Gli applausi dei pretoriani fiscali

«Il fisco è il biglietto da visita della credibilità di uno Stato, non deve soffocare la società ma aiutarla a prosperare», così la presidente del Consiglio Giorgia Meloni è intervenuta agli Stati generali dei commercialisti al Roma Convention Center la Nuvola, dove è stata accolta con una standing ovation. «Il fisco non deve opprimere famiglie e imprese con regole astruse e un livello di tassazione che non corrisponde al livello dei servizi che lo Stato eroga», ha aggiunto la premier, sottolineando che lo Stato deve usare le risorse «con buonsenso e senza gettare i soldi dalla finestra, che è quello che abbiamo tentato di fare in questi anni».

La premier, accompagnata nel suo intervento dal presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei commercialisti, Elbano De Nuccio, ha riaffermato la necessità di una «riforma fiscale che l’Italia aspettava da oltre 50 anni». Sulla complessità del sistema fiscale italiano la premier ha aggiunto: «Abbiamo fatto questa scelta perché riteniamo che il fisco non debba essere di difficile comprensione, qualcosa che è riservato agli addetti ai lavori ma uno strumento con il quale lo Stato interviene nella società, la aiuta a crescere, a prosperare mettendo chi crea ricchezza, le imprese, il tessuto produttivo nelle condizioni migliori possibili per poter creare quella ricchezza. Perché il Fisco – ha continuato – è, di fatto, lo strumento principe con il quale lo Stato dispone delle risorse per erogare i servizi, per far funzionare la macchina pubblica, per aiutare i più fragili, per finanziare gli interventi necessari a rendere la società più giusta e più equa e da questo deriva che il fisco è anche il biglietto da visita della credibilità di uno Stato»

Meloni ha poi ribadito come proseguirà l’operato del suo governo dopo la riforma delle aliquote Irpef: «Il nostro lavoro non è finito: intendiamo fare di più e concentrarci oggi sul ceto medio, che è la struttura portante del sistema produttivo italiano. Vogliamo lavorare per rendere il sistema più equo». La Presidente del Consiglio è tornata anche sul tema dell’evasione fiscale: «A chi ci accusa di aiutare gli evasori e fare condoni, rispondiamo con i fatti, che a differenza della propaganda non possono essere smentiti. Questo è il governo che ha ottenuto i risultati migliori nella storia nella lotta all’evasione. Chi vuole fare il furbo non ha spazi, ma chi è onesto e in difficoltà deve essere messo in condizione di pagare quello che deve. Questa è la distinzione semplice che abbiamo operato». (da open.online)

Lasciamo stare per un attimo i toni propagandisti della premier e l’opportunistica piaggeria corporativa dei commercialisti e teniamoci al contenuto (?) di questo intervento. Mi limito a porre alcune domande indiscrete.

Come sostiene Carlo Cottarelli su L’Espresso, uno degli stereotipi più frequenti è che i governi di destra taglino le tasse e quelli di sinistra le aumentino. Ma la pressione fiscale è aumentata in Italia da quando Meloni è a Palazzo Chigi. Come mai?

L’articolo 53 della Costituzione italiana stabilisce che tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva, e che il sistema tributario è informato a criteri di progressività. Ciò significa che chi ha un reddito più elevato deve contribuire con una percentuale maggiore rispetto a chi ha un reddito inferiore, al fine di garantire una distribuzione equa del carico fiscale. Come mai la progressività vale solo per i redditi da lavoro e non per gli altri per i quali, fra condoni, aliquote fisse e controlli all’acqua di rose, si finisce in una vergognosa proporzionalità?

Come mai i dati emergenti dall’agenzia delle entrate piangono miseria per il lavoro autonomo mentre dipendenti e pensionati al confronto fanno vita da nababbi?

Come mai anziché impostare una sana lotta all’evasione si ripiega continuamente sulla “condonite acuta”, che rappresenta un’insana spinta all’evasione? Come mai, in buona sostanza, da una parte si dovrebbe tentare di snidare gli evasori mentre dall’altra li si incoraggia e li si premia?

Torno ai toni che fanno la musica per gli orecchi di Giorgia Meloni, la quale è andata a fare un comizio elettorale, zeppo di demagogici luoghi comuni, chez-Consiglio nazionale dell’Ordine dei commercialisti, dicendo un mare di bugie e promettendo mari e monti. I commercialisti si sono spellati le mani per offrirle una standing ovation: a loro evidentemente va bene così. La massa dei tartassati fiscali se ne sta zitta o addirittura la considera il male minore. Minore di cosa? Peggio di così…

 

 

 

 

Gli immigrati sono da integrare se stanno a casa loro

Discutendo pacatamente con diverse persone sulle problematiche inerenti al fenomeno migratorio, mi sono spesso sentito rispondere: “Io non sono contrario agli immigrati, ma vorrei ospitare solo quanti lavorano, si comportano bene e si inseriscono correttamente nella nostra società”.

Il procedimento per ottenere la cittadinanza concede ampie garanzie in merito alle richieste di cui sopra e allora perché un 70% di cittadini non votando al referendum hanno dimostrato quanto meno indifferenza verso la concessione di questo diritto agli immigrati, mentre un 35% del 30%, vale a dire circa un 10% si è dichiarato contrario all’abbreviamento dei tempi da 10 a 5 anni per l’ottenimento della cittadinanza e con essa di tutti i diritti e di tutte le opportunità previste per i cittadini italiani?

In conclusione quattro italiani su cinque dimostrano riserva mentale e/o chiusura più o meno accentuata nei confronti della piena integrazione degli immigrati, di cui peraltro abbiamo bisogno dal punto di vista demografico e sociale. Sentite cosa succedeva nella mia famiglia allargata.

A mio padre si aggiungeva occasionalmente suo fratello, uno zio che veniva di rado a trovarci, partendo da Genova dove abitava con la sua famiglia e dove lavorava. Si reinseriva perfettamente nel contesto familiare e portava il suo alto contributo al clima “battutistico”, anche perché aveva mantenuta intatta la verve parmigiana e continuava a padroneggiare l’uso del dialetto mischiandolo a volte con quello genovese. Ne sortiva una miscela esplosiva di sortite originali e accattivanti.

Quando tornava a Parma e incontrava gli amici di un tempo si ricreava immediatamente il rapporto cameratesco condito dai ricordi. Al termine di questi fitti dialoghi mio zio sparava quasi sempre una simpatica battuta. Al momento dei saluti rivolto all’amico di turno, dopo avergli dato una pacca sulla spalla e/o avergli stretto calorosamente la mano, diceva: «Veh, arcòrdot bén, quand at me vôl gnir a catär…sta a ca tòvva».

Tutto sommato non siamo cattivi, un piccolo aiuto non lo neghiamo a nessuno, quanto a riconoscere diritti siamo invece molto stitici. C’è chi parla continuamente nella mano agli italiani, confondendo loro le idee, vendendo lucciole per lanterne: non ci mancava altro che Donald Trump a completare la torta contro gli immigrati.

Purtroppo, come lasciano intendere i flussi elettorali relativi al voto referendario, l’atteggiamento negativo sull’immigrazione non è “patrimonio culturale” esclusivo della gente di destra, ma sta insinuandosi anche a sinistra, laddove la dirigenza politica non riesce a formulare proposte complessive e concrete sul modo di fronteggiare ed affrontare positivamente il fenomeno migratorio.

Il problema degli immigrati è legato poi alla penosa diatriba sull’accertamento dei motivi che spingono i rifugiandi alla fuga dai loro paesi di origine. Ci sarebbero i rifugiandi di comodo? Pensate un po’, gente che scappa disperatamente e mette a repentaglio la propria vita, abbandona tutto, paga cifre pazzesche a scafisti senza scrupoli, si sottopone ad un viaggio in condizioni disastrose senza alcuna garanzia di arrivare a destinazione, rischia di morire annegata. E tra questi ci potrebbe essere un disperato di comodo? Ma fatemi il piacere. Poi arrivano e nessuno li vuole accogliere. Tutti li scansano e li sballottano di qua e di là, come se fossero dei rifiuti da far sparire. “Cme i rosp al sasädi”. Il referendum, volere o volare, ha confermato che questa è la nostra (in) civiltà!

 

 

Il ghiacciolo bianco e la Chiesa in bianco

In questi giorni, conversando amabilmente con una suora mia conoscente, è spontaneamente uscito un commento piuttosto imbarazzante (almeno per me) su Leone XIV: un papa che vuole accontentare un po’ tutti, che non vuole scontentare nessuno, un papa di centro usando una espressione presa a prestito dalla politica.

Ci siamo però fortunatamente entrambi ribellati a questa prospettiva, ricordando le scelte evangeliche e i perentori inviti di Gesù (il vostro parlare sia sì-sì, no-no).

D’altra parte le mosse continuano ad essere piuttosto contraddittorie, dietro le quali c’è chi vede discontinuità e chi continuità rispetto alla pastorale bergogliana.

Subito dopo l’elezione al soglio di Pietro, Papa Prevost ha incontrato monsignor Fernando Ocariz, prelato dell’Opus dei. Con la stessa naturalezza con cui i rapporti tra Bergoglio e la prelatura personale sono stati definiti distanti, in molti hanno visto quell’incontro come l’inizio di un riavvicinamento. In particolare, è stato notato il timing: Prevost ha subito incontrato Ocariz, dimostrando di voler perseguire l’unitarietà che ha citato in più di una circostanza. Anche per questo motivo, una delle mosse più sussurrate riguarda la possibilità che l’Opus dei torni a occuparsi di comunicazione in Vaticano. Sarebbe un atto ecclesiale dal grande potere simbolico. (Il Giornale)

L’Opus Dei non era certo un punto di riferimento per papa Francesco, d’altra parte è un’associazione che ha una filosofia tutt’altro che bergogliana. Parlare di carità e di unità come punti cardine del nuovo corso papale comporta inevitabili confusioni, perché non sempre l’unità ad intra è perseguibile se non a prezzo di edulcorare la carità ad extra.

È un messaggio fortissimo, di continuità evidente col papato di Jorge Mario Bergoglio. In udienza a San Pietro, Papa Leone XIV ha ricevuto venerdì una delegazione della Ong Mediterranea Saving Humans, assieme ad altri movimenti e associazioni laiche e cattoliche dell’Arena di Pace.

Incontro che arriva a pochi giorni dal rinvio a giudizio del fondatore della Ong, Luca Casarini, assieme al comandante della nave Mare Jonio e a diversi membri dell’equipaggio, che finiranno alla sbarra dopo la decisione del Gup del tribunale di Ragusa Eleonora Schininnà di processare con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione illegale, aggravata dal trarne profitto.

Un “processo ai soccorsi”, l’aveva invece definito Casarini, già al centro del caso Paragon, col suo telefono spiato tramite il software dell’azienda israeliana Paragon.

Sull’accoglienza dei migranti anche Robert Francis Prevost non si tira indietro e ribadisce l’impegno della Santa Sede: con Mediterranea nell’udienza in Vaticano hanno partecipato anche gli attivisti di Refugees in Libya.

“Soccorrere le persone, accoglierle e strapparle ai naufragi e ai respingimenti significa dare carne a quella fraternità che, come ha detto il papa, deve essere scoperta, amata, sperimentata, annunciata e testimoniata”, le parole del cappellano di bordo di Mediterranea, don Mattia Ferrari, anche lui finito nella rete di Paragon.

“Grazie anche allo straordinario supporto di Papa Francesco, oggi abbiamo una nuova nave di soccorso. Con quella praticheremo nel concreto e non solo a parole ciò che ci ha detto Papa Leone, al quale va tutta la nostra gratitudine per averci, ancora una volta, mostrato una Chiesa attenta agli ultimi e a chi patisce l’ingiustizia e gli orrori di questo mondo”, ha affermato don Ferrari al termine dell’incontro in San Pietro. (L’Unità)

Un colpo al cerchio e uno alla botte oppure l’opportuno sganciamento da pregiudiziali logiche nelle relazioni interne ed esterne alla Chiesa? Mi auguro che il tutto rientri nella seconda ipotesi anche se il timore del cerchiobottismo papale mi rende un po’ inquieto.

Molti dicono: bisogna aspettare. Non son d’accordo del tutto. Valgono assai ed hanno un grosso significato le prime impressioni, che generalmente sono quelle giuste. Un papa deve mettere in gioco il suo carisma e con esso la sua capacità di trascinare il popolo di Dio, non con atteggiamenti bipartisan, ma con proposte chiare ed entusiasmanti. Il carisma è la capacità di una persona di ispirare e influenzare gli altri, creando un forte legame emotivo e di fiducia. Si tratta di un insieme di tratti personali e di comportamenti che rendono una persona affascinante, attraente e capace di esercitare un forte ascendente sugli altri.  Il carisma, in teologia cristiana, è un dono soprannaturale dello Spirito Santo, conferito a un individuo per il bene della comunità e per la sua edificazione. Deriva dal greco “charisma,” che significa “grazia” o “dono”. Questi carismi sono doni speciali che permettono a un membro della Chiesa di servire la comunità in modo unico, secondo il suo talento specifico.

Non ho dubbi che lo Spirito Santo possa ricolmare di doni papa Leone XIV, ma sono impaziente nello scoprirli. Papa Francesco era stato trasparente fin dall’inizio, mentre temo che l’impostazione pastorale di Prevost possa arrivare col contagocce e magari fuori tempo massimo.

Per ora mi viene spontaneo definire maliziosamente papa Leone XIV come un ghiacciolo bianco al gusto di limone, non certo un pezzo di ghiaccio bollente.

 

 

 

 

 

 

Un’occasione politica improvvisata e sciupata

Il mesto flop partecipativo verificatosi in occasione dei cinque referendum, che sono andati ben lontani dal raggiungere il previsto quorum del 50% + 1 di votanti, impone alcune serie riflessioni in ordine alle motivazioni di chi li ha promossi e sostenuti e di chi li ha respinti o snobbati.

Ormai purtroppo la disaffezione alle urne da parte dei cittadini sta diventando cronica e tutto sommato questo fatto non disturba la nostra penosa classe politica, che trova il modo di nascondere così le proprie malefatte nonché il modo di prescindere da un vero e proprio giudizio dell’elettorato: siamo tra la rassegnazione e l’opportunismo, mentre per i cittadini siamo fra la, per certi versi comprensibile, protesta silenziosa e l’ingiustificabile menefreghismo egoistico.

Speravo che i referendum rappresentassero comunque una occasione per incanalare nelle urne la generica protesta invece purtroppo hanno vinto l’egoismo sociale e l’indifferenza, che a volte diventa persino ostilità, verso i problemi del mondo del lavoro e dell’integrazione migratoria.

Al di là del merito dei quesiti pensavo potesse essere un’occasione per smuovere le acque stagnanti della politica italiana con la possibilità di invertire la tendenza all’astensionismo e di lanciare un messaggio di cambiamento per quanto concerne la squallida azione di un governo inqualificabile, mettendolo almeno un po’ alla punta e facendogli sentire il fiato degli elettori sul collo.

Nel merito speravo che la coscienza dei cittadini venisse toccata dalla precarietà del lavoro giovanile, dalla insicurezza nei rapporti di lavoro, dalla rischiosità delle condizioni di lavoro e dalla incertezza di vita dei migranti presenti da tempo nella nostra società, invece tutti parlano di sicurezza a senso unico come se tutto potesse dipendere dalla lotta alla delinquenza, come se i lavoratori fossero delle sanguisughe e come se i migranti fossero un corpo estraneo.

Ci sono poi alcuni gatti che si mordono la coda. Mi riferisco alla scarsa rappresentatività e capacità di mobilitazione dei sindacati, che erano i promotori principali di questi referendum. É il caso di ricordare un famoso detto: “piazze piene e urne vuote”. Un conto è infatti promuovere e tenere manifestazioni pubbliche colme di partecipanti, altra cosa è intervenire nella politica e sulle leggi che da essa promanano. Anche la CGIL evidentemente non riesce a influenzare e sensibilizzare i propri iscritti che preferiscono rifugiarsi in uno sterile corporativismo.

La nostra società, pur con tutto il rispetto per la dirigenza sindacale e per Maurizio Landini in particolare, non è più contenibile nel quadro classico del rapporto di lavoro dipendente e quindi risulta una pia illusione quella di sostituire gli inconcludenti e teorici partiti con i vivaci e concreti sindacati, considerato anche il fatto che i sindacati dei lavoratori sono piuttosto trasversali rispetto agli schieramenti politici (mi risulta che ad esempio tanti iscritti alla CGIL siano di estrazione politica leghista…).

Non parliamo dei partiti di sinistra che scontano enormi ritardi nell’analisi  e nella comprensione dell’evoluzione della nostra società e nella presa d’atto dei problemi reali emergenti dalle nuove povertà, preferendo rifugiarsi negli schemi sociali classici non più sufficienti a rispondere alle ansie, alle preoccupazioni e alle problematiche attuali: i referendum di questa tornata erano forse un po’ troppo caratterizzati da sociologismo datato, caricaturalmente contrastabili come rimasugli ideologici e non sufficientemente puntati e spiegati nella loro attenzione ai soggetti deboli.

C’era poi da rimuovere il macigno della incoerenza di una sinistra che tempo fa ha tentato un po’ velleitariamente di rendere flessibili i rapporti di lavoro al fine di creare occupazione (era questa per dirla in breve la logica del jobs act di renziana memoria) per poi arrivare dopo alcuni anni a rimangiarsi queste scelte dopo averne verificato l’impatto molto discutibile o addirittura piuttosto negativo sul lavoro. Sono errori e azzardi ammissibili, ma che storicamente e politicamente si pagano caro.

Sono sicuro che chi scommetteva politicamente sui risultati di questo referendum per trarne una prospettica alternativa popolare rispetto all’ultimo voto politico a livello nazionale si rifugerà nella comunque ragguardevole messe di “sì”, che, volenti o nolenti, suonano come un atto di sfiducia verso gli attuali governati e la loro maggioranza sostanzialmente basata sull’astensionismo. In dialetto parmigiano si dice: “Putost che nient è mej putost”. Un modo come un altro per non ammettere di avere perso e di avere sbagliato nel coltivare i referendum come una scorciatoia politica e una spallata al governo.

Mio padre anche in campo calcistico parmense non si lasciava troppo condizionare dai media dell’epoca. L’unica eccezione era la lettura dell’opinione di Curti, pubblicata sul quotidiano locale del lunedì, un commento essenziale ed equilibrato che finiva, quasi sempre, con la solita sconsolata espressione “un’altra partita da dimenticare”. E mio padre chiosava: “Pri tifóz dal Pärma a gh vól la memoria curta”.

Alla fine ingloriosa dei referendum si può sconsolatamente affermare: “un’altra occasione politica sciupata malamente”. Mio padre, ricorderebbe, amaramente e provocatoriamente, un famoso proverbio: “Chi è causa del suo mal pianga se stesso”. Tra il serio ed il faceto, dava però una sua versione: “Chi è causa del suo mal pianga me stesso”. Ed infatti c’è molto di cui piangere sugli altri, ma anche su se stessi!

 

 

 

 

 

 

Giustizia tra codice penale, Costituzione e Vangelo

Chi allora era in prima linea, come l’ex presidente del Senato Pietro Grasso, amico e collega di Falcone, giudice a latere nel primo maxi-processo e poi procuratore nazionale antimafia, oggi non nega di provare, come tutti, «rabbia e indignazione». Ma poi invita a non ragionare “di pancia”, perché – e questa valutazione va tenuta a mente – con Brusca lo Stato ha vinto tre volte: quando lo ha catturato, quando lo ha convinto a collaborare e ora che è un esempio per tutti gli altri mafiosi, mostrando come «l’unica strada per non morire in carcere» (come è accaduto a Totò Riina, Bernardo Provenzano e da ultimo a Matteo Messina Denaro) è quella di confessare e aiutare la macchina della giustizia. Un baratto – notizie, verificabili, su crimini e affiliati in cambio di protezione e sconti di pena – di cui Brusca e altri hanno fruito, non in virtù di un qualche “perdonismo giudiziario”, ma sulla base di una norma dello Stato, forse cinica (sempre che una norma possa esserlo) ma allora come adesso pragmatica e necessaria. (dal quotidiano “Avvenire”)

A margine della liberazione del pentito di mafia Giovanni Brusca, che tanto mediatico scalpore ha suscitato, mi sono imposto alcune scomode riflessioni.

Un primo discorso è quello inerente all’imperfetta umana giustizia, che oscilla tra la vendetta, la deterrenza, il rigore e l’ordine sociale a cui bisognerebbe aggiungere, come imprescindibile premessa, quanto prevede la Costituzione, vale a dire che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, non solo quindi alla punizione, ma anche al recupero e al reinserimento sociale.

Sono tutte necessarie e sacrosante pie illusioni. Ci può stare quindi benissimo che in certi casi prevalga l’opportunismo sociale rispetto al rigorismo giudiziale.

È quindi inutile, sadico e masochistico indagare sulla reazione delle vittime: non si può pretendere che dimentichino il male ricevuto (solo Dio è capace di questo), non si può pretendere o imporre eticamente il perdonismo, mentre il perdono è un cammino lungo e impervio da lasciare alla coscienza individuale. Ci sono due obiettivi da raggiungere: il bene della società e il recupero del condannato. Vanno combinati insieme, non è facile, ma necessario. Il cosiddetto pentitismo ne è un tentativo, che indubbiamente ha portato a risultati positivi nella lotta alla delinquenza organizzata.

Occorre, senza cavalcare le tigri del rigorismo e del giustizialismo conditi in salsa populista, avere l’umiltà di accettare, come detto, l’imperfezione e la relatività delle leggi, rispettare il ricordo delle vittime e l’atteggiamento dei loro famigliari, abbandonare l’idea dell’accanimento punitivo e valutare le migliori scelte per il bene della società.

Se ci spostiamo dal contesto civile a quello religioso, dal codice civile al Vangelo, dal rigorismo/perdonismo sociale al perdono vero e proprio, dobbiamo fare altre valutazioni. Mi rimetto di seguito al pensiero dell’amico e maestro don Luciano Scaccaglia. “Del perdono, come dell’amore, c’è sempre bisogno; invece la legge del taglione, della vendetta, del castigo punitivo e non redentivo continua a dominare nelle mentalità e nelle strutture. Molti dicono che in alcuni casi perdonare è impossibile. Riporto al riguardo la preghiera di un figlio, il cui padre è stato barbaramente assassinato: «Voglio pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà, perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre labbra ci sia il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri» (Giovanni Bachelet)”.

Non voglio buttare tutto forzatamente in fede cristiana, ma non vedo altra chiave risolutiva al delicatissimo problema se non una preghiera idealistica e realistica ad un tempo: “Quello che non sappiamo pienamente perdonare, tu, Signore, fa’ che pienamente perdoniamo sì che, per amor tuo, amiamo veramente i nemici e devotamente intercediamo presso di te, non rendendo a nessuno male per male e impegnandoci in te ad essere di giovamento a tutti” (dalla parafrasi francescana del Padre Nostro).

 

Il contrappasso geopolitico

Il risultato del ballottaggio presidenziale in Polonia può essere letto come la prima grande vittoria in Europa per le forze vicine a Donald Trump da quando quest’ultimo è tornato alla Casa Bianca. Karol Nawrocki incarna un nazionalismo affine a quello “Maga”, contrapposto al liberalismo pro-europeo del suo rivale Rafał Trzaskowski, battuto con uno scarto minimo in un voto che ha portato alle urne ben il 71% degli elettori.

(…)

L’Europa non è nel suo animo profondo più sovranista di due giorni fa, come non lo sarebbe stata di meno con la vittoria di Trzaskowski, spostando qualche manciata di consensi. Quello che però vedremo sarà l’effetto amplificato di questi minimi cambiamenti nelle urne. L’Ucraina non perderà aiuti, la Ue troverà altri ostacoli al suo funzionamento concorde ed efficiente. Soprattutto, i futuri candidati non sovranisti devono prendere nota che spesso avranno da misurarsi con un ostacolo in più (e non da poco): i nemici di un’Europa libera e non asservita.

Ho citato l’incipit e la conclusione di un interessante articolo di Andrea Lavazza sul quotidiano “Avvenire”, che commenta il quadro politico europeo alla luce della recente affermazione sovranista in Polonia.

L’aria che tira non è delle migliori. La sporca intromissione politica di Donald Trump è solo agli inizi: non so se l’Europa avrà il coraggio politico di resistere. Non voglio esagerare ma l’attuale situazione internazionale si è paradossalmente capovolta rispetto agli schieramenti della seconda guerra mondiale. Gli Usa aiutarono allora l’Europa a riconquistare la democrazia, oggi li stanno aiutando ad andare nel fosso dell’autocrazia. Gli Ebrei furono vittime della più grande catastrofe umanitaria di tutti i tempi, oggi i governanti dello Stato di Israele stanno compiendo un autentico genocidio ai danni della popolazione palestinese. E che dire dei Paesi vittime dell’oppressione comunista che oggi cavalcano politiche di stampo reazionario ai limiti del fascismo.

Siamo in una sorta di contrappasso geopolitico in cui i liberatori si trasformano in oppressori e le vittime diventano persecutori.

Mi corre l’obbligo di tornare con la mente in Scozia ai tempi della Brexit e a un episodio profetico. La propensione scozzese – seppure almeno in parte strumentale rispetto alle loro mire indipendentiste – verso l’Unione europea, sfociò in rabbia e trovò, per ironia del destino, un ulteriore motivo di ribellione nelle parole proferite proprio in Scozia nei giorni del referendum dall’aspirante candidato repubblicano alle presidenziali americane, Donald Trump: «Vedo un reale parallelo fra il voto per Brexit e la mia campagna negli Stati Uniti». Come riferì Pietro Del Re, inviato di Repubblica, nel pub di John Muir a Edimburgo, quando Trump apparve in tv, tutti i clienti si avvicinarono allo schermo. Poi, tutti assieme cominciarono a urlargli insulti di ogni genere, il cui meno offensivo è stato senz’altro pig, porco.

Oggi, nel periodo in cui il subdolo attacco Trumpiano all’Europa si sta facendo sempre più invasivo, i governanti degli Stati europei non hanno il coraggio di urlargli “pig”, ma balbettano qualche giaculatoria europeista o gli prestano molta attenzione se non gli indirizzano addirittura elogi e/o intenti di emulazione.

Stiamo confondendo l’amicizia con la subalternità, il dialogo con la sottomissione, il rispetto con la piaggeria. Stiamo scherzando col fuoco sovranista e dilapidando un patrimonio ideale, culturale e politico storicamente e faticosamente accumulato.

Forse non ci rendiamo conto del disastro politico incombente e assistiamo inerti alla fine del sogno europeista e al tramonto della democrazia di stampo occidentale. Persino la Chiesa Cattolica sembra vacillare di fronte al trumpismo.

Probabilmente non resta che sperare nell’implosione del nuovo “regime” statunitense e nel conseguente misero fallimento dei sovranismi nostrani. Speriamo che non occorrano al riguardo bagni di sangue in senso stretto, ma nemmeno in senso allargato.

Sandrone, nella tradizione del carnevale modenese, è una maschera che rappresenta il contadino, spesso rozzo e ignorante, ma anche scaltro e arguto. “Polonia” è invece la moglie di Sandrone, descritta come donna di casa, legata ai costumi tradizionali, e il cui nome è legato alla figura di Sant’Apollonia. La loro relazione è spesso fonte di divertimento, con Sandrone che cerca di sbarcare il lunario e Polonia che si destreggia con le difficoltà della vita quotidiana.

Come non vedere e temere un’analogia tra queste figure carnevalesche e gli attuali personaggi della scena politica internazionale, con la differenza che mentre a carnevale ogni scherzo vale, in politica ogni scherzo si paga duramente.

 

 

 

La sicurezza neofascista

Al termine di un iter a ostacoli cominciato nel novembre 2023 e dopo essere stato trasformato da Ddl in decreto, diventa legge il provvedimento fortemente voluto dal governo in materia di sicurezza: 39 articoli che introducono 14 nuovi reati e nove aggravanti di delitti già esistenti, oltre a varare un nutrito pacchetto di tutele per le forze dell’ordine, ampliare i poteri dei servizi segreti (seppur in misura nettamente inferiore rispetto alla proposta originale) e vietare la produzione e la commercializzazione della cannabis light.

L’Aula del Senato ha approvato la fiducia chiesta dal Governo sul Dl che detta disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario. I voti a favore sono stati 109, i contrari 69, un astenuto. Il sì alla fiducia sul testo di 39 articoli già approvato dalla Camera costituisce il disco verde parlamentare definitivo sul provvedimento che doveva essere convertito in legge entro il 10 giugno. (ilsole24ore.com)

Non entro nel merito dei singoli reati introdotti o aggravati, mi rifaccio alla sostanziale filosofia di questo provvedimento.

Mio padre, tra il serio e il faceto, ipotizzava di risolvere il problema dell’evasione carceraria apponendo un cartello “chi scappa sarà ucciso”. La logica è quella di incutere paura pensando di rimuovere così i comportamenti trasgressivi. Sbagliatissimo da tutti i punti di vista.

Ma c’è molto di più nel cosiddetto decreto sicurezza: trasformare subdolamente lo stato di diritto in stato poliziesco. Come scrive MicroMega, non resta spazio per la critica né per il dissenso, il reato diventa politico e la politica diventa reato. “Il carcere è sempre stato e sempre sarà la febbre che rivela la malattia del corpo sociale”, scriveva Goliarda Sapienza in L’università di Rebibbia, in cui racconta il periodo della sua carcerazione (racconto al centro del film “Fuori” di Mario Martone, attualmente nelle sale): “Continuare a ignorarlo può portarci a ripetere il comportamento del buon cittadino tedesco che ebbe l’avventura di esistere nel non lontano regime nazista. Come sapevo, con poca spesa di ‘paura’ ho sentito la grande febbre di centinaia di individui eccezionali – politici e no – che solo perché dissentono nei modi che da sempre sono stati quelli primari di dissentire, vengono segregati”.

È in atto una revisione culturale prima che politica: un tempo si diceva “tutto è politica”, oggi si aggiunge “tutto è reato” e, facendo sintesi, si arriva a “tutti i reati sono politici e tutta la politica è reato”. E la democrazia va a farsi benedire…

Non so se sono servite le forti proteste a livello parlamentare, mediaticamente snobbate e ricondotte ad un ridicolo gioco delle parti. È curioso il dibattito politico: quando l’opposizione tace, ci si lamenta e si stigmatizza questo silenzio; se l’opposizione protesta vivacemente, esagera e sbaglia i toni. Allora come la mettiamo? Il problema è che la gente non capisce la gravità di quanto sta succedendo o forse preferisce cavarsela con un’alzata di spalle. Cade nel tranello “sicurezza”.

Pur ammettendo che mia sorella fosse troppo spietatamente realista nel giudicare gli italiani “ancora fascisti”, la cosa rimane vergognosamente attuale e imbarazzante, anche perché, tutto sommato, aveva ragione. La risposta plausibile a tanti problemi la trovo, pensate un po’, nella impietosa analisi che faceva lei riguardo alle magagne del popolo italiano: siamo rimasti fascisti con tutto quel che segue. Sosteneva che gli italiani sono affascinati dall’ «uomo forte». Lei lo diceva con la sua solita schiettezza e in modo poco aulico ed elegante, ma molto efficace: «Gli italiani sono rimasti fascisti». Se è così, il decreto sicurezza va benissimo e l’attuale governo pure.

Il mio impegno politico è storicamente fatto di sfide coraggiose al limite del paradosso, regolarmente perse in casa: militavo infatti nella Democrazia cristiana aderendo all’ala progressista, per la precisione alla corrente di matrice sindacal-aclista. Una gara dura anche se, per certi versi, affascinante. Ero segretario di sezione e durante un dibattito congressuale mi permisi di sostenere l’idea del disarmo della polizia nei conflitti di lavoro: era un periodo caldo a livello di protesta e contestazione studentesca e operaia. La mia provocatoria proposta, che peraltro faceva riferimento ad un disegno di legge, presentato in Parlamento da un esponente della sinistra D.C. (se non erro l’onorevole Foschi) e mai approvato, fece andare su tutte le furie alcuni iscritti, in particolare uno che gridò: “I canòn a la polisìa”. Fu la mia caporetto, da quel momento ebbi vita dura e in poco tempo mi spodestarono democraticamente (?) da segretario.

È detto tutto sulla mia ingenua ma radicale fede democratica, ma anche sulla storia che si ripete, sulle scorciatoie fascisteggianti che ritornano, sull’assoluta necessità di vigilare a salvaguardia della democrazia.

Non dimentichiamo che il fascismo, come tutti i regimi, rispondeva in modo demagogico e populistico al bisogno di ordine, scambiando il disordine con la protesta e viceversa.

Quando mia madre timidamente osava affermare che Mussolini, nonostante tutto, aveva fatto anche qualcosa di buono, mio padre non negava, ma riportava il male alla radice e quando la radice è malata c’è poco da fare.

Anche Giorgia Meloni può avere qualche ragione e fare qualcosa di buono, ma anche per lei il male sta nella concezione di fondo e allora c’è poco da sperare e molto da combattere.

Resistenza (nel cuore e  nel cervello) e Costituzione (alla mano), impongono oggi più che mai una scelta di campo imprescindibile e indiscutibile: sul fascismo nelle sue nuove sembianze non si può scherzare anche se qualcuno tra revisionismo, autocritiche, pacificazione e colpi di spugna rischia grosso, finendo col promuovere il discorso di chi vuole voltare pagina, non capendo che coi vuoti di memoria occorre stare molto e poi molto attenti e che (come direbbe mio padre) “in do s’ ghé ste a s’ ghe pól tornär “.

 

 

 

 

 

La Chiesa soffre mentre il Vaticano s’offre

Nelle stesse ore, Putin ha annunciato di avere avuto la prima telefonata con papa Leone XIV per ringraziarlo «della disponibilità nel risolvere la crisi». Conversazione confermata dalla Santa Sede che ha precisato: «Il Papa ha fatto appello affinché la Russia faccia un gesto che favorisca la pace, ha sottolineato l’importanza del dialogo per la realizzazione di contatti positivi tra le parti e cercare soluzioni al conflitto». Si è parlato, inoltre, «della situazione umanitaria, della necessità di favorire degli aiuti dove necessario, degli sforzi continui per lo scambio dei prigionieri e del valore che in questo senso svolge il cardinale Zuppi». Il Cremlino, da parte sua, ha definito il dialogo «costruttivo, entrambe le parti hanno espresso l’intenzione di proseguire i contatti». Putin si è detto «disponibile a raggiungere la pace attraverso mezzi politici e diplomatici» ma ha accusato Kiev di mancanza di impegno per raggiungere il compromesso. Quanto al dossier degli scambi dei prigionieri, lo zar ha accennato al ritorno dei bambini ucraini con i propri familiari, al centro della missione portata avanti dal cardinale Matteo Zuppi su incarico di papa Francesco. (dal quotidiano “Avvenire” – Lucia Capuzzi)

Durante una campagna elettorale in cui si contrapponevano Berlusconi e Prodi, Roberto Benigni, con la sua impareggiabile verve ironica, disse nel pieno di una trasmissione televisiva della Rai, fregandosene altamente della par-condicio: «Io non sono di parte, ma Berlusconi non mi piace…».  Pur non avendo l’autorevolezza dialettica del grande Benigni, dal momento che, pur ritenendomi un cattolico credente e praticante, me ne frego altamente del religiosamente corretto, provo ad imitarlo: «Seguo l’inizio del pontificato prevostiano con molta attenzione, ma preferisco decisamente Bergoglio…».

Qual è la differenza fra i due papi? Francesco parlava come mangiava anche quando affrontava i problemi più complessi e delicati, Leone parla (ne ho almeno l’impressione) in vaticanese, mettendo la diplomazia prima se non addirittura al di sopra di tutto.

Per entrambi la pace era ed è un’opzione fondamentale, ma si può puntare alla pace dicendo pane al pane e vino al vino oppure limitandosi alle mozioni degli affetti senza affondare i colpi.

Perché in questi anni Putin non ha mai telefonato a papa Francesco? Non credo avesse il timore che gli sbattesse il telefono in faccia, ma probabilmente temeva che lo mettessa a nudo chiedendogli cose e passi concreti. D’altra parte Bergoglio aveva reagito subito all’invasione dell’Ucraina andando, a piedi, all’ambasciata russa, accolto con molta freddezza. Eppure aveva persino ammesso che c’erano state troppo abbaiate occidentali alle porte della Russia. Però aveva esortato il patriarca Kirill a non diventare il “chierichetto” del Cremlino. Aveva lasciato al suo pupillo Zuppi il compito di trattare la questione dei bambini ucraini proprio per non rapportarsi direttamente ad uno dei più grandi macellai di tutti i tempi. Insomma, un modo pragmaticamente evangelico di rapportarsi al “mondo”, badando bene ad essere nel mondo ma non del mondo.

Come mai invece Putin si è scomodato nei confronti di papa Leone? Da grande furbo qual è ha probabilmente capito che l’aria in Vaticano è cambiata, che il Vaticano può stare al gioco trumpiano (un americano a Roma…), che è partita una diplomazia soft che, tutto sommato, può fare a caso suo, che i rapporti della Chiesa cattolica con quella ortodossa a lui asservita possono normalizzarsi.

Forse la mossa putiniana serve a strappare un po’ di benevolenza all’estero e a riconquistare un po’ di consenso all’interno: se il Papa accetta di parlare con me, vuol dire che… senza esagerare però…infatti la Russia si è dichiarata contraria al tavolo vaticano per le trattative di pace… finché si scherza al telefono tutto bene, se si comincia a fare sul serio…

Tornando alle due diplomazie vaticane, apparentemente uguali ma sostanzialmente diverse, premesso che qualsiasi insorgente elemento di novità diplomatica vada comunque salutato con estremo favore, mi permetto di esprimere la mia convinta preferenza verso l’incedere poco diplomatico di papa Francesco rispetto al solito preoccupato e preoccupante perbenismo cattolico che tanti disastri a contribuito a permettere in passato.

Papa Leone XIV, ha introdotto il concetto di “pace disarmata e disarmante” nel suo primo discorso Urbi et Orbi. Questa frase, pronunciata in un contesto di forte corsa agli armamenti, sottolinea un’idea di pace basata sull’umiltà, la perseveranza e la rinuncia alla violenza, sia fisica che verbale. Mi chiedo provocatoriamente: la telefonata scambiata con Putin rientra in questo concetto di pace? Consentire, seppure indirettamente, una sorta di triangolazione tra Usa, Russia e Vaticano non espone la Chiesa al rischio di fare politicamente la parte del vaso di coccio tra i vasi di ferro? Dopo l’improvvisato (?) colloquio in San Pietro di Trump e Zelensky, dopo la frettolosa disponibilità ad ospitare in Vaticano il tavolo delle trattative, dopo la telefonata con Putin, non c’è il pericolo di mondanizzare il ruolo della Chiesa ridotta a pasta frolla politica anziché lievito evangelico?

Mancherebbe soltanto la ciliegina sulla torta vale a dire la partita delle nomine riguardanti la Curia vaticana alla ricerca di nuove sintesi dopo gli anni di scontro tra progressisti e conservatori: una Chiesa politica in tutti i sensi, che cerca il compromesso inevitabilmente anti-evangelico.

In conclusione preferisco una Chiesa che soffre i drammi del mondo da artigiana di pace rispetto ad una Chiesa che s’offre come pasticciera di pace.

 

 

 

 

Un voto poetico di progresso contro l’astensione prosaica di regresso

Usando, a contrariis, il vergognoso anche se legittimo linguaggio di Giorgia Meloni, in occasione dei prossimi referendum andrò al seggio, ritirerò le schede e voterò “sì”.

Gli argomenti a sostegno dell’abrogazione delle leggi in questione – vale a dire normative in materia di lavoro e di cittadinanza – mi sembrano convincenti, inoltre, come sempre inevitabilmente accade, i referendum assumono forti connotazioni politiche e quindi intendo contribuire a dare un messaggio estremamente critico verso l’attuale maggioranza che, manco a dirlo, è schierata per l’astensione.

Questo non significa che voterò “sì” solo per fare un dispetto a La Russa, Meloni, Tajani, Salvini e c., ma per dare un segnale di riscossa politica rispetto ad un andazzo inaccettabile, partendo dalle questioni del lavoro e dell’immigrazione.

Abbiamo celebrato – seppure in modo contraddittorio, in mezzo a parate militari degne di  regimi non democratici, a mega-ricevimenti di dubbio gusto e fanfaronate varie – la festa della Repubblica che è fondata sul lavoro: i costituenti la sapevano lunga e quindi proviamo a tornare al loro senso istituzionale e politico, mettendo il lavoro al centro dell’attenzione, facendone un elemento di crescita e non di precarietà, di certezza e non di rischio, di uguaglianza e non di squilibrio.

Quanto al discorso dell’immigrazione, sforziamoci una buona volta di affrontarlo e impostarlo in modo positivo, offrendo possibilità di piena integrazione anziché brandire ad ogni piè sospinto le armi del respingimento e del rimpatrio.

Le regole sulla flessibilità del lavoro erano state introdotte dal governo Renzi con il rispettabile intento di togliere una serie di lacci e lacciuoli nella legislazione, che si riteneva rappresentassero un freno per lo sviluppo dell’occupazione: obiettivo fallito, perché non si può mercanteggiare, concedendo un lavoro a prezzo di sminuirne la dignità, la certezza e la sicurezza.

Vado quindi abbastanza convintamente alle urne: me lo chiedono le innumerevoli vittime di infortuni sul lavoro, i giovani condannati alla precarietà, i lavoratori a rischio del proprio posto di lavoro, gli stranieri che attendono di inserirsi a pieno titolo nella nostra società. Se questa è demagogia allora accetto la qualifica di demagogo.

Vado a votare per respirare finalmente una boccata di aria democratica in un Paese politicamente alla deriva, in un’Europa sempre più sovranista e inopinatamente collegata agli Usa da un filo nazionalista, in un mondo in guerra dove vige la legge del più forte, dove domina l’egoismo individuale e nazionale, dove si vive male e si muore ancor peggio. Se questa è poetica illusione allora mi sento onorato di ragionare sentimentalmente da poeta e di sfogliare e leggere testardamente il libro dei sogni democratici.

La rifondazione sentimentale

Il sempre più impellente e sconvolgente fenomeno dei femminicidi impone serie riflessioni a tutti, ma soprattutto richiede almeno l’inizio di un’azione di rifondazione culturale sulle macerie di una società che sta divorando le sue figlie.

Nel dibattito, che si apre ad ogni femminicidio sospinto, si scontrano sostanzialmente due tesi apparentemente in contrasto, vale a dire quella della prioritaria, se non addirittura esclusiva, riscoperta del ruolo dell’educazione scolastica orientata sulle relazioni sentimentali e sessuali e quella dell’irrinunciabile e fondamentale recupero del ruolo della famiglia nell’educazione giovanile attorno a cui fare ruotare l’intervento delle altre istituzioni a servizio delle giovani generazioni.

La prima impostazione parte dal presupposto del totale sfasciamento dell’istituto famigliare o quanto meno della sua inadeguatezza ad affrontare quella che ormai si profila come una vera e propria emergenza del nostro tempo; la seconda ritiene che, senza il rigoroso rispetto del ruolo famigliare, si possa finire col trasferire tutto nel freddo laboratorio educativo della scuola a scapito del caldo e problematico vissuto quotidiano.

Non vorrei che questo pur importantissimo dibattito finisse in una disputa simile a quella dei teologi bizantini i quali erano soliti discutere tra di loro sul sesso degli angeli, anche quando i Turchi di Maometto II stavano per espugnare Costantinopoli, ponendo fine all’impero romano d’Oriente.

Anche la politica oscilla fra le due suddette tesi: il governo di destra non crede nell’educazione sessuale e sentimentale nelle scuole, non ci investe sopra risorse umane e finanziarie, la subordina al consenso genitoriale; a sinistra si punta tutto sulla scolarizzazione del problema e sul taumaturgico potere della scuola per mettere i giovani in una dimensione corretta dei rapporti maschio-femmina con una visione moderna e post-patriarcale della società.

Se devo essere sincero non mi rassegno alla insignificanza dell’istituto famigliare. Mia sorella, acuta ed appassionata osservatrice dei problemi sociali, nonché politicamente impegnata a cercare, umilmente ma “testardamente”, di affrontarli, di fronte ai comportamenti strani, drammatici al limite della tragedia, degli adolescenti era solita porsi un inquietante e provocatorio interrogativo: «Dove sono i genitori di questi ragazzi? Possibile che non si accorgano mai del vulcano che ribolle sotto la imperturbabile crosta della loro vita famigliare?». Di fronte ai clamorosi e tragici fatti di devianza minorile, andava subito alla fonte, vale a dire ai genitori ed alle famiglie: dove sono, si chiedeva, cosa fanno, possibile che non si accorgano di niente? Aveva perfettamente ragione. Capisco che esercitare il “mestiere” di genitori non sia facile ed agevole: di qui a fregarsene altamente e delegare il ruolo educativo totalmente alla scuola…

Nello stesso tempo nutro grande fiducia nella scuola nonostante le sue lacune e i suoi difetti. Mio padre si era imposto una semplice ma non banale regola nei rapporti scuola-famiglia: “Mo vót che mi digga quél a un profesór, par poch ch’al nin sapia al nin sarà sempor pu che mi”.

Sbaglia quindi l’attuale ministro dell’Istruzione e del Merito a subordinare l’introduzione dell’educazione sessuale al consenso dei genitori: ci puzza tanto di Dio-Patria-Famiglia, di paura verso una aperta e disincantata impostazione della sessualità e di un ritorno alla mera e rigorosa negazione delle diversità.

Però forse sbaglia anche chi dà per perso il ruolo della famiglia: ci puzza di esagerata laicità e schematicità nell’affrontare problemi educativi molto complessi.

Non voglio banalizzare il discorso, ma penso che gli adolescenti debbano sostanzialmente capire, tramite insegnamenti teorici e testimonianze di vita, che l’amore è una cosa seria. Le ragazze tengano conto che le esperienze sentimentali non sono un semplice flirt “usa e getta”, anche perché nella psicologia maschile esiste la tendenza contraria, vale a dire quella di considerare definitivi e imprescindibili i più precari rapporti e allora si può creare un corto circuito devastante.

I ragazzi imparino che la donna non è una preda, una persona di loro proprietà, che l’amore non è possesso ma dono, non è una conquista ma una ricerca.

I genitori dovrebbero avere questi concetti e valori nel loro Dna e nella loro esperienza esistenziale da trasmettere con l’esempio e la testimonianza; gli insegnanti dovrebbero fornire ai giovani gli elementi di conoscenza culturale e scientifica, una base su cui costruire un comportamento sano nella sua problematicità.

E la religione, siamo sicuri che non abbia niente da insegnare a tutti, giovani, genitori, ministri, uomini di cultura e professori?

Mio padre, non credente o diversamente credente, laico ma non anticlericale, accettava di buon grado che io da ragazzo frequentassi assiduamente la parrocchia. Faceva un ragionamento profondo anche se piuttosto minimalista: riteneva che da quell’ambiente potessi ricevere comunque insegnamenti buoni. Sì, infatti attualmente si sente molto la mancanza di questa sponda nell’educazione dei giovani, pur con tutti i limiti e i difetti che poteva avere.

La famiglia è in crisi profonda, la scuola è dequalificata, la parrocchia è ridotta ai minimi termini: rimangono i social e la discoteca. C’è paradossalmente persino da meravigliarsi che esistano tanti giovani che si dedicano al volontariato, che si battono per un mondo di pace e di solidarietà. Dedicarsi agli altri è un’ottima medicina per prevenire e curare le patologie psico-sociali delle persone, dei giovani in particolare.

Vogliamo provare a fare qualcosa al di là dei pianti dirotti a posteriori, che assomigliano sempre più allo spargimento di lacrime di coccodrillo?