La narrazione diegetica e le dissidenze incarnate

Ero un bambino, in quell’età in cui si sommergono i genitori con strani e imbarazzanti quesiti. «Papà, cos’è la filosofia?» chiesi un giorno a mio padre, senza girarci intorno e senza rendermi conto dell’enormità culturale del quesito che stavo ponendo. Forse sbagliai addirittura e la chiamai “fisolofia”.

Lui avrebbe potuto tranquillamente cavarsela, rinviandomi a data da destinarsi o indirizzandomi al mio maestro. Invece provò a rispondermi aiutandosi paradossalmente con il dialetto: «Vèddot cla matita chi? Ela ‘na matita o sèmmia nuätor ca la vedda acsì? Còssta l’é la filozofiä…». In quel momento mi bastò. Progredendo negli studi, anche per merito suo che me lo consentì economicamente e socialmente, ho scoperto progressivamente che mio padre aveva usato l’approccio filosofico risalente al “mito della caverna” di Platone ed alla distinzione tra “fenomeno e noumeno” proposta dal filosofo tedesco Immanuel Kant: c’è differenza  tra il come una cosa ci appare e come realmente è in sé stessa; nel nostro modo di percepire non siamo in grado di raggiungere la realtà in sé stessa, ma sempre e solo di coglierla nel suo apparire. Quella che noi percepiamo non è la realtà vera e propria, ma solo un suo riflesso, costruito partendo dal nostro sistema di conoscenze.

Non ho mai capito e mai capirò se mio padre avesse leggiucchiato Platone e/o Kant o qualche commento sul loro pensiero filosofico. Propendo per una libera e paradossale intuizione tutta sua. Intelligenza ed erudizione non vanno di pari passo. Cultura? Non vuol dire sapere tante cose, ma usare ciò che si sa per porsi al meglio di fronte alla realtà. In questo senso mio padre era un uomo di cultura. Sono sicuro che mi frenerebbe con la sua sincera modestia: «Veh, lasa lì äd dìr dil stupidädi…».

Ho voluto partire da questo ricordo per alludere al problema della narrazione della situazione internazionale con cui facciamo i conti e che è molto parziale e, per certi versi, fuorviante. Tutta la storia è sempre stata narrata attraverso le gesta dei personaggi: un limite che attualmente ci sta affliggendo ancor più, considerato il fatto che oltre tutto mancano i grandi personaggi e quindi siamo costretti a confrontarci con una narrazione estremamente superficiale, semplicistica, opportunistica, incompleta e faziosa.

Vengo al dunque: non sembra forse che tutti gli israeliani siano d’accordo con la delinquenziale politica di Netanyahu, che tutti i russi siano culturalmente implicati nel regime putiniano, che tutti gli americani pendano dalle labbra di Trump, che tutti i cinesi siano coinvolti nel vigente, imperante e paradossale comunismo capitalista o capitalismo comunista e persino che tutti gli ucraini siano allineati e scoperti dietro Zelensky?

Il minimo comune denominatore di questa narrazione è la propensione alla guerra: guerra zarista di aggressione nel caso della Russia; guerra di vendetta nel caso di Israele; guerra protezionista nel caso di Trump; guerra imperialista nel caso della Cina; guerra resistenziale nel caso dell’Ucraina.

Probabilmente non è proprio così. Faccio di seguito alcuni esempi prendendo le mosse da alcune notizie che vengono riportate con scarsa evidenza, soltanto da alcuni organi di stampa e che non incidono sull’opinione pubblica rigidamente bloccata sulla narrazione corrente.

Gli ultimi sono stati duecento ex ufficiali di polizia. Almeno fino ad ora, perché la mobilitazione cresce di ora in ora. Uno dopo l’altro, migliaia di riservisti delle forze di sicurezza israeliane – in maggioranza pensionati ma anche in servizio attivo – si stanno unendo al grido della società per la fine della guerra a Gaza. O, meglio, come recita la formula scritta e pubblicata in ebraico e in inglese, per un accordo che riporti a casa i 59 ostaggi ancora nelle mani di Hamas «anche se ciò significa mettere fine al conflitto». (“Avvenire” – Lucia Capuzzi)

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Ieri decine di gruppi sindacali, ambientalisti e pro-immigrati (insieme a sigle abortiste) ci hanno provato di nuovo, nella speranza che gli americani che non hanno reagito agli attacchi alla magistratura o alla sospensione degli aiuti umanitari internazionali fossero spinti a sfilare dal crollo della Borsa e dalla paura di una recessione. Forse, si sono detti, il torpore nel quale il pubblico statunitense sta assistendo alla concentrazione di potere nelle mani del presidente sarebbe stato scosso dalle conseguenze delle guerre commerciali dichiarate da Trump. In realtà i risultati non sono stati impressionanti. I cortei sono stati tanti, coinvolgendo più di 1.000 città e quasi mezzo milione di persone, ma la maggior parte non ha superato i 100 partecipanti. (“Avvenire” – Elena Molinari)

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In America, come in Italia, l’unica opposizione a Trump è la Magistratura. Il giudice federale James Boasberg ha riconosciuto la sussistenza degli elementi per ritenere l’Amministrazione Trump colpevole di oltraggio alla corte per aver deliberatamente disobbedito al suo ordine di sospendere immediatamente le espulsioni degli immigrati illegali ai sensi dell’Alien Enemies Act, la legge di fine ‘700 raramente utilizzata.  L’ordinanza del giudice Boasberg offre all’Amministrazione un’ultima opportunità di conformarsi, ma afferma che altrimenti adotterà misure per identificare le persone specifiche che hanno violato la sua sentenza del 15 marzo, successivamente revocata dalla Corte Suprema, per deferirle all’autorità giudiziaria. (Dagospia – LaPresse)

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“Vogliamo che lo sentano tutti: questa non è la nostra guerra. Questo non è il nostro governo. Vogliamo vedere l’Ucraina recuperare i propri territori e i prigionieri politici uscire dal carcere”. Il dissidente russo Vladimir Kara-Murza è accerchiato dalla folla. Stringe le mani alla gente, parla con i giornalisti, autografa libri. Fino a qualche mese fa era rinchiuso in un carcere di massima sicurezza dove stava scontando una pena di 25 anni con l’accusa di alto tradimento per aver contestato l’invasione russa dell’Ucraina. Oggi è libero, grazie al maxi scambio di prigionieri avvenuto nell’agosto scorso tra Russia e Occidente. Ed è tornato a guidare i cortei di protesta, come faceva a Mosca in un passato che sembra lontanissimo.

Oggi si sono riunite migliaia di persone per dire di no alla guerra, no alla dittatura di Putin, no ai crimini di guerra che questo dittatore sta compiendo in Ucraina a nome del nostro Paese. La propaganda russa vuol far credere che tutti sostengono questa aggressione, e che tutti i cittadini russi sono a favore di questo regime. Cercano di dimostrarlo con i risultati di quelle che loro chiamano elezioni, e mostrando sondaggi che non hanno alcun valore sotto una dittatura. Sa, ci si può inventare qualsiasi risultato elettorale, si possono inventare gli esiti dei sondaggi, ma non ci si può inventare quello che abbiamo visto oggi: migliaia e migliaia di persone scese in strada qui a Berlino per dire no alla guerra, no al regime di Putin. (LIFEGATE/DAILY – da Berlino – Lucia Bellinello)

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Negli ultimi giorni, il dibattito sulla natura democratica dell’Ucraina si è riacceso dopo le polemiche internazionali scatenate da Trump che ha definito Zelensky un “dittatore”. Vi è una questione su cui riflettere.

Infatti il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, pur essendo stato eletto democraticamente, guida oggi una nazione in cui sono stati messi fuori legge i partiti di opposizione. Per “legami con la Russia”. E in più ha fatto scalpore l’arresto di esponenti politici, come il deputato di maggioranza Oleksandr Dubinsky, anch’egli eletto democraticamente, ma detenuto con l’accusa di “disinformazione”.

Eppure il portavoce della Commissione Europea, Stefan de Keersmaecker, ha recentemente dichiarato che l’Ucraina è una “democrazia”, mentre la Russia di Putin non lo è. La sua affermazione è stata una risposta alle parole dell’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.

L’Unione Europea non ha però preso posizione sulla messa al bando dei partiti di opposizione in Ucraina, un atto che in altri contesti sarebbe stato oggetto di condanna internazionale.

La dichiarazione della Commissione Europea non affronta in buona sostanza la questione delle restrizioni alla libertà politica all’interno dell’Ucraina in guerra.

É giusto che in guerra l’opposizione venga messa fuorilegge?

La domanda cruciale oggi in Ucraina pertanto è: può un Paese essere definito pienamente “democratico” se in tempo di guerra reprime l’opposizione parlamentare e la mette fuorilegge? (PeaceLink – Alessandro Marescotti)

 

Torno a mio padre, da cui sono partito e ai pulpiti da cui mi impartiva le sue lezioni di vita: i più improbabili, i più strani ma forse i più credibili. “Da che pulpito viene la predica” si è soliti dire per screditare l’imbonitore di turno e Dio sa quanti imbonitori esistano anche oggi nella cosiddetta era mediatica. Nel mio caso, o meglio nel caso di mio padre, uno dei pulpiti era il teatro lirico.

Era un loggionista sui generis e con lui ho scandagliato il loggione di Parma, facendomi un’idea positiva, ma assai critica, di questo “fenomeno socio-culturale” parmense.

Mio padre rifiutava le ostentazioni, le presunzioni, le esternazioni volgari: andava al sodo. Molto spesso mi invitava a non farmi impressionare dai giudizi gridati, ad ascoltare e giudicare con le mie orecchie, a non cadere nella trappola del conformismo o dell’anticonformismo, ad avere un giusto senso di umiltà nel giudicare chi fa musica e chi canta, partendo dal convincimento che non si tratta degli ultimi arrivati.

Gli piaceva il clima del loggione e francamente piaceva anche a me: un ambiente attento alla sostanza dello spettacolo, molto reattivo e sanguigno. Ma non per questo ne condivideva le intemperanze gratuite e le sparate esibizionistiche.

Ebbene il discorso valeva e vale a trecentosessanta gradi. Allarghiamo il teatro da luogo di pubblico spettacolo a sede della vita: in fin dei conti, per dirla con Luigi Pirandello, non c’è poi una grande differenza.

Non fermiamoci alle apparenze, anche quelle autorevolmente e insistentemente fornite nel contesto di una narrazione sostanzialmente anti-democratica in quanto chiusa alle voci del dissenso e dell’opposizione. Proviamo a scalfire la scorza sotto la quale la realtà è almeno in parte sicuramente diversa da quella che si vuol far credere. È anche un modo per uscire dal paralizzante scetticismo che ci opprime e aprirci a qualche ossigenante speranza.

 

 

 

 

 

Le bancarotte dell’umanità

Circa 3.500 bambine, bambini e adolescenti sono morti o scomparsi nel tentativo di attraversare la rotta migratoria del Mediterraneo centrale verso l’Italia negli ultimi 10 anni, secondo le stime più recenti dell’Unicef. È come se, per un decennio, ogni giorno un bambino avesse perso la vita. Circa sette bambini su dieci affrontano questo viaggio senza un genitore o un tutore legale, il che significa che la maggior parte delle persone minorenni morte o scomparse lungo questa rotta stava viaggiando da sola. I loro viaggi possono essere particolarmente drammatici: secondo i dati raccolti da interviste, oltre la metà delle/dei bambine/i, adolescenti e giovani ha riferito di aver subito violenza fisica, e un terzo di essere stato trattenuto contro la propria volontà.

Molti dei bambini che cercano di attraversare il Mediterraneo centrale, evidenzia l’Unicef, fuggono da guerre, conflitti, violenze e povertà, cause che continuano ad alimentare la migrazione forzata e a spingerli a cercare sicurezza e opportunità altrove. «Dieci anni fa, un naufragio al largo delle coste italiane causò la morte di oltre 1.000 persone e sconvolse l’intera regione – ha dichiarato Regina De Dominicis, direttrice regionale dell’Unicef per l’Europa e l’Asia centrale e coordinatrice speciale per la risposta a rifugiati e migranti in Europa -. I Governi devono proteggere i diritti e il superiore interesse di bambine e bambini, in linea con i loro obblighi previsti dalle leggi nazionali e internazionali». Negli ultimi 10 anni, ricorda l’Unicef, almeno 20.803 persone sono morte o scomparse nel Mediterraneo centrale. Molti naufragi lungo questa pericolosa rotta migratoria dal Nord Africa non lasciano sopravvissuti o non vengono registrati, rendendo il numero reale di morti o dispersi praticamente impossibile da verificare, e probabilmente molto più alto. (da “Avvenire”)

Non so cosa potremo rispondere al Padre Eterno quando ci chiamerà a rendere conto di questi mastodontici peccati di omissione (quelli che personalmente mi preoccupano di più).

Ma restiamo coi piedi per terra o meglio in mare, dove andiamo a nuotare, a divertirci, a curare la nostra salute. Possibile che non si riesca a fare niente per fermare questa carneficina? Non so fin dove si tratti di rassegnazione o di menefreghismo, forse due facce della stessa medaglia.

«Cosa succede al mondo di oggi che, quando avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarla, ma, quando avviene la bancarotta dell’umanità del dramma dei migranti, dei rifugiati e degli sfollati, non c’è quasi una millesima parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto? E così il Mediterraneo è diventato un cimitero e non solo il Mediterraneo…» ((Papa Francesco, discorso del 05 novembre 2016 ai Movimenti Popolari).

Viviamo in un clima di guerra: si è aggiunta quella dei dazi. E pretendiamo che chi soffre per conflitti, violenze e povertà, se ne stia buono e muoia a casa propria senza venirci a disturbare. E se raggiunge il nostro Paese dopo enormi traversie, ci arroghiamo il diritto di rispedirlo, con procedure più o meno drastiche, nell’inferno da cui è fuggito. Nessuno li vuole accogliere. Tutti li scansano e li sballottano di qua e di là, come se fossero dei rifiuti da far sparire. Mia madre usava al riguardo un’espressione colorita: “Cme i rosp al sasädi”.

«Respingere i migranti è un atto di guerra» (Papa Francesco).

E la nostra cultura, la nostra arte, le nostre tradizioni, la nostra religione, il nostro modo di vivere, la nostra cittadinanza dove andranno a finire? Abbiamo il diritto di difenderci da queste invasioni! Occupiamoci dei nostri poveri e dei nostri problemi: ne abbiamo anche troppi…

«Perdonate l’indifferenza di chi teme i cambiamenti di vita e di mentalità che la vostra presenza richiede. Trattati come un peso, un problema, un costo, siete invece un dono. Siete il ponte che unisce popoli lontani e religioni diverse» (papa Francesco ai migranti per il 35esimo anniversario del Centro Astalli).

Non scandalizziamoci se Giuda ha tradito Gesù: lui poteva avere delle attenuanti psico-sociologiche e politiche. Noi a distanza di duemila anni siamo rimasti ai trenta denari e ce li teniamo ben stretti. Lui ha avuto il coraggio disperato di impiccarsi, noi affoghiamo i bambini come si fa coi gattini ciechi e poi ci laviamo la coscienza allargando le braccia e chiudendo le mani.

Mio padre diceva sarcasticamente che “i puten jen bej e simpatic a ca’ ‘d chietor”. Noi li preferiamo addirittura affogati in mare.

 

 

 

 

L’incontro alla Casa Nera

“L’Italia può essere il miglior alleato degli Stati Uniti se Meloni resta premier”, ha detto Trump. 

So benissimo che non è giusto isolare una frase dal contesto di quanto è stato detto in un incontro, che oltre tutto ha affrontato diversi argomenti. Tuttavia questa affermazione mi ha colpito e sconcertato.

Pur non essendo pregiudizialmente un filo-americano ho sempre considerato questo Paese come un punto di riferimento, nel bene e nel male, per la democrazia, così come l’alleanza dell’Italia con gli Usa un elemento storicamente irrinunciabile nei rapporti internazionali pur con tutti i sacrosanti diritti di critica e le necessarie prese di distanza.

Essere amici non vuol dire essere sempre e comunque d’accordo su tutto e per tutto: il bello dell’amicizia è proprio la reciproca possibilità di discutere e dissentire nella massima lealtà e correttezza.

Mi è pertanto arrivata come un pugno nello stomaco la esplicita subordinazione dell’alleanza alla presenza e alla permanenza di Giorgia Meloni a livello di premierato italiano. Dal momento che non mi sento affatto omogeneo ideologicamente e politicamente con lei, devo dedurne che non posso considerarmi amico degli Usa? Se volessi ribaltare il discorso dovrei cambiare drasticamente il mio sentimento verso gli Usa dal momento che considero il suo attuale presidente come un personaggio inqualificabile in libera uscita.

Che senso ha condizionare i rapporti di amicizia fra gi Stati alle qualità (?) dei loro governanti? Non dovrebbero prevalere l’amicizia fra i popoli e la storia delle relazioni internazionali? Dove vuol parare Trump con queste autentiche cazzate diplomatiche? Vuol forse fornire un assist a Giorgia Meloni per l’introduzione del suo premierato, che diventerebbe oltre che un obbrobrio istituzionale, una scellerata opzione ideologica con tanto di placet americano?

Mentre Trump deve capire che tra amici veri non sono ammesse subdole intromissioni, Meloni deve mettersi in testa che non è andata in visita ufficiale negli Usa come leader di Fratelli d’Italia, ma come Presidente del Consiglio. Per la verità tutto l’incontro stando ai comunicati e alle dichiarazioni è stato permeato da improprie reciproche concessioni: un incontro fra amici che si strizzano l’occhio.

Stupisce l’opportunismo dilagante che ha visto nell’evento un successo per Meloni e per l’Italia. Sarò prevenuto, ma io ho visto soltanto prove di sala per uno spettacolo mediatico di bassa lega che sta andando sciaguratamente in scena.

Mi sarà almeno concessa l’obiezione di coscienza di chiamarmi eticamente e politicamente fuori da questo ignobile connubio italo-americano, che mette in ridicolo il nostro Paese e lo condanna all’irrilevanza a tutti i livelli? Non ho bisogno di autorizzazione: vorrà dire che d’ora in avanti considererò gli Usa nemici dell’Italia per le interposte persone di Trump e Meloni, in attesa che cambino al più presto questi inqualificabili governanti.

 

Le stragi in corrispondenza biunivoca

Bloccato il comunicato del G7 preparato dalla presidenza canadese, dopo che l’amministrazione Trump si è rifiutata di sostenere il testo di condanna sulla strage di civili ucraini la domenica delle Palme. Gli Stati Uniti non hanno firmato il comunicato di condanna del G7 contro l’attacco russo sulla città ucraina di Sumy, in cui sono morti almeno 32 civili ucraini la scorsa domenica delle Palme. Secondo quanto riporta l’agenzia Bloomberg, la Casa Bianca avrebbe evitato di sostenere il comunicato voluto dal Canada citando «il desiderio di continuare le trattative con Mosca». Bloomberg cita alcune fonti secondo le quali esponenti dell’amministrazione Trump hanno detto agli alleati di non voler firmare, perché «stava lavorando per preservare lo spazio per negoziare la pace». Il Canada, che ha la presidenza del G7, ha quindi spiegato agli alleati che senza il sostegno americano sarebbe stato impossibile procedere con il comunicato. (open.online)

È a dir poco curioso il comportamento di Trump, il quale per non irritare Putin non ne condanna un bestiale atto di guerra: dalla tolleranza bellica non potrà mai sgorgare nemmeno uno straccio di pace. In realtà credo che a Trump non interessi un bel niente della guerra in Ucraina: sta facendo i suoi affari con entrambi i belligeranti, con le terre rare dell’Ucraina e con le collaborazioni economiche della Russia.

Un cinismo portato alle estreme conseguenze: siccome non si condannano le stragi compiute da Netanyahu, lo stesso trattamento va riservato a Putin. Israele faccia quel che vuole, la Russia pure. E l’Europa non rompa i coglioni e si preoccupi di partecipare alla Nato investendo in armi, comprandole possibilmente dagli Usa. Quanto alla Cina, nessuno si azzardi a cercare accordi commerciali con questo Paese, solo gli Usa possono trattare eventualmente e sottobanco al riguardo.

La Corte penale dell’Aia vada a farsi fottere e l’Onu invece pure.

È il nuovo diritto internazionale, stupido!

 

I deboli catalogati dai forti

La strage di Sumy, perpetrata da Putin domenica 13 aprile, ha giustamente suscitato l’indignazione della comunità internazionale, persino di Donald Trump. Politici e commentatori si sono affrettati a denunciare il crimine di guerra, l’orrore di un vile attacco sferrato peraltro in un giorno in cui i credenti celebravano una delle feste più importanti del calendario cristiano, la Domenica della Palme. Una reazione e una indignazione che ci piacerebbe leggere e sentire anche in riferimento al massacro di Gaza, che invece continua imperterrito giorno dopo giorno. E che anche lì profana (pure) giornate sacre per i credenti, come il Ramadan, che quest’anno si è svolto nel sangue. E sì, lo sappiamo bene che, a differenza di quella russa sull’Ucraina, la guerra di Israele contro Gaza ha preso avvio in risposta al barbaro attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, che in un solo giorno ha fatto più di mille vittime (quasi tutte civili) e ha preso decine e decine di ostaggi. E sappiamo anche che a Gaza Hamas usa infrastrutture civili – a partire dagli ospedali – come basi e rifugio, fornendo così a Israele un ottimo pretesto per non fare più distinzioni fra obiettivi militari e civili. Ma è sotto gli occhi di tutti che l’azione di Israele ha di gran lunga superato i confini di una mera risposta al 7 ottobre e ha assunto i contorni di un’operazione di sterminio sistematico contro un intero popolo. Non è più una guerra contro Hamas. È diventata una guerra contro i palestinesi. Contro i civili. Contro i giornalisti. Contro il personale sanitario. Contro chiunque si trovi nel mirino di un esercito che ha smarrito ogni senso di proporzionalità e di umanità. Prendendo a prestito le parole di uno dei palestinesi che nelle scorse settimane ha partecipato alle manifestazioni a Gaza (manifestazioni che erano contro la guerra e allo stesso tempo contro Hamas): “Hamas non è più il bersaglio, è il pretesto”. E mentre i civili palestinesi vengono schiacciati tra il fanatismo di Hamas e la brutalità dell’esercito israeliano, la comunità internazionale – con pochissime eccezioni – tace, contribuendo a smontare pezzo per pezzo il principio cardine del diritto internazionale: la sua universalità. Il diritto non è al servizio dei più forti. La forza del diritto – anche quello internazionale – è esattamente (dovrebbe essere) ciò che ci permette di rovesciare il diritto della forza. Per questo fa paura a chi detiene il potere. E per questo dovremmo difenderlo con le unghie e con i denti. E invece, che facciamo? Di fronte alla Corte penale internazionale che emette un mandato di cattura per crimini di guerra e contro l’umanità nei confronti di Netanyahu, leader europei – e non parliamo solo di Orbán, ma anche per esempio di Merz in Germania o di Tajani in Italia – dichiarano pubblicamente che non lo eseguirebbero. Ossia che si metterebbero di traverso alla giustizia internazionale, come ha già fatto Orbán accogliendo Netanyahu e dichiarando di voler uscire dal Trattato che istituisce la Corte. Uno schiaffo al diritto. Un colpo mortale all’idea stessa di giustizia. E, in fin dei conti, un colpo a tutti noi. Perché quando il diritto si piega al potere, nessuno è al sicuro. Nemmeno quelli che oggi si credono al riparo. (MicroMega – Il contrappunto di Cinzia Sciuto)

Mi sono sempre chiesto il perché di questa inattaccabilità israeliana a prova di Onu e finanche di Corte penale dell’Aia e quindi, possiamo dire, in barba ai fondamentali principi del diritto internazionale.

Il primo motivo si può far risalire ad una sorta di immunità che il mondo concede ad Israele in riparazione della Shoah e per prevenire ogni e qualsiasi risorgente tentazione antisemita: come se aver subito persecuzioni quantitativamente e qualitativamente insuperabili desse l’autorizzazione a tormentare i palestinesi quasi fossero loro i responsabili della Shoah stessa. Ben vengano gli storici rimorsi di coscienza purché portino ad una revisione globale della difesa dei diritti delle persone e dei popoli.

Il secondo motivo, molto più pragmatico, si può individuare nel potere economico, finanziario e militare, esercitato dagli israeliani sparsi nel mondo, coagulato nel peso dello Stato di Israele nei confronti di tutte le nazioni a partire dagli Usa, laddove la lobby israeliana esercita un’influenza determinante a livello economico e politico: è un potere che ha sempre attraversato, più o meno, tutti gli equilibri internazionali, a ovest, a est, a nord e a sud.

Recentemente con l’elezione di Donald Trump gli attuali governanti di Israele hanno ottenuto una vera e propria licenza di massacrare con tanto di intese paranormali sui destini della striscia di Gaza e sulla deportazione in massa dei palestinesi. Non è affatto vero che gli Usa e Israele si siano sempre comportati così: basti pensare alla presidenza Carter e agli accordi di Camp David.

Se l’atteggiamento statunitense ha ragioni storiche pure inaccettabili, stupisce in particolare quello europeo, Italia in primis. Il nostro Paese ha sempre avuto un occhio di riguardo verso i problemi dei palestinesi, basti ricordare l’intervento del senatore a vita Giulio Andreotti, che, nel 2006, in occasione degli attacchi Hezbollah a Israele, durante una seduta del Senato Italiano arrivò ad affermare: “Ognuno di noi se fosse nato in un campo di concentramento e da 50 anni fosse lì e non avesse alcuna prospettiva di poter dare ai propri figli un avvenire sarebbe un terrorista”.

Ogni tanto mi sovviene quanto disse Massimo D’Alema durante il dibattito parlamentare per la fiducia al primo governo Berlusconi. In risposta a chi lo aveva insolentito con una battuta sul PDS che faceva rimpiangere il PCI, sfoderò la sua impareggiabile vis polemica dicendo: «Voi rimpiangete il Pci? Io rimpiango la DC!».

In effetti sulla politica verso il medio Oriente c’è da riscoprire l’azione dei governi della cosiddetta prima repubblica e di una classe politica che sapeva distinguersi dall’andazzo filo-americano e filo-israeliano.

Ecco di seguito il racconto di Massimo D’Alema sul Corsera della passeggiata a Beirut sottobraccio a un deputato di Hezbollah.

«Spesso in Italia prevale l’ignoranza di trogloditi che non sanno di cosa si parli. Hezbollah rappresenta una parte significativa della società libanese. All’epoca faceva parte della coalizione di governo: il ministro degli Esteri era un accademico islamico espressione di Hezbollah. Siccome io lavoravo per la pace tra Israele e Libano, era inevitabile che incontrassi anche le forze che governavano il Libano». «Arrivai a Beirut il mattino del 14 agosto, un’ora dopo la fine dei bombardamenti di Israele, che aveva colpito sino a un secondo prima del cessate il fuoco deliberato dall’Onu. Il ministro degli Esteri mi disse che c’erano molte vittime nei quartieri popolari, e avrebbe apprezzato che avessi fatto loro visita. Non era una manifestazione estremista; era lo scenario di un dramma, con civili che cercavano i loro congiunti sotto le macerie. Il mio fu un gesto di solidarietà umana giusto e apprezzato, che contribuì a garantire la sicurezza dei nostri militari poi schierati sul confine. Come i gesti che compii dall’altra parte, visitando i familiari di soldati israeliani rapiti. E incontrando all’aeroporto di Tel Aviv lo scrittore David Grossman, che in quella guerra aveva perso il figlio. Citai una felice espressione di Andreotti: l’equivicinanza. In Italia mi presero in giro».

In conclusione: si può essere diplomatici senza voltarsi dall’altra parte, senza fare i pesci in barile e senza far credere che Cristo è morto per il freddo ai piedi (ogni rifermento all’attuale ministro degli esteri italiano è puramente “causale”).

 

Fra “marionéti” ci si intende

La polemica a distanza Trump-Zelensky non si placa affatto. Perché intanto Trump prende le distanze dal conflitto, quasi a volersi parare in caso la sua mediazione fallisca. «La guerra tra Russia e Ucraina è la guerra di Joe Biden, non la mia. Se io fossi stato presidente quando è iniziata l’avrei fermata sul nascere», dice, ripetendo un suo vecchio motto. Ma poi eccolo accusare sia l’ex presidente Usa che lo stesso leader ucraino. «Il presidente Zelensky e il corrotto Biden hanno fatto un lavoro assolutamente orribile nel permettere che questa fase della guerra iniziasse. Io sto semplicemente cercando di fermare distruzione e morte», commenta. (dal “Corriere della Sera” – Lorenzo Cremonesi)

Della follia di poi son piene le fosse di Trump. Intendiamoci bene, non è che sulla guerra fra Russia e Ucraina non siano stati commessi errori madornali dal punto di vista diplomatico prima e durante l’aggressione. Si poteva certamente fare di più per prevenire la situazione e per affrontarla. Ne sono sempre stato convinto e non cambio parere.

Di qui a sparare cazzate come sta facendo Trump…

Consentitemi di riportare un piccolo episodio davanti al video, vale a dire una delle solite vuote interviste propinate ai fanatici del pallone. Parla il nuovo allenatore di una squadra, non ricordo e non ha importanza quale, che ottiene subito una vittoria ribaltando i risultati fin lì raggiunti. L’intervistatore chiede il segreto di questo repentino e positivo cambiamento e l’allenatore risponde: “Sa, negli spogliatoi ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti che dovevamo vincere”. Non ci voleva altro per scatenare la furia ironica di mio padre che, scoppiando a ridere, soggiunse: “A s’ capìssa, l’alenadór äd prìmma, inveci, ai zugadór al ghe dzäva äd perdor”.

Cosa si può dire di fronte alle sbruffonate di un megalomane come Trump? Non invidio Giorgia Meloni, che qualche cazzata di rimando dovrà pur dirla durante il colloquio che ha scelto di avere con il presidente americano. Tra incoerenti megalomani ci si intende…Forse non sapremo mai cosa si saranno detti, e, tutto sommato, è meglio così… Come farà Giorgia a giustificare i bacetti scambiati con Biden? Come farà a spiegare gli abbracci con Zelensky e di essere stata sempre così schierata in suo favore?

Se avevo perplessità su Biden e la sua politica internazionale, alla luce degli sbruffoni del giorno dopo, mi vedo costretto a rivalutarlo. Stesso discorso vale per Zelensky. Solo ora capisco la testardaggine con cui Biden voleva mantenere la sua candidatura alla Casa Bianca: era l’estremo anche se tardivo tentativo di risparmiare agli Usa e al mondo una folle avventura.

Come si può impostare un dialogo serio con un personaggio inaffidabile come Donald Trump? Cosa ci può essere di serio nell’assetto mondiale che si va delineando? Solo i ricatti reciproci! I dazi non son forse tali?! Stia attenta la premier italiana, perché se i rapporti con la Ue dovessero precipitare finirà per essere tutta colpa sua. D’altra parte non è anche lei una specialista nel capovolgere le frittate, dando sempre le colpe a chi osa criticarla? È sempre tutta responsabilità dei governi precedenti! E le sue contraddizioni clamorose? “Solo i morti e gli stupidi non cambiano mai opinione”.

Da qualche giorno, dopo essere precipitato nello sconforto, sono portato a buttarla in ridere: il teatro dei burattini. Strana e incredibile diplomazia in cui tutto è paradossalmente possibile. In dialetto parmigiano, quando una persona assume atteggiamenti sfrontatamente in contraddizione col suo normale comportamento, viene immediatamente apostrofata con una espressione colorita: “avérgh un bècch äd fér”. Gilberto Govi, in dialetto genovese, li chiamava “marionéti”. 

 

 

 

 

 

I falsi filo-palestinesi amici del giaguaro filo-israeliano

Vetrine e pensiline dei mezzi pubblici danneggiate e imbrattate, scritte sui muri, un momento di tensione fra manifestanti e forze dell’ordine, sette persone portate in questura: sono arrivati in circa diecimila a Milano per il corteo nazionale per chiedere di fermare la guerra a Gaza a supporto della resistenza palestinese, più di quanti sfilino lungo le vie di Milano, in quello che è diventato ormai un appuntamento fisso pro-Pal del sabato pomeriggio. Più persone, ma soprattutto più incidenti e più polemiche, in particolare per la scritta in rosso “Spara a Giorgia” lasciata su una vetrina di Bpm che ha scatenato l’indignazione della politica, a cominciare da quella dei presidenti di Camera e Senato.
La manifestazione, partita da piazza Duca d’Aosta, davanti alla stazione Centrale non ha toccato il centro (motivo, questo, di proteste nei giorni scorsi per il diniego all’arrivo in piazza Duomo) ma dalla stazione si è diretta verso il quartiere Isola, per poi arrivare a piazzale Baiamonti e concludersi all’Arco della Pace. Tante le bandiere palestinesi, le scritte inneggianti alla resistenza ma anche sagome di Carlo Calenda e Elly Schlein con impronte di mani in vernice rossa e la scritta «complice del genocidio». La stessa scritta apparsa sulle vetrine danneggiate di banche, supermercati e locali come Unicredit, Carrefour e Starbucks.
E proprio in piazzale Baiamonti ci sono stati alcuni momenti di tensione con contatti fra i manifestanti e le forze dell’ordine in tenuta antisommossa con scudo e manganello. Di «fatti gravissimi che continuano a ripetersi a ogni manifestazione e che sono il frutto di una pericolosa campagna di demonizzazione dell’avversario politico e delle donne e degli uomini in divisa» ha parlato il presidente del Senato Ignazio La Russa. «Condanniamo con fermezza – ha assicurato il presidente della Camera Lorenzo Fontana – intimidazioni e linguaggio d’odio, che minano il confronto civile e democratico». Su X è intervenuto anche il ministro della Difesa, Guido Crosetto, che ha parlato di «clima pericolosissimo, come negli anni ’70. Le forze di polizia italiane non hanno nulla a che fare – aggiunge – con ciò che accade a Gaza. Così come nessun altro cittadino italiano, compreso il presidente Meloni. Perché dunque portare qui l’odio e la violenza che si vorrebbero censurare e combattere in Palestina? Accade da mesi». «Azioni scellerate che non c’entrano proprio nulla con il diritto democratico di manifestare» ha commentato il presidente della Lombardia Attilio Fontana. «Milano – ha aggiunto – non è quella rappresentata da questi personaggi che, mi auguro, rispondano personalmente dei danni arrecati in città». (dal quotidiano “Avvenire”)

Come quasi sempre succede nelle manifestazioni di piazza, il comportamento dissennato di alcuni soggetti borderline rischia di squalificare aprioristicamente e sbrigativamente le intenzioni dei partecipanti. Alcune scritte in rosso, peraltro più paradossalmente provocatorie che intenzionalmente violente, non bastano a coprire i silenzi colpevoli verso il massacro dei palestinesi. I coccodrilloni di turno si sono sbizzarriti nel gridare al lupo filo-palestinese per riequilibrare quello filo-israeliano. Non vedo un clima di odio e violenza scatenato contro la polizia, contro alcuni politici e contro i nostri governanti. Vedo soltanto una forte protesta contro chi non ha il coraggio di assumere alcuna iniziativa in difesa di una popolazione massacrata, scacciata dalle proprie terre e financo irrisa nei suoi sacrosanti diritti.

Purtroppo ai coccodrilloni vittimisti fanno riscontro gli infiltrati, dissennati e casinisti lupi amici del giaguaro. Abbiamo un pessimo campionario animalesco. In questa paradossale fattoria le vere vittime dell’odio e della violenza vengono sacrificate alla ragion di stato, alle amicizie internazionali, alla politica del più falso dei vogliamoci bene.

Ormai si è capito molto bene, quando l’attuale governo italiano va in evidente e chiara difficoltà, gioca a fare la vittima capovolgendo i termini delle questioni: migliore assist di quello dei cretini di piazza non poteva essere concesso.

Stiano tranquilli Giorgia Meloni e i suoi sodali che nessuno sparerà contro di loro: sono essi che da  due anni e mezzo sparano cazzate a vanvera e intorbidano le acque, volendo passare per agnelli che subiscono violenti (?) attacchi. Ma mi facciano il piacere…

I coccodrilli filo-israeliani

«La realtà a Gaza è una realtà post-apocalittica: tutto è stato distrutto, i combattimenti continuano, la zona è diventata una specie di zona di morte per la popolazione e stiamo sostanzialmente assistendo all’emergere di una sorta di interruzione post-apocalittica della guerra»: lo ha dichiarato il Commissario generale dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa), Philippe Lazzarini, in un’intervista all’emittente tv Al Jazeera.

Ebbene di fronte a questo desolante quadro la politica a livello internazionale oscilla fra la licenza di sterminare concessa da Trump a Netanyahu, fra la pilatesca posizione di chi (non) condanna Israele concedendogli l’attenuante della provocazione da parte di Hamas, fra le grida di cessate il fuoco regolarmente violato, fra le scandalizzate accuse di antisemitismo per chi osa criticare la spietatezza israeliana, fra la sostanziale e silenziosa sopportazione del comportamento israeliano e l’omertoso insensato menefreghismo di chi mette tutto e tutti sullo stesso piano.

Da parte del governo italiano le solite parole di circostanza usate dal coccodrillone ministro degli Esteri Antonio Tajani.  Mia sorella, per certi versi più netta di me nei giudizi, direbbe, usando una gustosa espressione dialettale: “niént pighè in t’na cärta” oppure “da lu a niént da sén’na…”.

Sempre mia sorella, da una escursione turistica nei territori israelo-palestinesi, aveva riportato una drastica impressione: “Gli israeliani sono spietati e sfruttano i palestinesi, i palestinesi sono insensati e si lasciano abbindolare dal terrorismo arabo”. Siamo ancora lì. Anche se la striscia di Gaza non esiste più, i restanti palestinesi sono totalmente allo sbando, i superstiti dei massacri dell’una e dell’altra parte saranno “costretti” a vivere di odio vendicativo.

In mancanza della politica, in Italia e nel mondo, fortunatamente si fa sentire la piazza.

Un lungo corteo con almeno 10mila partecipanti ha attraversato le strade di Milano, dalla stazione in direzione dell’Arco della Pace. É la manifestazione a sostegno della Palestina e per chiedere la fine della guerra nella Striscia di Gaza. Secondo gli organizzatori si sono toccate le 15mila presenze. Centinaia le bandiere palestinesi e gli striscioni per dire stop al genocidio. Tra gli slogan gridati prima della partenza: “Gaza libera, Palestina libera” e “intifada, intifada”. Presenti anche alcuni attivisti che tengono in braccio dei finti neonati coperti da un lenzuolo bianco sporco di vernice rossa. Numerosi, soprattutto nelle prime file, anche i cartelli e le bandiere per chiedere “libertà per Anan Yaeesh“, palestinese accusato in Italia di terrorismo per aver finanziato un gruppo armato e detenuto nel carcere di Terni. Tra gli altri, partecipano Anpi, Associazione dei Palestinesi in Italia, Giovani Palestinesi, Adl Cobas, Cub, associazioni studentesche e altre sigle sindacali, anche se si sono viste anche bandiere e striscioni dell’Alleanza Verdi-Sinistra e del M5s.

Nel tragitto si sono verificati alcuni danneggiamenti, imbrattamenti, scritte minatorie nei confronti della presidenza del Consiglio. Una vetrina di una sede di Unicredit, in via Pola, in zona Isola, è stata incrinata. “UniCredit complice del genocidio” hanno scritto con la vernice alcuni manifestanti, infrangendo il vetro, tanto che alcuni attivisti invitavano i presenti ad allontanarsi per il rischio che cadesse la vetrina. Infranta e imbrattata, poco prima, anche quella di Starbucks. Vernice anche sulla vetrata di Burger King. Poco dopo sono stati esplosi anche alcuni petardi. Una scritta “Spara a Giorgia” è comparsa sulla vetrina di una filiale di banco Bpm in piazzale Lagosta. Pochi metri più avanti è stata poi danneggiata anche la filiale di Banco Desio in via Traù, dove è stata bruciata una telecamera e fatta una scritta “No riarmo“. Infranta anche la vetrina di un punto vendita Carrefour. (Da “Il Fatto Quotidiano” – Simone Bauducco)

La sacrosanta protesta di piazza purtroppo viene condita da episodi di violenza (è un triste classico): tuttavia non basta per screditarla, per nasconderne le ragioni di fondo e per giustificare le coccodrillate filo-israeliane di cui sopra.

 

 

L’Europa bertoldiana

Donald Trump scivola nei sondaggi: il 51% degli americani interpellati in un rilevamento The Economist/YouGov ne disapprova l’operato, mentre il 43% lo approva. Lo stesso sondaggio due settimane fa aveva visto l’opinione pubblica divisa: 48% favorevoli e 49% sfavorevoli. Le due settimane hanno visto le mosse dell’amministrazione sui dazi che hanno messo le borse mondiali sulle montagne russe. Trump ha cominciato il suo secondo mandato con livelli di popolarità più alti che in ciascun punto del primo incarico da presidente. Il sondaggio ha toccato anche la questione dei dazi: il 52% è contrario alle misure adottate.

Intanto il presidente Usa, difende la sua politica tariffaria. Sta “funzionando molto bene” ha affermato nonostante la Cina abbia aumentato i dazi sui prodotti statunitensi al 125%, in una guerra commerciale tra le due maggiori economie mondiali. La portavoce Karoline Leavitt ha aggiunto che “il presidente è stato molto chiaro: quando gli Stati Uniti vengono colpiti, lui risponderà con ancora più forza”. Ieri il presidente cinese Xi Jinping ha rilasciato le sue prime dichiarazioni sulla questione, affermando – hanno riportato i media – che il suo Paese “non ha paura”. Xi ha aggiunto che l’Unione Europea e la Cina dovrebbero “resistere congiuntamente alle pratiche di intimidazione unilaterale”. Giovedì Trump aveva ribadito di voler raggiungere un accordo con Xi nonostante le crescenti tensioni. “È un mio amico da molto tempo. Penso che finiremo per trovare un accordo che sia molto positivo per entrambi i Paesi”, aveva detto e nelle ultime ore ha cercato di placare i timori sul dollaro. “Siamo la valuta preferita. Lo saremo sempre… Penso che il dollaro sia formidabile”, ha detto ai giornalisti a bordo dell’Air Force One.

Ma il nervosismo sui mercati non si calma. I controdazi della Cina contro gli Stati Uniti preoccupano e causano volatilità sulle piazze finanziarie, alimentando i timori sullo stato dell’economia globale. Le borse del Vecchio Continente hanno chiuso tutte in rosso, con Francoforte maglia nera d’Europa in calo dello 0,92%. Parigi ha perso invece lo 0,30% mentre Milano è arretrata dello 0,73%. Incerta in avvio di seduta, Wall Street ha chiuso in rialzo rassicurata dalla Fed pronta a intervenire per aiutare la stabilità sui mercati. Il Dow Jones ha segnato un aumento dell’1,56% e il Nasdaq del 2,06%. Lo S&P 500 ha guadagnato l’1,81% e archiviato la sua migliore settimana dal 2023, salendo del 5,7%. Le tensioni restano però alte sul dollaro e sul mercato dei Treasury, dove l’ondata di vendite non accenna a fermarsi facendo volare i rendimenti. Quelli sui titoli di stato a 10 anni sono saliti fino a quasi il 4,6%, mezzo punto in più rispetto alla settimana scorsa, mentre per i Treasury a 30 anni l’aumento è stato di 16 punti base a quasi il 5%. Un trend al rialzo che preoccupa gli economisti e gli analisti perché sembra indicare il trattamento dei titoli di stato americani come “asset rischiosi” e non più come il bene rifugio per eccellenza insieme all’oro. Il dollaro invece continua a perdere terreno nei confronti delle principali valute e scivola ai minimi da tre anni. (La Stampa – Redazione web)

Mentre le chiacchiere si sprecano, meglio partire dai dati oggettivi. Non accontentiamoci di stigmatizzare le turbe psicologiche di Donald Trump, non limitiamoci ad irridere ai volteggi di Giorgia Meloni nel barile internazionale, non giochiamo allo sfascio internazionale e post-valoriale.

I punti d’attacco per un discorso minimamente realistico e di qualche prospettiva mi sembrano sostanzialmente tre. Il primo riguarda la tenuta del consenso americano sulla presidenza Trump: qualcosa sembra muoversi. Può darsi che il favore popolare sia molto meno granitico del previsto e che basti qualche buccia di banana ben posizionata per metterlo in crisi. Forse alla facilità con cui si raccoglie consenso fa riscontro quella con cui lo si perde: tutto è ondeggiante e precario.

Il secondo punto è relativo alla forza economico-finanziaria e all’abilità diplomatica della Cina. Non so come se la potrà mettere Trump di fronte al regime cinese, che non ha problemi di tenuta interna e viaggia sulle ali dell’espansionismo all’esterno.

Il terzo aspetto dipende dal sistema finanziario molto complesso e refrattario alle stringenti logiche trumpiane: non bastano i ricchi epuloni insediatisi alla Casa Bianca a frenare i Lazzaro imbizzarriti e incontrollabili.

In questo bailamme internazionale manca il peso dei Paesi europei: anti-trumpiani sì ma solo un pochettino, filo-cinesi sì ma fino a mezzogiorno, uniti sì ma contro loro stessi.   Non c’è la strategia dell’Unione, ma nemmeno la tattica della disunione. Occorrerebbe coraggio. Chi vieta all’Europa di tentare un avvicinamento alla Cina? Chi vieta all’Europa di varare una politica economicamente espansiva e finanziariamente innovativa? Chi vieta all’Europa di rivedere seriamente l’atlantismo nei suoi meccanismi e nelle sue istituzioni fregandosene altamente degli ultimatum bellicisti e riarmisti? Chi vieta all’Europa di farsi promotrice di un nuovo ordine internazionale tenendo conto dei Paesi sciolti e in balia dei neocolonialismi imperialistici odierni?

In estrema sintesi, ai potenti della terra, che ne fanno una più di Bertoldo, non accontentiamoci di contrapporre la trovata di genio di Bertoldo stesso consistente nel chiedere che venga esaudita la nostra ultima volontà: quella di poter scegliere la pianta a cui essere impiccati.

La parolaccia e la politicaccia

Parlare come l’uomo della strada, perché no? Tentare un discorso da bar? Oppure atteggiarsi a bullo di quartiere, usando parole (e parolacce) in libertà. L’importante è farsi capire subito. «Questi Paesi mi stanno chiamando per baciarmi il c…» ha detto Donald Trump, in un discorso tenuto alla cena del National Republican Congressional Committee. Si era tra amici, ma fino a un certo punto. Milioni di persone pendono dalle labbra del tycoon, rilanciano i suoi messaggi, lo ascoltano. Questa comunicazione che ha ben poco di cerebrale, che non è più nemmeno di pancia e che sta pericolosamente scendendo nelle viscere del Paese è davvero ciò che l’America di John F. Kennedy e Martin Luther King, ma anche di Ronald Reagan e George Bush senior, si merita oggi? Certo la volgarità funziona, parla a quella parte maggioritaria del Paese che ha in Trump e Vance i suoi paladini, permette di esibire prepotenze e insulti gratuiti nei momenti difficili, sposta l’attenzione dal merito delle cose, consente a chi parla di occupare tutta la scena, senza provare imbarazzi. Ma fino a che livello dovremo scendere, tra riferimenti sessisti, allusioni e il solito machismo? «Potrei scendere sulla Quinta Avenue e sparare a qualcuno e non perderei nemmeno un voto» diceva il primo Trump, quello eletto nel 2016. Sembrava una bellicosa provocazione, la “sparata” fuori controllo di un ex immobiliarista di successo abbagliato dal mercato e dalle luci della politica. Invece era solo l’inizio delle performance mediatiche di dubbio gusto dell’uomo più potente del mondo. E nell’enciclopedia del cattivo gusto non è stata neppure la pagina peggiore. (da “Avvenire” – D.M.)

Non è questione di educazione, di galateo, di buongusto, di linguaggio, di stile. È una questione squisitamente politica. Forse addirittura culturale, se con questo termine intendiamo il modo di porsi di fronte alla realtà. È un modo efficace di dialogare con la gente mettendosi in sintonia con essa? La politica può essere intesa in due sensi: come adeguamento agli istinti delle persone per soddisfarli illusoriamente oppure come accoglimento delle istanze razionali delle persone per offrire ad esse soluzioni compatibili con l’interesse generale.

Trump sta facendo la peggior sintesi possibile: porta gli istinti delle persone a coincidere con l’interesse generale e viceversa. Spesso conversando di politica con gli amici ho posto la domanda se la politica abbia raggiunto o meno il fondo da cui poter seppur faticosamente risalire. Se Donald Trump avesse il merito di portarci a toccare il fondo per poi provare a darci un colpo di reni all’insù, sarebbe paradossalmente da ringraziare.

Credo invece che con le sue parolacce seguite dai fattacci ci porti a normalizzare la “politicaccia”.

Nel periodo in cui mio padre lavorava da imbianchino come lavoratore dipendente si trovò ad eseguire un lavoro del tutto particolare, scrivere sui muri, a caratteri cubitali, motti propagandistici fascisti (“vincere”, “chi si ferma è perduto” e robaccia del genere).

Al geometra che sovrintendeva, ad un certo punto, tra il serio ed il faceto disse: “ Quand è ch’a gh’dèmma ‘na màn ‘d bianch? “.   “Beh”, rispose in modo burocratico, “per adesso andiamo avanti così, poi se ne parlerà. A proposito cosa dice la gente che passa?”.  Era forse un timido ed innocuo invito ad una sorta di delazione ma mio padre, furbescamente, non ci cascò ed aggiunse: “Ch’al s’ mètta ‘na tuta e ch’al faga fénta ‘d njent e ‘l nin sentirà dil béli “. La zona era infatti quella del parmigiano Naviglio, autentico covo di antifascismo e papà mi raccontò come, tutti quelli che passavano di lì, uomini, donne e bambini le sparassero grosse anche contro di lui, senza tener conto del famoso detto “ambasciator non porta pena”.

Bisognerebbe che andassimo a scuola dagli abitanti di borgo del Naviglio per smascherare le trappole del linguaggio trumpiano, che non è una novità ma una continuità. Torno infatti per un attimo ai tempi della Brexit.

La propensione scozzese verso l’Unione Europea, seppure almeno in parte strumentale rispetto alle loro mire indipendentiste, sfociò in rabbia e trovò, per ironia del destino, un ulteriore motivo di ribellione nelle parole proferite proprio in Scozia nei giorni del referendum dall’aspirante candidato repubblicano alle presidenziali americane, Donald Trump: «Vedo un reale parallelo fra il voto per Brexit e la mia campagna negli Stati Uniti». Come riferì Pietro Del Re, inviato di Repubblica, nel pub di John Muir a Edimburgo, quando Trump apparve in tv, tutti i clienti si avvicinarono allo schermo. Poi, tutti assieme cominciarono a urlargli insulti di ogni genere, il cui meno offensivo era senz’altro pig, porco.

Lasciamoci influenzare, consigliare e indirizzare dai parmigiani di molto tempo fa e dagli scozzesi di qualche tempo fa: a volte è necessario e soddisfacente mettersi sullo stesso piano per sparare parole in libertà.

Almeno potremo sfogarci e consolarci: “Trump al s’dà dil bòti da càn, ma nuätor a ghe dsème dil robi da gozèn”.