Il perbenismo filo-israeliano e le smerdate filo-palestinesi

Un gruppo di attivisti pro Pal ha interrotto per protesta un dibattito sulle prospettive di pace in Medioriente nell’Università di Ca’ Foscari a Venezia. All’evento, con ospiti il presidente di Sinistra per Israele – Due Popoli due Stati Emanuele Fiano e Antonio Calò presidente di Ve.Ri.Pa, alcuni studenti con uno striscione contro i sionisti nelle università si sono messi a intonare slogan critici verso le posizioni dell’incontro.

“Ho provato in tutti i modi a continuare ma hanno continuato a parlare e a dire su di me falsità”, ha riferito Fiano. Gli attivisti – un gruppo di studenti della Sinistra giovanile – gridavano “fuori i sionisti dall’università”. “Sono scioccato da quanto accaduto”, ha aggiunto l’ex parlamentare: “Impedire a una persona di parlare è fascismo. L’ultima volta che hanno espulso un Fiano da un luogo di studio è stato nel ’38, con mio padre. Noi eravamo lì a parlare di pace tra due popoli, di ingiustizie, di dolori, di violenza e di pace. Chi non vuol sentire parlare di queste cose la pace non la vuole”, ha concluso.

L’incontro era stato organizzato dall’associazione “Futura” in collaborazione con la Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace. “Assieme ad alcuni studenti – ha detto Fiano – si doveva svolgere un dibattito sulle prospettive di pace in Medioriente nella logica dei ‘due popoli due stati‘. Nei giorni scorsi il ‘Fronte gioventù comunista’ aveva annunciato una manifestazione”. “Si tratta dell’ennesimo episodio di violenza politica su danni proprio di chi da sempre è impegnato per la pace e la risoluzione del conflitto in Medioriente”, si legge in una nota di Sinistra per Israele. (da “Il Fatto Quotidiano”

So di avventurarmi in un terreno delicatissimo, ma nella mia vita ho sempre avuto il coraggio di affrontare criticamente, pagando di persona, anche le situazioni più scomode, esponendo apertamente e coraggiosamente il mio parere. Non avevo sempre ragione, non avevo sempre torto: una cosa è certa, ho esercitato pienamente il mio diritto di pensiero, di parola e di azione al di là degli schemi e del politicamente corretto.

Seguendo questo stile comportamentale, prima di procedere con le condanne sommarie in cui si esercitano i benpensanti di turno, sono portato a chiedermi il perché di queste clamorose proteste giovanili.

Ricordo come Aldo Moro, di fronte ad un poster che ritraeva un giovane con in mano una P38, si interrogasse sulle motivazioni di questa estrema manifestazione di protesta prima di giungere alla sua inesorabile condanna.

Perché certi giovani esprimono questa totale e incondizionata repulsione verso le ragioni israeliane? Hanno tutti i torti provenienti da un pregiudiziale radicalismo che li porta a generalizzare e ad essere intolleranti verso tutti coloro che appartengono, direttamente o indirettamente, alla nazionalità israeliana? Esistono motivazioni serie alla base di tali aprioristiche contrapposizioni?

C’è innanzitutto la smania del rifiuto di una totalizzante narrazione storico-culturale comunque favorevole alle ragioni israeliane fino a giustificarle con la manichea contrapposizioni al terrorismo di marca palestinese: in mezzo totale silenzio sulle ingiustizie patite dalla popolazione palestinese, costretta a vivere senza diritti, senza patria, senza classe dirigente. L’impulso è quello di reagire sposando acriticamente la causa palestinese e squalificando tutti coloro che sono dall’altra parte della barricata.

Aggiungiamo una certa quale ignoranza storica condizionata dall’assolutizzazione della pur sacrosanta memoria dell’olocausto, che per gli ebrei è purtroppo un alibi per la vendetta e per i palestinesi una folle spinta alla illegittima difesa: davanti a questo paradossale bivio non c’è alternativa, non si riesce a ragionare, sionismo ante litteram provoca antisemitismo, antisemitismo chiama guerra totale e perpetua in una perversa spirale di odio.

Consideriamo inoltre la fisiologica giovanile propensione alla radicalizzazione delle risposte ai problemi, che reagisce alla insopportabile melina diplomatica la quale finisce col privilegiare il più forte, nel caso specifico il governo israeliano, che si sovrappone peraltro allo Stato e alla popolazione israeliani. Come resistere alla tentazione di radicalizzarsi di fronte al balletto verde di Trump e Netanyahu con tanto di opportunistici applausi arabi?  Tutta colpa di Hamas? Ma fatemi il piacere…

Non è facile rimanere lucidi e imparziali in questo ginepraio culturale, storico e politico. Occorre molta pazienza e comprensione verso chi in assoluta buona fede si ribella rischiando di confondere capre e cavoli. Se devo essere sincero sono portato a capire l’atteggiamento dei giovani universitari di Ca’ Foscari, i quali di fronte al massacro di una popolazione non riescono a disquisire ma usano zappa e badile. Capisco molto meno l’Europa e il governo italiano che condannano a parole e non si immischiano, rifiutando i fatti concreti quali il blocco delle forniture di armi ad Israele e l’isolamento commerciale di questo Stato.

È comodo non fare niente e scandalizzarsi di chi vuole fare qualcosa ma finisce suo malgrado nella rete della confusione imperante.

Chiudo ricordando una barzelletta con protagonista uno storico personaggio di Parma, Stopàj: questi, piuttosto alticcio, sale in autobus e, tonificato dall’alcool, trova il coraggio di dire impietosamente la verità in faccia ad un’altezzosa signora: «Mo sale che lè l’è brutta bombén!». La donna, colta in flagrante, sposta acidamente il discorso e risponde di getto: «E lu l’è imbariägh!». Uno a uno, si direbbe. Ma Stopaj va oltre e non si impressiona ribattendo: «Sì, mo a mi dmán la me pasäda!». Al lettore l’incarico di uscire dalla metafora, sostituendo ai personaggi della gustosa gag le parti in campo a Ca’ Foscari.

Alla protesta esagerata si risponde con la squalifica scandalizzata, al perbenismo del galateo internazionale si risponde con una smerdata generalizzata. L’importante sarebbe che dopo gli insulti reciproci alla fine si riuscisse a riprendere il filo del ragionamento. E chi dovrebbe fare il primo passo se non la politica, sforzandosi di capire le ragioni della protesta piuttosto che trincerarsi dietro l’esasperazione di chi protesta.

 

Meloni e Orban compagni d’armi

Gli ingenti finanziamenti legati al Piano di riarmo europeo al servizio di una “tregua” tra Ungheria e Bruxelles sul dossier-Ucraina. Stringi stringi, dall’incontro a Palazzo Chigi tra la premier Giorgia Meloni e il leader magiaro Viktor Orbán emerge il tentativo di una difficile ricomposizione, con Roma in un ruolo di mediazione, benché complicato e segnato da diversi imbarazzi.

I due sono amici e uniti anche dal punto di vista politico-culturale. Ma sulla visione d’Europa ormai, da tempo, divergono. E dunque a fine incontro Palazzo Chigi trasmette una nota ufficiale in cui non si indugia – come in altre circostanze – sul tenore del colloquio, ma si cerca di lasciare poco spazio alla fantasia. Il colloquio, si spiega, ha consentito di confrontarsi su «situazione in Ucraina, sviluppi in Medio Oriente e agenda europea». Immancabile, ma di maniera, il riferimento a una «gestione efficace e innovativa dei flussi migratori». La traccia da seguire sta nel finale della nota di Palazzo Chigi: «I due leader hanno infine discusso delle opportunità offerte dallo strumento europeo Safe, valutando possibili sinergie tra Italia e Ungheria a sostegno delle rispettive capacità industriali e tecnologiche».

L’Ungheria riceverà 16,2 miliardi di prestiti europei dal programma Safe, più dell’Italia. La “logica” del riarmo stabilito in sede Ue è proprio la comune visione sul pericolo russo. È evidente che le posizioni di Orbán su Putin renderebbero quasi contraddittoria la partecipazione dell’Ungheria al programma. Il leader magiaro pone veti sull’ingresso di Kiev nell’Unione e ora è in “lotta” con Bruxelles sulle nuove sanzioni a Mosca. Non solo, Orbán è in rotta anche con Trump per la scelta americana di sanzionare l’export di petrolio russo, di cui si serve.

Dalla nota italiana si comprendono sia le difficoltà del colloquio sia la richiesta di Meloni a una maggiore disponibilità al dialogo, motivata dalle “opportunità” legate al piano di riarmo. (“Avvenire” – Marco Iasevoli)

Per il commento a questo compromesso diplomatico, basato sul riarmo e lo stanziamento dei relativi fondi, cedo la parola a mio padre e alle sue caustiche riflessioni. Ai suoi tempi Giorgia Meloni e Viktor Orbán non erano nemmeno nati: così non si potrà dire che ho dei pregiudizi negativi su questi personaggi.

Di fronte ai duri contrasti tra governanti osservava amaramente: «Quand as trata ‘d fabricär dil ca par la povra genta i tacàgnon parchè an gh’é mäi i sòld, quand as trata ‘d fabricär dilj armi ien tùtt d’acordi e ‘d sold a gh’nè anca tròp».

Nella sua semplicità, quando osservava l’enorme quantità di armi prodotta, rimaneva sconfortato e concludeva per un inevitabile inasprirsi dei conflitti al fine di poter smaltire queste scorte diversamente invendute ed inutilizzate. «S’in fan miga dil guéri, co’ nin fani ‘d tutti chi ilj ärmi lì?» si chiedeva desolatamente.

Di ritorno dalla toccante visita al sacrario di Redipuglia si illudeva di convertire tutti al pacifismo, portando in quel luogo soprattutto quanti osavano scherzare con nuovi impulsi bellicosi. «A chi gh’à vója ‘d fär dil guéri, bizògnariss portärol a Redipuglia: agh va via la vója sùbbit…». Pensava che ne sarebbero usciti purificati per sempre.

 

 

 

 

Da coraggiosi pionieri a insulsi epigoni dell’europeismo

Nel corso delle comunicazioni alle Camere prima del Consiglio europeo Giorgia Meloni ha iscritto d’ufficio l’Italia al gruppo dei Paesi che intendono mantenere il meccanismo dell’unanimità di voto e quindi il potere di veto per i singoli Stati: «Non intendo formulare una proposta di revisione dei Trattati nel senso di allargare il voto a maggioranza in luogo dell’unanimità», ha detto la presidente del Consiglio. Ben noto è il diverso orientamento sul tema di Sergio Mattarella, manifestato anche davanti alla Commissione Europea: con l’Europa a 27, sostiene il Capo dello Stato, il voto all’unanimità «paralizza l’Unione», e rappresenta una «formula ampiamente superata». Il Quirinale, certo, non ha competenze dirette in politica estera, ma il mandato presidenziale fu concepito di 7 anni dai padri costituenti a garanzia di una continuità istituzionale che vada oltre le oscillazioni derivanti dai cambi di legislatura, e questo conferisce al Capo dello Stato anche il ruolo di garante dei Trattati internazionali, materia che non a caso in Costituzione è stata tenuta fuori dai temi che possono essere oggetto di referendum.

Ma al di là della forza cogente che possono avere o meno le posizioni espresse sull’argomento dal Capo dello Stato è bene fare i conti con la forza dei suoi argomenti. Non ci si può infatti richiamare a Mattei in politica estera e a De Gasperi sulla politica domestica e comunitaria tralasciando il filo rosso che unisce questi due padri della Repubblica, in virtù di una visione comune che fece del primo l’interprete simbolo di una politica post-colonialista e non predatoria in Africa, e del secondo uno dei padri del progetto europeo. Una comune visione cristiana che tratteggiava un futuro di collaborazione fra i popoli, in un quadro di crescente cessione di sovranità da garantire agli organismi sovranazionali, in primo luogo in Europa, lasciandosi alle spalle una storia di nazionalismi che avevano fatto da innesco a due devastanti guerre mondiali.

D’altronde occorre essere conseguenti. Non ci si può lamentare del ruolo poco incisivo dell’Europa, anche su questioni cruciali che la toccano da vicino come i conflitti in Medio Oriente e in Ucraina, e poi precluderle quel cambio dei meccanismi decisionali che, unico e solo, può garantire l’auspicabile salto di qualità. (“Avvenire” – Angelo Picariello)

Non voglio enfatizzare il tema anche perché sono convinto che la politica dipenda dalla volontà e non dai sistemi di voto. Tuttavia il discorso del voto unanime in sede europea ha una notevole importanza.

Il mondo brucia. E dove non brucia, corre. Davanti a questi sconvolgimenti l’Europa è ferma. La presidente Ursula Von der Leyen dimostra ogni giorno la sua incapacità. Quanto all’Italia, Meloni non ha mai aperto al superamento del diritto di veto: la sua storia è concettualmente antieuropeista, è ovvio che smentisca Tajani. E del resto non è la sola a smentirlo nella maggioranza.

Mario Draghi ha proposto intanto per la Ue un “federalismo pragmatico”. Tutti gli danno ragione e nessuno gli dà ascolto. Le considerazioni di Draghi sono giustissime. Ma purtroppo lui per primo deve rendersi conto che non bastano più gli appelli pubblici. Manca la politica, come ha detto ad agosto al Meeting di Rimini. Draghi ha fatto la differenza quando era seduto nella stanza dei bottoni e continuo a sognare il suo coinvolgimento in un percorso istituzionale: l’unico modo per essere pragmatici, oggi, è sporcarsi le mani in prima persona facendo politica. (“Avvenire” – intervista a Matteo Renzi)

Il problema non dipende soltanto dalle scelte italiane al riguardo, ma appare quanto meno antistorico il ruolo del nostro Paese, che, dopo avere ideato la macchina europea come incisivo e decisivo strumento di collaborazione fra i popoli, tende a frenarla rendendola sostanzialmente ininfluente. Abbiamo una premier in netta controtendenza rispetto al ruolo svolto dal Paese in materia europea: fatto di una enorme gravità!

Esistono delle divergenze a livello istituzionale e finanche a livello governativo: mentre Sergio Mattarella ha ruolo e idee da proporre, Antonio Tajani avrebbe ruolo (è infatti vice-presidente del Consiglio), ma non ha idee al di là di una stucchevole berlusconizzazione della politica e di un vago richiamo all’ondivago Pee di cui peraltro fa parte senza che nessuno se ne accorga.

Mi sembra che Tajani in tutto e per tutto svolga la mesta funzione di opposizione a sua maestà Meloni: lasciamo quindi perdere e parliamo di personaggi politici seri. È il caso di Mario Draghi.

L’ex presidente della Bce è tornato a parlare della condizione in cui versa l’Europa. Le sue parole non si discostano da quelle già pronunciate in occasione della conferenza stampa ‘A un anno dal report Draghi’, tenutasi assieme alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen: “Oggi le prospettive per l’Europa sono le più difficili che ricordo”, ha detto. “Quasi tutti i principi su cui è stata fondata l’Unione sono tesi. Costruiamo la nostra prosperità sull’apertura e sul multilateralismo, ma ora siamo di fronte al protezionismo e all’azione unilaterale. Abbiamo creduto che la diplomazia potesse essere la base della nostra sicurezza, tuttavia ora assistiamo al ritorno del duro potere militare. Ci impegniamo per la leadership nella responsabilità climatica, ma ora vediamo qualche ritiro mentre ci assumiamo costi crescenti. Per Draghi la soluzione è una: “Un nuovo federalismo pragmatico è l’unica strada praticabile. Si tratta di un federalismo basato su questioni specifiche, flessibile e capace di agire al di fuori dei meccanismi decisionali più lenti dell’UE. Sarebbe costruito attraverso coalizioni di persone disposte a farlo intorno a interessi strategici condivisi, riconoscendo che i diversi punti di forza che esistono in Europa non richiedono a tutti i paesi di muoversi allo stesso ritmo”. (agenzia di stampa nazionale “Dire”)

Qualcuno sostiene che il voto a maggioranza o la Ue a diverse velocità siano pericolosi in quanto porterebbero acqua al mulino delle estreme destre antieuropee. L’argomento è però esclusivamente tattico e non può compromettere visioni strategiche: è come quando per evitare scontri su un argomento fondamentale lo si accantona. Ne esce vincente a priori l’antieuropeismo! Ed è quanto sta già ampiamente succedendo anche per responsabilità dell’Italia.

Questa dovrebbe essere una battaglia delle sinistre, ammesso e non concesso che esistano ancora. Il pericolo antidemocratico che corre l’Italia è proprio quello di essere trascinata in un subdolo e strisciante nazionalismo a copertura dei problemi reali della gente ed a censura dei principi fondamentali di una democrazia.

Ritorno a Matteo Renzi che acutamente e pragmaticamente dice nell’ambito della succitata intervista: “Non vedo rischi per la democrazia, ma vedo rischi per il portafogli. Il ceto medio soffre e il crollo delle nascite è impressionante. La Meloni però cerca diversivi. Ecco perché dice che la sinistra è come Hamas e attacca la Schlein quando la segretaria del Pd le risponde a tono. Ma è puro wrestling verbale. La vera domanda che il centrosinistra deve fare agli italiani è: state meglio o peggio di tre anni fa? Gli indicatori economici dicono che i mercati finanziari sono contenti, i mercati rionali no. Utili record per il mondo della finanza, povertà delle famiglie mai così alta”.

Attenzione però a non fare del tutto una questione pur incisiva di bottega: ci sono principi da rispettare su cui impostare la soluzione dei problemi. Dovrebbe stare in questa combinazione la forza della sinistra. Non possiamo fregarcene dei principi, così come non possiamo dimenticare che i principi toccano anche il portafoglio della gente inteso come esigenza di vita dignitosa e serena.

 

 

  

 

 

 

Scherzare con San Francesco per lasciare stare Trump

È per Roberto Vannacci che la gente di Pontida si scalda davvero. L’ex generale dei parà che ha scalato la Lega in pochi mesi (ad aprile la tessera, a maggio la promozione a vicesegretario) non fa fatica a prendersi la scena. E furbescamente inizia a parlare citando i versi del “Giuramento di Pontida” di Giovanni Berchet. Una lezione che l’eurodeputato vorrebbe fosse insegnata nelle scuole. Insieme alla storia della Decima Mas. «Oggi i ragazzi non conoscono quegli eroi, mentre sanno chi è Greta Thunberg che invece non ha combinato nulla», aggiunge più tardi ai cronisti. Ma la sua crociata è soprattutto anti Islam e anti stranieri. Così, riprendendo lo straniero citato da Berchet, chiarisce: «Per noi lo straniero è quello dei porti aperti e che purtroppo molto spesso stupra, ruba e rapina e che vuole imporre la sua cultura alla nostra millenaria». Ma proclama: «Non ci rassegniamo alla società meticcia che vorrebbe qualcuno e all’islamizzazione delle nostre città», trasferendo il proposito a tutta Pontida, quindi chiosa: «Eccola la generazione di Pontida, la generazione dei Padroni a casa nostra». (Ansa – Michela Suglia)

Mi era sfuggito il leghista raduno settembrino di Pontida: l’ho recuperato sfogliando i giornali dei giorni scorsi. Meglio tardi che mai? Meglio mai che tardi! Però bisogna pure prendere atto che, nei fermenti della società civile, esiste anche questo razzismo molto più diffuso di quanto si possa credere. Sì, perché si tratta di razzismo!

La destra italiana si muove culturalmente fra le convergenze parallele di due estremismi, quello nostalgicamente ideologico e sbracatamente neofascista e quello pragmaticamente egoistico e volgarmente discriminatorio: in mezzo ci sta il perbenismo melonian-tajaniano che funge da specchietto per le nostrane allodole patriottiche, cattoliche e benpensanti.

Ma il discorso, come acutamente argomenta Mauro Magatti su “Avvenire” è molto più profondo e rischioso. C’è il triste collegamento fra nazionalismi cristiani: quello cattolico statunitense sostenuto dal movimento Maga e da esponenti come Steve Bannon, che mira a ricostruire la coesione sociale sulla base di una rinnovata identità religiosa, alimentando la logica dello “scontro di civiltà”; quello ortodosso russo impersonificato dal patriarca Kirill, che sostiene il regime putiniano quale difesa contro il relativismo valoriale dell’Occidente.

La saldatura fra questi nazionalismi in fin dei conti è la guerra!  L’invasione putiniana dell’Ucraina e l’invasione trumpiana dell’intero assetto democratico occidentale!

Questo spaventoso vento, ammantato di religiosità fasulla, coinvolge anche il nostro Paese: volere o volare, Giorgia Meloni sta cucinando all’italiana questo piatto che ha come ingredienti blasfemi Dio (persino san Francesco viene strumentalizzato al riguardo), Patria (a cui sacrificare le istituzioni democratiche e i diritti costituzionali in una fuorviante apertissima gara a chi è più patriottico) e Famiglia (vista in contrapposizione con la galassia Lgbt).

C’è in atto, è inutile negarlo, un subdolo tentativo di aggiungere un tassello decisivo al mosaico della destra italiana: la conquista del consenso da parte di un mondo cattolico che si dibatte tra farisaica ingenuità, comodo rifugio nelle sacrestie del potere, adesione ad una menefreghista religione di maniera.

Il melonismo, partito come caricaturale movimento reazionario che sarebbe durato fino…alla prossima tirata di catena, sta diventando parte integrante dell’anelito ad un nuovo (dis)ordine mondiale.

Perché la cultura democratica non riesce a mettere in campo gli anticorpi? Sottovaluta la malattia? Non ne capisce la pericolosità? Preferisce snobbarla? La ritiene, montanellianamente parlando, un’infezione che deve fare il suo corso? Ha smarrito, strada facendo, la forza per combattere, preferendo chiudersi nei fortini salottieri o negli attendismi (im)popolari?

Perché la cultura cattolica di sinistra non riesce a scrollarsi di dosso le paralizzanti incrostazioni del tempo, non ha il coraggio di riscoprire la propria vocazione profetica e non si lascia provocare da quanto, qualche tempo fa, scrisse il laico Massimo Cacciari: “L’umanesimo europeo non è comprensibile senza la mistica dell’amore di Francesco, che si fonda su un grandioso paradosso: quello di gioire di tutto il creato compresa sorella morte”.

Perché i cattolici tuttora impegnati in ambito politico e/o sociale non si fanno vivi? Tanto per non fare nomi: dove sono Pierluigi Castagnetti, Graziano Delrio e Andrea Riccardi? Si accontentano dell’antidoto mattarelliano? Fino a quando?

Sono partito dalle farneticanti fantasie politiche di Roberto Vannacci, sono passato alle pornografiche teorie politiche nazionaliste, ho toccato i fili della corrente meloniana, ho suonato la carica ai cattolici democratici. Cos’altro posso fare? Pregare Dio perché ci faccia capire che non si può stare dalla parte di San Francesco e di Trump, che non si può scherzare coi Santi lasciando stare i fanti.

 

 

Le sinistre tattiche al centro

A Roma è andata in scena l’ennesima puntata del “campo largo”, ma stavolta con una novità: spunta il tentativo di dare una gamba centrista e pragmatica a una coalizione sempre più sbilanciata a sinistra. A fare da promotore, come ricorda la Stampa, è l’assessore capitolino Alessandro Onorato, promotore di Civici d’Italia. In platea sindaci, amministratori e il solito Goffredo Bettini, regista ombra della strategia: “Serve una tenda centrista”, ripete come un mantra da mesi. 

Tra i volti in evidenza c’è la sindaca di Genova Silvia Salis e il napoletano Gaetano Manfredi. Proprio Salis – neanche sei mesi di mandato – viene già accreditata come possibile outsider contro Elly Schlein alle prossime Politiche. Il suo appello suona come un avvertimento: “Basta gare su chi è più di sinistra. Non è una gara. Se lo è, è a chi sta più unito”. Applausi, abbracci e, tra le poltrone, anche Giuseppe Conte: “Dialogo? Sì, ma vediamo con chi”. Il tema della sicurezza – finora tabù a sinistra – domina l’agenda dell’incontro: segnale chiaro a una segreteria vista come troppo sbilanciata su diritti e ideologia. Ma non è finita. Venerdì a Milano nuovo summit, stavolta con i riformisti del Pd: Guerini, Delrio, Gori. Tutti stufi della linea Schlein e del silenzioso Bonaccini, accusato di essere troppo “tenero” con la segretaria. Lui si sfila e lancia la frecciatina: “Vedo discussioni fatte da chi vive nei salotti tv e nelle Ztl”. L’eurodeputata Pina Picierno lancia l’invito su Facebook: “Senza crescita non si protegge il welfare”. Una stoccata nemmeno troppo velata a chi parla solo di salario minimo e lavoro equo.

Nel frattempo, Matteo Renzi osserva. Dopo il buon risultato toscano, rilancia la sua Casa riformista e chiama a raccolta proprio alcuni dei civici presenti a Roma. Tutti a caccia del centro, considerato il vero tesoro nascosto della sinistra. Ma il nodo resta sempre quello: chi sarà il leader capace di unire i pezzi? (liberoquotidiano.it – Roberto Tortora)

Siamo alle solite! A sinistra invece di fare bene la sinistra si punta a fare la caricatura, fuori tempo massimo, della democrazia cristiana. Ho l’impressione che tutte le mattine si svegli qualche esponente vicino al Pd che si ponga il problema di come rompere le scatole a Elly Schlein, non provocandola sul terreno dei contenuti, ma stiracchiandola su quello dei posizionamenti tattici.

Cosa vuol dire che la coalizione del cosiddetto campo largo sia troppo sbilanciata a sinistra: non capisco. Sarà che io questa coalizione faccio fatica a configurarla proprio perché temo che sia troppo di destra.

C’è in molti la paura di essere troppo di sinistra nel timore di perdere il consenso dei cosiddetti moderati di centro, così va a finire che si perdono voti e consensi a sinistra mentre la destra di Giorgia Meloni scippa il terreno sociale catto-moderato. Alla fine la sinistra è becca e bastonata: becca nel senso che è tradita da parte del suo elettorato fondamentale idealmente di sinistra e bastonata dal potenziale elettorato di centro affascinato e conquistato dalla destra.

Non mi interessano questi bradisismi doroteizzanti. Don Andrea Gallo diceva: «Non mi curo di certe sottigliezze dogmatiche perché mi importa solo una cosa: che Dio sia antifascista!». Parafrasandolo oserei dire: «Non mi curo delle sottigliezze tattiche perché mi importa solo una cosa: che la sinistra recuperi idealità e valori per affrontare i veri problemi della gente».

Se non c’è identità di valori e principi, il discorso è un altro e si abbia il coraggio di ammetterlo e di fare scelte chiare e conseguenti non creando confusione in cerca di spazi inesistenti.

Il rettore dell’Università per stranieri di Siena, Tomaso Montanari è intervenuto, durante la trasmissione televisiva otto e mezzo su La7. Il tema del dibattito era l’immobilismo della sinistra dinanzi alla destra e il crescente astensionismo. “O la sinistra riesce a dimostrare che è possibile una società più giusta, non a parole ma governando – osserva Montanari – oppure rischia di essere poco credibile. Il progetto della destra, che purtroppo è un progetto di odio e di imprenditoria della paura, poi è più facile da attuare perché si adegua al mondo così com’è. La sinistra dovrebbe avere l’aspirazione a cambiarlo in meglio e se non lo fa, quando è all’opposizione, è difficile che qualcuno le creda”.

Sono perfettamente d’accordo con il professor Montanari. Le manovrette centriste dei moderati di turno sono un diversivo rispetto al vero problema della sinistra: vale anche per chi intende, cattolici e non, tagliarsi il pisello per fare dispetto a Elly Schlein, mentre Giorgia Meloni, ridendo e scherzando, va a letto con Cisl e Comunione e Liberazione.

Papa Bergoglio, papa Prevost e…papa Scaccaglia

Fra gli esclusi del palazzo occupato: il Giubileo è grido di giustizia e riscatto. Viaggio nel condominio abusivo a Roma che dal 2013 è in mano a 400 “senza casa” e che accoglie l’incontro dei movimenti popolari nato da un’intuizione di papa Francesco. «Uno scandalo? No, il Vangelo chiede di soccorrere gli ultimi». Gli inquilini: il dono dell’Anno Santo? La regolarizzazione dello stabile.

«Buongiorno e benvenuto», saluta appena entrati il ragazzo dai tratti latinoamericani che siede dietro il bancone della portineria. Più che altro un tavolo, sistemato appena sopra la rampa di scale che si apre dentro la recinzione affacciata su una delle strade del quartiere Esquilino. Autosorveglianza agli ingressi del parallelepipedo di mattoni e cemento dove la parola d’ordine è autogestione. Sopra l’enorme cancello rosso, lo striscione che a Roma già dice tutto: “Spin Time”. Lo stabile occupato dal 2013. Il colosso di 21mila metri quadrati che dà un tetto a quasi 400 «brave persone», come si definiscono in uno dei manifesti affissi sulle facciate, che «non rispettano le leggi ingiuste» perché le hanno lasciate “senza dimora”. Il monoblocco che, secondo i punti di vista, è l’icona dell’illegalità tollerata in città o il simbolo del riscatto degli esclusi dove la lotta per il diritto alla casa ha fatto nascere all’interno centri d’aggregazione e sportelli sociali all’insegna del motto “Più umanità e cultura, meno profitto e mercato”.

E adesso “Spin Time” è la sede del quinto Incontro mondiale dei movimenti popolari che si tiene a Roma per il Giubileo. Un raduno che era stato voluto da papa Francesco e che Leone XIV ha abbracciato. «Una sorpresa da parte del nuovo Pontefice? No. L’attenzione agli ultimi è il cuore del Vangelo», spiega don Mattia Ferrari. Cappellano di Mediterranea, la ong salva-migranti, e membro della «comunità di Spin Time», come si descrive, è il coordinatore della piattaforma ecclesiale targata papa Bergoglio che raccoglie i movimenti di tutto il pianeta. E la mente dell’appuntamento nel “grattacielo ribelle” organizzato con gli inquilini del palazzone assieme al Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale. Non è un caso che il cardinale prefetto Michael Czerny si presenti fra i corridoi e gli appartamenti “conquistati”. «I poveri non solo subiscono le angherie, ma lottano contro di esse. C’è bisogno di costruire una società fraterna. E la Chiesa è accanto a chi cerca modelli alternativi di sviluppo economico e di utilizzo delle risorse rispetto a quello dominante che ogni giorno mostra tutti i suoi dannosi effetti», dice Czerny. Prima di lui è la volta del cardinale vicario di Roma, Baldassare Reina, che apre i lavori nei sotterranei del fabbricato. «L’accoglienza e l’amore per il prossimo sembrano usciti dal vocabolario contemporaneo. La comunità ecclesiale intende fare proprio il grido dei poveri», incoraggia. Venerdì 24 ottobre, ultima delle cinque giornate del summit popolare, tocca al presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, varcare i portoni del condominio abusivo. A precederli, nel 2019, era stato l’elemosiniere del Papa, il cardinale Konrad Krajewski, mandato a riattaccare l’energia elettrica che era stata tagliata per morosità. (Dal quotidiano “Avvenire” – Giacomo Gambassi)

Riavvolgiamo il nastro e facciamo un salto indietro, gennaio 2005: andiamo a Parma nella parrocchia di Santa Cristina, accompagnati per mano da don Luciano Scaccaglia, il pretaccio parmense.

Don Scaccaglia era cristianamente esagerato: qualcuno, di questa sua tendenza, faceva oggetto di censura o di critica, mentre in realtà si trattava proprio della sua capacità culturale di affrontare radicalmente le situazioni in perfetto stile evangelico. Ebbene la denuncia del problema, da cui era solito partire, nel caso dell’immigrazione trovò la suo profetica espressione ed il suo apice nell’occupazione della chiesa di S. Cristina da parte di 30 immigrati nel gennaio 2005 (grande freddo!). Questa sacrosanta provocazione fece scandalo, ad essa seguì una forte polemica contro il parroco don Luciano Scaccaglia e la sua comunità aperta e accogliente, rei di averli ospitati col Vangelo alla mano. Anche quella volta c’era stato il preludio dello sgombero, ad opera dei vigili urbani, dai ruderi di una cartiera abbandonata, inutilizzata, lasciata al degrado, ma considerata più preziosa delle vite di schiavi senza valore. A Parma nel 2005 i perbenisti bigottoni, i leccapreti col conto in banca e gli appartamenti sfitti, i clericali ad oltranza sempre dalla parte del manico curialesco si scatenarono ed aprirono un fronte di reazionaria polemica, andando persino molto al di là della tollerante reazione dell’allora vescovo Cesare Bonicelli. Questi infatti andava di prima mattina e senza farsi notare nel “tempio della vergogna” e offriva il suo contributo in danaro oltre all’incoraggiamento a don Scaccaglia. Il coraggio, anche quel poco (?) che dimostrava di avere Bonicelli, se uno non ce l’ha, non se lo può dare. Gli amministratori comunali preferirono il silenzio. Parma non si smentisce mai (certo nel 1922 i parmigiani avevano ben altra sensibilità e coraggio): la reazione dominante fu quella dell’indifferenza.

Per la comunità di Santa Cristina l’occupazione del 2005 fu la scintilla per l’avvio di una comunità di accoglienza: qui sta la saldatura della carità tra denuncia dell’ingiustizia e impegno solidale. La casa di accoglienza però da allora visse in mezzo a mille difficoltà e soprattutto nel silenzio imbarazzato dei pubblici poteri e financo della galassia civile e religiosa impegnata nel sociale. Siamo alle solite, ai sussiegosi scetticismi verso le iniziative di accoglienza, portate avanti, senza beneficiare di alcun aiuto curiale o municipale e con enormi e provocatori sacrifici, dal solito rompiscatole di un parroco scomodo. Questa comunità di accoglienza dava fastidio, sicuramente dava ancora più fastidio don Scaccaglia.  Era ospitata nei locali della parrocchia di S. Cristina, andava oltre il mero rifugio notturno per offrire spazi di socializzazione e integrazione.

 

Altra tappa in questo provocatorio excursus ecclesiale retrospettivo. Questa volta siamo a Roma nientepopodimeno che nella Basilica di Santa Maria Maggiore.

 

Il 07 aprile 2015 i movimenti per la casa occuparono un palazzo a Torre Spaccata, periferia sud-est dove andarono a vivere 50 famiglie, che, il 03 giugno, la polizia fece sgomberare con la solita solerzia. Trovarono provvisorio rifugio, dormirono e vissero per alcuni giorni nella Basilica di Santa Maria Maggiore (che è territorio vaticano). Stupì non tanto il fatto in sé, ma la reazione molto tollerante da parte delle autorità ecclesiastiche con il vicariato addirittura impegnato a ricercare soluzioni al problema riguardante immigrati e non. In filigrana si poteva leggere l’ormai ennesimo segno di un cambiamento di clima nella Chiesa dovuto all’impostazione del pontificato di Francesco. Seppure di traverso molti sono costretti ad inghiottire rospi: in altri momenti li avrebbero clamorosamente sputati.

 

2005, 2015, 2025: tappe decennali di un percorso accidentato. I tempi della Chiesa sono troppo lunghi. A Gesù sono bastati tre anni di ministero pubblico per sconvolgere il mondo. D’altra parte le profezie hanno bisogno di tempo per essere assorbite nel tessuto ecclesiale, ma non prendiamocela troppo comoda, perché siamo chiamati da subito a rispondere della passione per la giustizia.

Torniamo precipitosamente ai giorni nostri. Morale della favola: la fece simpaticamente lo stesso don Luciano Scaccaglia con soddisfazione condita da una punta di amara ironia. Senza alcuna cattiveria e senza inutili rivalse, davanti alle golose novità introdotte da papa Francesco si lasciò andare dicendo: «Il Papa? Mi copia!».

Cosa direbbe oggi? Forse che la copiatura, fortunatamente e nonostante tutto, continua e si allarga. Il ritardo di duecento anni, denunciato per la Chiesa dal Cardinal Martini, si sta accorciando? Stiamo recuperando? Attenti però: passato il Giubileo della speranza gabbato il riscatto degli esclusi?

 

 

 

 

 

 

Diplomazia schizofrenica

Il tentativo di dialogo si era già incrinato quando Trump, la scorsa settimana, aveva usato la richiesta ucraina di missili a lungo raggio Tomahawk per esercitare pressione sul Cremlino, sostenendo di voler prendere in considerazione la fornitura. Ma una telefonata di Putin ha fatto rapidamente cambiare idea al tycoon, tanto che, durante il successivo incontro con il presidente ucraino, Trump avrebbe detto a Volodymyr Zelensky di dimenticare i Tomahawk e di rinunciare invece del tutto alla regione orientale del Donbass, cedendo alle richieste russe. «Sì, è vero», ha detto un funzionario americano, secondo cui Trump avrebbe esortato Zelensky a ritirare le truppe dai territori ancora sotto controllo ucraino. La fonte ha aggiunto che i colloqui del leader di Kiev con Trump sono stati «tesi e non facili», e che gli sforzi diplomatici per mettere fine alla guerra sembrano «trascinarsi» e «girare a vuoto». Il presidente ucraino invece ha descritto il suo incontro alla Casa Bianca come «un successo» che ha prodotto progressi, portando all’acquisizione di nuovi sistemi di difesa aerea, in contrasto con le notizie secondo cui Trump lo avrebbe insultato.

Zelensky ieri ha ribadito la sua disponibilità a fermare il conflitto lungo l’attuale linea del fronte e ha rilanciato l’appello per la fornitura di Tomahawk, che ritiene indispensabili per costringere Mosca al negoziato. «Non appena la questione dei missili a lungo raggio è diventata un po’ più complessa per l’Ucraina, la Russia ha perso interesse per la diplomazia — ha fatto notare il presidente ucraino riferendosi al rifiuto di Trump —. È un segnale che la questione è una chiave insostituibile per la pace». Per ora Zelensky si accontenterà di un contratto per l’acquisto di 25 sistemi Patriot. Ma Mosca resta ferma sulle sue posizioni, negando persino che un vertice fosse mai stato allo studio. «Non è possibile sospendere qualcosa che non è mai stato concordato», ha concluso ieri il vice ministro degli Esteri Sergei Ryabkov. (“Avvenire” – Elena Molinari, Giovanni Maria Del Re – New York e Bruxelles)

Sono in campo ben tre diversi e inconciliabili approcci anti-diplomatici: quello presuntuoso del fatto compiuto trumpiano, quello classicheggiante del tener duro putiniano e quello del tergicristallo zelenskyano. Ne sta uscendo un quadro schizofrenico, che non porta da nessuna parte, o meglio, che porta alla guerra infinita inframmezzata da finte tregue.

Zelensky si illude di farsi forza subendo le umiliazioni tattiche di Trump senza dignità: Trump si accontenta di fare lo specchietto per le sue allodole elettorali interne ed internazionali; Putin gioca il ruolo del politico riottoso che ama farsi corteggiare dicendo dei sì che sono no e lasciando intendere che i no possono diventare sì.

Non mi si dica che la diplomazia è questa: è la caricatura della diplomazia! Bisogna quindi stare attenti, quando si auspica che al fragore delle armi si sostituisca la calma del dialogo e della diplomazia. Non vorrei infatti che dalla padella della violenza delle armi si cascasse nella brace della falsità delle parole.

E allora? Sarebbe l’ora che volge il disio ai navicanti europei e ‘ntenerisce il core … ed ecco infatti la risposta degli europei.

Un piano in dodici punti per porre fine alla guerra in Ucraina, lungo la linea attuale del fronte. Gli europei, pochi giorni dopo l’annuncio del presidente Usa Donald Trump di un possibile incontro con Vladimir Putin a Budapest (ormai sempre più in dubbio) si ricompattano per evitare il peggio. A rivelarlo è l’agenzia Bloomberg. L’idea è di creare un board (una sorta di direttorio) presieduto da Trump per vegliare sull’attuazione del piano. Una volta che la Russia avrà accettato la tregua, ci sarà il ritorno di tutti i bambini ucraini deportati in Russia e scambi di prigionieri. L’Ucraina riceverà garanzie di sicurezza, fondi per riparare i danni di guerra e un percorso rapido di adesione all’Ue. Contemporaneamente, le sanzioni contro Mosca sarebbero progressivamente revocate, ma i circa 300 miliardi di dollari complessivi di riserve della Banca centrale russa in Occidente sarebbero restituiti solo dopo che Mosca avrà accettato di contribuire alla ricostruzione dell’Ucraina. Le sanzioni tornerebbero a scattare se la Russia attaccherà nuovamente l’Ucraina. Non basta, il piano prevede che Mosca e Kiev avviino i negoziati sulla gestione dei territori occupati, senza però alcun riconoscimento formale di terre ucraine occupate da Mosca. (ancora “Avvenire” – Elena Molinari, Giovanni Maria Del Re – New York e Bruxelles).

Si oscilla tra la ruota di scorta di Trump e l’imitazione di papa Leone: una sorta di ircocervo diplomatico. Se gli ucraini aspettano che li salvi l’Europa… Dalle braccia infide di Trump a quelle insulse della Ue. Intanto la Russia avanza imperterrita. Si ipotizza che Mosca possa accettare di contribuire alla ricostruzione dell’Ucraina. Siamo al paradosso!

«Il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è l’ipocrisia» (Papa Francesco).

 

 

 

 

 

 

La “sinnergia” vespiana

Si è trasformato in un vero e proprio boomerang l’attacco social di Bruno Vespa a Jannik Sinner. Il giornalista della Rai, riscopertosi esperto di tennis, nella foga di criticare l’altoatesino ha incredibilmente sbagliato il cognome del numero 1 al mondo della racchetta, Carlos Alcaraz, da lui chiamato ‘Alvarez’.

E non è tutto. Qualcun altro ha anche fatto notare a Vespa che Montecarlo è una località in provincia di Lucca mentre quando si parla della capitale del Principato di Monaco il nome corretto è Monte Carlo.

“Perché un italiano dovrebbe tifare per lui – si è domandato l’abruzzese -? Parla tedesco (giusto, è la sua lingua madre), risiede a Montecarlo, si rifiuta di giocare per la nazionale. Onore ad Alvarez che gioca la coppa Davis con la sua Spagna”.

Gli errori di Vespa (soprattutto quello legato al cognome del fuoriclasse iberico) hanno dato la stura a una serie di critiche, che si sono aggiunte a quelle per il concetto che ha voluto esprimere dopo il rifiuto dell’altoatesino: come noto il numero 2 al mondo ha deciso di non partecipare alla Final-8 di Coppa Davis che si disputerà a Bologna a novembre. (Sportal.it – Storia di Ernesto Villa)

Nei giorni scorsi mi ha colpito la notizia del premio riservato a Jannik Sinner, noto tennista, quale vincita in un importante torneo tenuto in Arabia Saudita: 7,5 milioni di dollari. Scambiando le impressioni con una persona amica ho azzardato un sincero commento: “Io non lo invidio, ma lo compiango…”. Non disprezzo infatti la ricchezza, ma ne condanno l’egoistico accumulo e soprattutto il modo assurdo di accaparrarsela. Spero che lo sportivo in questione ne faccia buon uso, anche se sarà molto difficile, per lui come per tutti, uscire dalla logica del dio-danaro.

Non ho potuto poi evitare di mettere in connessione questa vincita da capogiro con il forfait dello stesso campione di tennis rispetto alla prossima disputa della Coppa Davis. Non ho trovato altra spiegazione se non la scelta di privilegiare carriera e denaro rispetto al valore sportivo delle competizioni.

Conclusione: Sinner, da professionista del tennis, fa i suoi interessi e li colloca prima delle scelte di carattere agonistico e sportivo, finanche quelle in rappresentanza dell’Italia.

Non faccio della retorica perché lo sport ha perduto ogni e qualsiasi parvenza di significato olimpico: l’importante non è partecipare ma guadagnare.  Ciononostante la combinazione fra le notizie di cui sopra mi ha irritato. Pazienza! Ci sono problemi molto più gravi anche se la perdita dei valori sportivi non aiuta a risolverli.

Che però la predica venga dal pulpito vespiano è decisamente inaccettabile e ridicolo: il personaggio più emblematico dell’opportunismo giornalistico che fa le pulci al comportamento opportunistico di uno sportivo.  La gaffe principale non è certo quella di confondere Monte Carlo con Montecarlo e/o di sbagliare il nome di Alcaraz, ma quella di ergersi a moralista della racchetta, lui pennivendolo di primissima specie.

Evidentemente tra opportunisti non ci si intende, o meglio, tra di essi è aperta una penosa gara a chi la fa più grossa. Non mi sento di considerare quella di Sinner una pagliuzza, ma sarebbe comunque opportuno che Bruno Vespa togliesse dall’occhio la propria trave prima di dedicarsi alle travi altrui.

 

 

 

 

Chi dice donna non dice pace

Sanae Takaichi è stata eletta nuova premier del Giappone, diventando – dopo 103 colleghi maschi – la prima donna a ricoprire questo ruolo, dopo la nomina a inizio mese alla guida del Partito Liberal-democratico (Ldp).

Conservatrice convinta, 64 anni, nota per le sue posizioni dure in materia di sicurezza nazionale, difesa e immigrazione, animata da una sorta di “idolatria” per Margaret Thatcher – non a caso ha più volte dichiarato di voler essere la “Lady di Ferro” del Giappone – dopo il trionfo di inizio mese alle primarie del Partito liberaldemocratico, convocate a seguito del passo indietro annunciato a settembre da Shigeru Ishiba, primo ministro per 386 giorni.

Il voto di oggi ha inaugurato una sessione parlamentare straordinaria di 58 giorni che si concluderà il 17 dicembre. Ex ministra degli Affari interni e volto noto della destra giapponese, sul fronte interno, la nuova premier 64enne dovrà affrontare l’arduo compito di governare senza una maggioranza stabile, cercando sponde tra le forze d’opposizione per far avanzare la legislazione. Il Jip, pur parte della coalizione, non avrà ruoli nel nuovo gabinetto e svolgerà funzioni consultive. In politica estera e difesa, Takaichi ha da subito deciso di imprimere un’accelerazione.

I media locali anticipano la revisione di tre documenti strategici chiave per incrementare ulteriormente le spese militari e rafforzare l’asse Tokyo-Washington, segnalando una rinnovata disponibilità ad allinearsi alle richieste Usa su difesa e sicurezza. In linea con l’impegno assunto nel 2022 di portare il bilancio della difesa al 2% del Pil entro il 2027, Takaichi ha dichiarato che il Giappone dovrà “superare quella soglia prima o poi” per rispondere alle crescenti minacce regionali. Aumenti di spesa che saranno finanziati da nuove entrate fiscali, imposte su imprese, redditi e tabacco.

Il primo impegno internazionale della nuova leader dovrebbe essere la partecipazione a un vertice dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (Asean) in Malesia. Subito dopo, Takaichi ospiterà il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, in visita ufficiale in Giappone. Entrambi gli appuntamenti sono previsti per la fine del mese. (avvenire.it)

E io che speravo in una nuova era politica di progresso e di pace guidata dalle donne finalmente al potere… Quante volte sono stato costretto ad ammettere che le donne non hanno ottenuto la parità di diritti, ma la parità di difetti.

Papa Francesco, non certo un fulmine di femminismo, il 1° gennaio 2024 aveva incoraggiato tutti a “guardare alle donne e alle madri per trovare la via della pace”. In questo momento storico purtroppo non si vede all’orizzonte nessuna donna che possa ricoprire un ruolo importante in favore della pace. Occorre però sperare che ci siano donne impegnate in tal senso al di fuori delle luci false della ribalta: anche perché la donna dà la vita e non la dovrebbe togliere.

Si pensi storicamente all’azione di una donna come Santa Caterina da Siena, al rivoluzionario messaggio di Madre Teresa di Calcutta, alla testimonianza di Chiara Lubich (De Gasperi, dopo averla ascoltata, le disse: «Stamattina mi ero svegliato disperato, lei mi ha ridato la speranza!!!»).

Lasciando perdere per carità di patria e di genere “la grande statista” Giorgia Meloni, persino in materia di premio Nobel per la pace giungono più ombre che luci dalla venezuelana Machado.

In questo periodo di oscurità, di disorientamento, di mistificazione dobbiamo attaccarci più che mai agli esempi e alle parole delle grandi donne a prescindere da quelle impegnate in politica ai massimi livelli.

Facciamo riferimento a Esther Hillesum, detta Etty: è stata una scrittrice olandese ebrea vittima dell’Olocausto, il cui pensiero è un inno alla vita e un invito alla lotta con gioia, come quella che bisogna combattere contro gli abusi, contro la violenza ad ogni livello, fisico e morale, perché è in gioco sempre e solo un principio irrinunciabile, la libertà.

Pensiamo a Edith Bruck, un’altra di queste grandi donne: smentisce autorevolmente e coraggiosamente che la questione politica femminile sia automaticamente riconducibile ad un fatto di genere e aggiunge fuori dai denti come “una donna premier non sia un bene in sé. Anzi: spesso, nei posti di vertice, le donne diventano peggiori degli uomini, tendono a volerli superare e fanno peggio di loro, sono ancora più spietate».

Molti anni fa scrissi un provocatorio omaggio alle donne, ricordando emblematicamente mia nonna materna, una vedova auto-emancipata, madre Teresa di Calcutta, la soluzione vivente al problema del sesso degli angeli, le suore di clausura, le migliori cosmetologhe possibili e immaginabili. Quanti rimbrotti ebbi da amiche e colleghe! Sono ancora sostanzialmente di quel parere a costo di fare la figura del retrogrado; continuo imperterrito a correre il rischio della retorica.

Tornando alla politica, le delusioni al femminile non mancano: ultima, per chi nonostante tutto si ostina a crederci, la giapponese Sanae Takaichi da cui sono spietatamente partito. Ce n’è per tutti i gusti e in tutto il mondo. In Italia abbiamo il becco di ferro di togliere persino quel po’ di classe e dolcezza presente negli stereotipi delle donne al potere. Una sorta di femminismo (o antifemminismo?) all’italiana.

 

 

 

 

 

Il gatto Trump, la volpe Putin e la pinocchietta Meloni

Difficile stabilire se quella che si profila fra Stati Uniti, Russia e Cina sia una Yalta a beneficio dei più forti. In certa misura lo è, come è innegabile che nel castello di Buda dove presumibilmente si terrà il vertice convergono tre differenti tipi di populismi, quello roboante di Trump, quello nazionalista di Putin e quello sovranista del premier che offre la dimora del vertice ai grandi della Terra, Viktor Orbán, ospitando un leader colpito da un mandato di arresto della Corte penale internazionale che l’Ungheria non ha alcuna intenzione di rispettare.

L’Europa, le democrazie liberali, i vassalli come Starmer, i sognatori di grandeur perdute come Macron, restano al palo. Davanti c’è un’ipotesi di tregua. Poi di pace. Trump la chiede con energia, per tornaconto personale e per legittima vanità. La pace, alla fine, conviene più della guerra. Più dei miliardi spesi in armamenti. Tutti lo sanno, a cominciare dai grandi leader del mondo. Ma occorre che qualcuno la reclami con forza. Perfino The Donald, il tycoon di Mar-a-Lago, è adatto al compito. (“Avvenire” – Giorgio Ferrari)

L’espressione “vaso di coccio tra vasi di ferro” indica una persona fragile e indifesa circondata da persone prepotenti e forti, che rischia di essere sopraffatta. L’origine del modo di dire è una favola di Esopo, in cui un vaso di terracotta teme di scontrarsi con i vasi di ferro che viaggiano con lui. Alessandro Manzoni riprende questa similitudine nel suo romanzo, I Promessi Sposi, per descrivere il personaggio di Don Abbondio.

È abbastanza evidente che la parte del vaso di coccio la stia facendo Zelensky, ridotto a pietire missili nei confronti di un Trump che glieli fa “sgolosare” assai per poi negarglieli sul più bello. C’è un modo di essere dignitosamente poveri e deboli, purtroppo il presidente ucraino non è riuscito, in tutta la lunga e drammatica vicenda, ad essere tale, finendo col rimanere in balia dell’Occidente che lo ha appoggiato e lo appoggia fino a mezzogiorno.

Non è giusto, ma la partita se la stanno giocando altri soggetti di lui ben più forti. Comunque finisca, finirà male. Il mondo in mano ai populisti con le democrazie liberali ripiegate su loro stesse.

Nella politica internazionale, europea e italiana, per il momento non si vede niente all’orizzonte a livello di nuova progettualità. Solo a destra c’è un disegno pericolosissimo: Stati Uniti, Russia, Germania, Francia, Italia, Ungheria. Stiamo aspettando la sinistra in crisi di identità: democratici americani, pd in Italia, casino francese, spagnoli ininfluenti come gli inglesi…

In questa situazione di stallo in cui è impossibile dormire sonni tranquilli, bisogna ripiegare sui sogni: il lungo sogno della resistenza attiva e costruttiva e quello dell’attesa passiva.

Da una parte il ritorno al multilateralismo basato sul dialogo; dall’altra l’accettazione degli accordi affaristici calati dall’alto. Sembra che il mondo abbia scelto la pace sepolcrale proposta dai potenti, ma anche questa non è così facile da perseguire e mantenere. La tregua medio-orientale patrocinata da Trump sta già scricchiolando; quella russo-ucraina è tuttora di là da venire, impantanata com’è nello scontro fra le furberie dei due grandi delinquenti.

L’Europa non è sufficientemente delinquenziale per entrare nel gioco sporco e non è sufficientemente democratica per tentare la problematica scalata ad uno straccio di pace vera. L’Italia, con la sua petulante premier Giorgia Meloni, fa il pesce in barile.

In un delirante messaggio inviato alla Niaf, l’organizzazione di italoamericani con sede negli Stati Uniti, in occasione del cinquantesimo anniversario, la nostra presidente del Consiglio, ha difeso a spada tratta il Columbus day dalle polemiche che negli ultimi anni hanno segnato la giornata di Cristoforo Colombo, con alcune organizzazioni, attivisti e intellettuali che hanno evidenziato l’altro volto della conquista: lo sterminio delle popolazioni indigene delle Americhe da parte degli europei e il colonialismo che ne scaturì. “Il Columbus Day è qui per restare”, ha assicurato la premier.

Ma il più bello è venuto di conseguenza. In risposta il presidente Donald Trump ha pubblicato su Truth un video di 21 secondi di Giorgia Meloni in cui la premier scandisce il suo più celebre slogan: “Sono una donna, sono una madre, sono cristiana”. Trump ha anche ricondiviso un post di LynneP in cui la premier viene lodata. “Giorgia Meloni sfida l’Unione e cerca di ottenere un accordo commerciale diretto con Trump. Ben fatto Meloni. È una mossa brillante”. (today.it)

Non c’è che dire, bel colpo Giorgia! Fuori dall’Unione europea per flirtare con Trump e viceversa. Tra i due sogni di cui sopra è rimasto il triste risveglio indotto dall’alzabandiera meloniano.