mi convince la tesi secondo la quale il cardinale Prevost fosse e sia il compromesso ai livelli più alti fra dottrina e misericordia. C’era di meglio, penso al cardinale Tagle, che avrebbe inoltre garantito anche la mondializzazione del papato in chiave evangelica e non geopolitica.

Qualcuno sostiene che sia emersa l’esigenza di cambiare l’aria nei rapporti internazionali fra Vaticano e resto del mondo, con la Cina in particolare, forse non per difendere la Chiesa dalle intromissioni di quel regime, ma per fare un favore al trumpismo (boccaccia mia statti zitta!) e pagare un po’ di dazi religiosi agli Usa. Sembra che la candidatura del cardinale Parolin sia scivolata proprio sulla buccia di banana filocinese.

In conclusione, Pietro nelle intenzioni di Gesù, doveva avere la voce rassicurante e riconoscibile del pastore (pasci i miei agnelli e le mie pecore). Mentre per me la voce di Francesco lo era, anche se a volte dissentivo da certe sue linee, la voce di Leone temo di non riuscire a coglierla. Al momento mi sento una pecora senza pastore, salvo cambiamenti nella voce del pastore e nelle mie orecchie.

I valori cristiani a servizio dei problemi europei

Perché le due zone grigie, quella civile e quella religiosa, sono pressoché sovrapponibili, sono due facce della stessa medaglia, solo che quella religiosa conserva l’attitudine alla vocazione, possiede ancora un codice dell’anima condiviso e non vuole rinunciare alla trascendenza, non è un caso, infatti che più della metà degli italiani si rivolge a Dio, crede in una vita dopo la morte e in qualche forma di “giudizio finale”. La grande opportunità allora che si apre in questo scenario sta proprio nel fatto che la Chiesa in uscita può portare con sé, nella zona grigia, in modo più o meno latente, i suoi attrezzi spirituali, il suo bagaglio di capacità di orientamento, la sua tensione verso un altrove, la sua spinta a dare senso ad una vita, “che non si esaurisce tutta qua”. Il contributo visto come cattolici sarà quello di richiamare gli italiani all’uso di quegli strumenti, riattivare quei semi, anche piccoli, che la “chiesa in uscita” porta con sé e che oggi, magari senza saperlo, getta nella società. Colmando, là dove ci si trova e per quanto possibile, quel deficit di vocazione che oggi affligge la nostra società, facendo leva su quell’attitudine alla trascendenza che noi tutti abbiamo interiorizzato e che fa parte del nostro patrimonio nazionale, almeno ancora per qualche generazione, visto che l’analfabetismo religioso si diffonde fra i giovani e tra uno o due generazioni, l’erosione potrebbe essere irreversibile. Avviare allora un lavoro dello spirito, una ricerca di vocazione a tutti i livelli, contrasterebbe il soggettivismo spento, orienterebbe le comunità sociali, grandi e piccole, verso il recupero di valori civili e sociali, valori magari con risonanze religiose, ma senza richiami ad appartenenze, sarebbe un bel modo per incoraggiare il Paese ad andare oltre. (da “Avvenire” – Giuseppe De Rita)
Il pezzo, da cui ho tratto il brano di cui sopra, mi dà lo spunto per andare su una questione attualissima, anche se culturalmente e politicamente piuttosto sottovalutata se non addirittura snobbata: il ruolo dei cattolici nella società odierna. Quei cattolici, che tramite loro illustri rappresentanti hanno contribuito in modo determinante a porre le basi costituzionali della nostra democrazia repubblicana e che hanno avviato e portato avanti il progetto di unificazione europea, hanno ancora una funzione da svolgere per rifondare il Paese e l’Europa nel deserto che nel frattempo si è venuto a creare?
Più volte, raccogliendo le sacrosante provocazioni di un caro amico, sono arrivato alla conclusione che solo dal rinnovato impegno cattolico possa sortire un processo di rifondazione di cui si sente la necessità impellente.
Al di fuori di qualsiasi visione integralista, bisogna riconoscere che le fondazioni del nostro vivere civile hanno bisogno di un’iniezione di cemento cristiano. Purtroppo non esistono formule precostituite, ma soltanto progetti di massima da elaborare, finalizzare ed attuare.
Vengo al discorso europeo: il ruolo dei cattolici è stato decisivo nella costruzione dell’unità europea. Lo hanno ammesso, anche se in ritardo ma con grande onestà intellettuale, gli stessi autori del manifesto di Ventotene. Il manifesto risente dei lacci ideologici del tempo che fu, dal cui buco peraltro si riuscì a cavare ottimi ragni.
Anziché elaborare opportunisticamente e strumentalmente i limiti di un qualcosa (l’Europa di Ventotene) a cui contrapporre il nulla (l’Europa di Giorgia Meloni), sarebbe meglio riempire di contenuti l’eventuale futuro del disegno europeo, rifacendo il percorso dei padri fondatori e non facendo le pulci agli stessi.
Ci saranno degli eredi di De Gasperi, Schumann e Adenauer, disponibili a ripercorrere la strada imprescindibile dell’unità europea? Non li vedo, ma il discorso resta valido e va costruito pazientemente dalla base, pur partendo, oggi come allora, da finalità concrete.
Mi interessa al riguardo l’insistenza con cui Sergio Mattarella affronta la necessità di dare una risposta unitaria a livello europeo sui dazi commerciali. Sarà il nuovo banco di prova da cui partire come fu per il carbone e per l’acciaio?
Nessuno si strappi le vesti e gridi al boicottaggio dei nuovi equilibri imperialistici in via di instaurazione. Potrebbe essere la più eloquente delle risposte al “picconamento” trumpiano, così come all’accomodamento meloniano, nonché al protagonismo macroniano, alla ruminazione britannica e al tira e molla tedesco.

Diritto di impaziente critica evangelica

“Vedrai che sarà meno male di quanto pensi: tradizione come Benedetto; continuità con Francesco (i poveri); un mediatore con meno strappi di Francesco e poi retromarce…; sarà più efficace con la sua mitezza-prudenza…mite ma non debole…si è visto come si è opposto a Vance senza mezzi termini. Speriamo che riesca a ricucire la Chiesa lacerata tra progressisti e conservatori. E influire anche sulla pace (?). Missionario tra i poveri del Perù (20 anni), che andava a trovare a cavallo. Dottrina agostiniana… conosce la Curia e le Conferenze episcopali…unità e pace le due parole chiave. Una Chiesa lacerata non va da nessuna parte… pace quanto c’è bisogno…lo Spirito Santo non finisce di stupirci…io ho sensazioni positive…ma aspettiamo…aspettiamo e preghiamo per Lui. Si è preso una bella croce sulle spalle… (…) Sul tema della sessualità bisogna aspettare per capire la linea del pontificato, non dimenticando che la ricerca della verità è sempre dialogica, anche sui temi morali. Si ricerca insieme…ascoltandosi reciprocamente su temi così spinosi. Tutto nasce dall’ascolto…e questo papa, a detta di chi lo conosce, sa ascoltare…speriamo…”.

Ho riportato integralmente la riflessione che mi ha inviato un mio carissimo amico in risposta alle mie intemperanti, istintive, precipitose, dubbiose, ma sinceramente preoccupate, reazioni a caldo alla nomina di papa Prevost. Accolgo le sue sagge, acute e pertinenti osservazioni, di cui lo ringrazio e di cui farò tesoro all’interno di un confronto da tempo aperto in clima di amicizia e fede.

L’atteggiamento giusto è sicuramento quello della paziente attesa, del dialogo e della preghiera. Per quanto concerne la pazienza è dai tempi della mia prima comunione che aspetto una Chiesa aperta, tollerante e misericordiosa: nel frattempo mi sento (quasi) in dovere di esprimere le mie riserve e i miei dubbi, non rinuncio a partecipare convintamente ma criticamente alla vita ecclesiale. Questo mio atteggiamento è sempre stato scambiato per presunzione e/o snobbato come insofferenza tipica del piantagrane.

Devo chiarire due equivoci. Il primo riguarda la non facile distinzione tra giudizio anti-evangelico e sacrosanta critica evangelica. Cerco di stare sul secondo binario: ogni e qualsiasi deragliamento è da considerare puramente casuale. Il secondo riguarda il mio stile (volutamente) provocatorio, che però non vuole scandalizzare nessuno, ma soltanto stimolare il dialogo ed il confronto.

E vengo al dialogo, facendo un lungo passo indietro, andando ai tempi del referendum sul divorzio. Come redattori del settimanale diocesano “Vita Nuova”, che aveva osato pubblicare un paginone riportando il dibattito aperto su quel tema allora tanto discusso e durante il quale era prevalso l’atteggiamento liberal, chiedemmo un incontro al Vescovo e ci fu concesso: fu chiarificatore ma in senso negativo. Il Vescovo ribadì che a suo giudizio noi (favorevoli all’istituzione del divorzio) eravamo totalmente fuori strada e, pur concedendoci la buona fede, ci considerava ai limiti della comunione ecclesiale: stavamo sbagliando, dovevamo riconoscerlo. A quel punto ricordo di essere intervenuto rincarando la dose ed affermando come ritenessi di avere diritto ad esprimere il mio parere anche su questioni di carattere ecclesiale, più che mai su questioni politiche anche se collegate a problemi etici e come non tutta la gerarchia fosse schierata sulle posizioni assunte così rigidamente dal Vescovo. Gli dissi precisamente: “Sappia monsignore che non tutti i suoi confratelli nell’episcopato la pensano esattamente come Lei!”. La riposta fu: “Non è vero!”. Si chiuse negativamente l’incontro anche e soprattutto perché non si era creato un vero clima di dialogo.

Del tempo ne è passato parecchio, ma ulteriori episodi del mio rapporto con l’episcopato parmense mi hanno portato ad agire da battitore libero, fuori dagli schemi e mi ci sono “felicemente” abituato. Sono io incapace di ascoltare o è la gerarchia cattolica che stenta a mettersi nella “rischiosa” modalità dell’ascolto?

Pregare? È fondamentale! «Non c’è forza più potente della debolezza della preghiera» (Cardinale Carlo Maria Martini). Tuttavia non scarichiamo sullo Spirito Santo le beghe ecclesiali: aiutiamoci a risolverle senza aspettare i miracoli dall’alto.

In conclusione (peraltro siamo solo agli inizi del pontificato di Leone XIV) mantengo i miei dubbi e le mie perplessità, pronto a ricredermi e sperando che nella vita della Chiesa (che non è solo il Papa) prevalgano le novità di metodo e di merito.

«La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall’aiuto degli altri: le persone buone intorno a me mi fanno sentire l’amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l’amore vince la stanchezza. Dio è amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?» (Cardinale Carlo Maria Martini, appello prima della morte).

Accolgo con commozione l’invito del cardinal Martini, che sfiorò il pontificato e seppe fare rinunce al riguardo senza appiattirsi sul pensiero dei pontefici regnanti. Forse era troppo avanzato per fare il papa.

Si dice che il suo passo indietro al conclave del 2005 fosse stato accompagnato da un patto ecclesiale con il cardinal Ratzinger (il lodo Cantalamessa), regolarmente violato da Benedetto XVI. Martini non si scoraggiò e ripiegò sulle proprie idee espresse anche sulla stampa laica e nel dialogo con i non credenti. Certo, lui sapeva aggiungerci l’amore. È lì che per me casca l’asino. Che Dio aiuti Leone XIV e, se non chiedo troppo, che aiuti anche me!

 

Il sesso degli angoli

«Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante». Per Papa Francesco sarebbe quindi una restrizione moralmente problematica affermare in modo automatico che una persona divorziata e risposta vive in stato di peccato mortale, unicamente a partire dal fatto che essa si trova in una situazione che non corrisponde a una norma della Chiesa.

Già il Vaticano II aveva detto che la sessualità deve prendere una forma veramente umana, cioè “da persona a persona”, superando, quindi, una finalità strettamente naturalistica che permea la sessualità. Perciò proseguire sulla scia del Concilio in un approccio decisamente personalistico, come fa Amoris laetitia, non ha a che vedere con il fatto che si rinuncerebbe a definire ciò che è lecito o non lecito fare. Solo che con l’insegnamento del Concilio e di Papa Francesco il criterio è cambiato. La base delle istanze morali incondizionate non è più costituita dall’ordine funzionale della natura, ma da un ordine personale di ricerca del senso. Ciò che non è lecito, ha a che fare con tutto ciò che lede la dignità delle persone, offende i loro diritti e ferisce la fioritura delle loro relazioni.

Ecco la grande eredità che papa Francesco, con Amoris laetitia, lascia alla teologia morale ma anche al magistero del futuro pontefice. Evitando di credere che tutte le questioni teologiche legate al matrimonio, alla coppia e all’amore siano chiuse e risolte una volta per sempre, in un ordine morale oggettivo, al quale al massimo si possono applicare accomodazioni pastorali più morbide, egli ci offre spunti preziosi per continuare la ricerca e avanzare sulla via della comprensione della dottrina morale che tenga il suo centro gravitazionale sulla sacralità della persona. E questo apre senza dubbio a nuove speranze!

(dal quotidiano “Avvenire” – Antonio Autiero, teologo e professore emerito di teologia morale all’Università di Münster)

Anche e soprattutto su questo piano andrà misurata la continuità di papa Prevost! L’impostazione teologica bergogliana, emergente dalla Amoris laetitia, non è compatibile con i bigotti desiderata di un certo cardinalato e di un certo cattolicesimo, che auspicano un ritorno alla rigidità non a favore delle persone portatrici di problemi ma contro queste persone, in nome di un ordine naturale, sulla base di una reazionaria identità etica piena di pregiudizi ideologici e vuota di carità cristiana.

Nella mia povera e peccaminosa vita sessuale e sentimentale mi sono posto il limite del rispetto non tanto delle regole astratte, ma delle persone concrete. Ecco perché ho visto con tanto interesse le aperture, peraltro fin troppo prudenti, della pastorale bergogliana, che sintetizzo plasticamente nel “chi sono io per giudicare un omosessuale che cerca di vivere seriamente la sua condizione?”. E vale non solo per gli omosessuali.

Speravo che il conclave desse un segnale di continuità e di ulteriore sviluppo di certe impostazioni aperturiste anche e non solo nel campo della sessualità. Non si tratta di adottare lo schema progressisti-conservatori, ma c’erano fra i papabili alcuni cardinali che potevano rispondere abbastanza chiaramente a queste attese. Si è preferita una furba e comoda scelta rassicurante.

Al momento i segnali sono quindi piuttosto contrari. Si tratta solo di segnali!? Saprà il nuovo papa resistere alle ansie restauratrici emergenti da un certo mondo cattolico, i cui rappresentanti gerarchici sembrano averlo più o meno apertamente opzionato?

Il carissimo e indimenticabile amico don Luciano Scaccaglia, nelle sue ultime omelie, mettendo in contrasto la misericordia di Gesù con il moralismo della Chiesa, diceva: «Una cosa è certa: con Gesù è la fine della contrapposizione netta tra buoni e cattivi, è la fine “delle evidenze morali e dei concetti chiari e ferrei”, è la fine dei pregiudizi, a causa dei quali noi sappiamo sempre cosa occorre fare, però nella vita degli altri. Una cosa è certa: la severità della Chiesa, le sue rigide leggi pastorali, liturgiche, sacramentali verso i “diversi”, le coppie di fatto, o persone in difficoltà, o matrimoni in crisi, non aiutano né testimoniano la misericordia di Gesù; non fanno maturare, ma umiliano». E ancora, chiarendo come le distinzioni sessuali non vengono da Dio, sosteneva: «Dio ama tutti, tutte le persone e non guarda alla tendenza sessuale. Noi invece facciamo distinzione e alziamo steccati, laddove non è presente la misericordia di Dio, ma il nostro giudizio severo… Una parte della Chiesa, forte della difesa del matrimonio e della famiglia fatta giustamente da Francesco, veste i panni dei crociati e non ha stima, anzi, rifiuta le unioni civili. Certe iniziative vanno in questo senso: difendono la famiglia, il matrimonio, ma condannano altre forme ed espressioni dell’amore. Strani questi cristiani, questi vescovi, discriminanti e penalizzanti, che pensano di parlare a nome di Dio e di Gesù».