La guerra è sinistra e non di sinistra

La Guerra Russo-Ucraina ha posto la sinistra nuovamente di fronte al dilemma del come comportarsi quando un paese vede minacciata la propria legittima sovranità. Quanti a sinistra hanno ceduto alla tentazione di diventare – direttamente o indirettamente – co-belligeranti, dando vita a una nuova union sacrée, contribuiscono a rendere sempre meno riconoscibile la distinzione tra atlantismo e pacifismo. La storia dimostra che, quando non si oppongono alla guerra, le forze progressiste smarriscono una parte essenziale della loro ragion d’essere e finiscono con l’essere inghiottite dall’ideologia del campo a loro avverso.

La tesi di quanti si oppongono sia al nazionalismo russo e ucraino che all’espansione della NATO non contiene alcuna indecisione politica o ambiguità teorica. Al di là delle spiegazioni – fornite, in queste settimane, da numerosi esperti – sulle radici del conflitto, la posizione di quanti suggeriscono una politica di “non allineamento” è la più efficace per far cessare la guerra al più presto e assicurare che in questo conflitto vi sia il minor numero possibile di vittime. Significa dare forza all’unico vero antidoto all’espansione della guerra su scala generale. A differenza delle tante voci che invocano un nuovo arruolamento, va perseguita un’incessante iniziativa diplomatica.

Inoltre, nonostante essa appaia rafforzata a seguito delle mosse compiute dalla Russia, bisogna lavorare affinché l’opinione pubblica smetta di considerare la più grande e aggressiva macchina bellica del mondo – la NATO – come la soluzione ai problemi della sicurezza globale. Al contrario, va mostrato come questa sia un’organizzazione pericolosa e inefficace che, con la sua volontà di espansione e di dominio unipolare, contribuisce ad aumentare le tensioni belliche nel mondo. (marcellomusto.org/la-sinistra-e-contro-la-guerra)

Non so se sono un pacifista, so soltanto che, come recita la Costituzione, ripudio la guerra e ritengo che non sia nemmeno da prendere inconsiderazione come strumento estremo di difesa.

Il mio bravissimo medico rifiutava categoricamente di rassegnarsi di fronte al decorso delle malattie e non accettava testardamente il detto “non c’è più niente da fare”. Aggiungeva: “C’è sempre qualcosa da fare…” e lo dimostrava con l’impegno e la dedizione a servizio dei suoi ammalati.

Anche di fronte all’incalzare dei venti di guerra si può e si deve sempre tentare di evitare il ricorso alle armi, che non risolve niente per nessuno. L’azione in favore della pace però non deve limitarsi ed iniziare a valle quando le situazioni sono gravemente compromesse, ma va portata avanti a monte contro le ingiustizie che portano alle guerre.

Quante volte mi sono sentito porre l’obiezione relativa al nazifascismo: non si poteva evitare la guerra per sconfiggerlo! Si doveva e si poteva prevenirlo a livello sociale, politico e diplomatico. Invece si pensò di contenerlo con accordi di potere pazzeschi. Quando finalmente ci si svegliò, era troppo tardi. La Resistenza ha il pedigree in ordine, è credibile in quanto partì a monte come lotta politica e civile contro il regime per poi diventare vera e propria guerra di liberazione. Potrà forse essere una lettura storica piuttosto semplicistica, ma credo che corrisponda alla realtà.

Il discorso si ripropone di fronte al nuovo Stalin/Hitler, che invade l’Ucraina e minaccia l’Europa tutta: molti sostengono, anche a sinistra, che non si possa lasciar fare, rinunciare ad aiutare militarmente l’Ucraina e puntare ad un riarmo difensivo per l’Europa.

Mi chiedo: prima che avvenisse l’invasione è stato fatto tutto il possibile per evitarla? Dopo che è avvenuta è stato fatto tutto il possibile per aprire un fronte diplomatico veramente incidente e consistente? È realistica una incombente minaccia bellica russa sull’Europa o è il modo per rimanere in una sistemica e opportunistica logica di guerra?

Altra obiezione è quella della doppia morale, dei due pesi e due misure: contrari all’azione bellica israeliana contro la Palestina e balbettanti di fronte all’aggressione russa all’Ucraina. I due pesi e le due misure per la verità li sta usando soprattutto il governo italiano molto attivo in favore dell’Ucraina e molto latitante sul fronte israelo-palestinese. Non escludo che possa esistere una certa faziosità pacifista: i macellai sono comunque da rifiutare sdegnosamente e le due guerre in questione sono da aborrire nelle coscienze, nelle piazze e nel fare politica.

Temo che il “se vuoi la pace, prepara la guerra” dei romani, stia diventando il “se vuoi difendere il sistema, rassegnati alla guerra” degli europei (per non parlare degli Usa…).

Ho recentemente ascoltato uno stupendo commento alla famosa e apparentemente paradossale regola evangelica del “porgere l’altra guancia”: non è un’assurda virtù, ma un’assoluta necessità. Tutta la storia dell’uomo lo dimostra. Gesù impone a Pietro di rimettere la spada nel fodero, ma non per questo rinuncia alle proprie convinzioni: durante il processo farsa intentato contro di lui, alla guardia del Sommo Sacerdote che lo schiaffeggia, chiede spiegazioni in modo stringente.

Una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: “Così rispondi al sommo sacerdote?” (Gv 18,22). Questa guardia ritiene irrispettose le parole di Gesù che, diversamente da lui, non accoglie passivamente ciò che gli viene chiesto ma ha il coraggio di interrogare e di rinviare l’altro a ciò che già sa, o può sapere.

Questa è una vecchia storia che purtroppo vediamo tutti i giorni ripetersi: ciascuno esercita violenza sull’altro che ritiene in posizione subalterna o quanto meno svantaggiata, ciascuno si sente grande umiliando l’altro, ciascuno nasconde dietro una maschera di straordinaria lealtà all’autorità il suo piccolo io frustrato, che ha bisogno del leader da difendere per sentirsi consistente esercitando violenza sugli altri.

Ma Gesù spezza, come aveva fatto lungo tutta la sua vita, questa catena di violenza e prepotenza e lo fa usando la domanda come un appello alla responsabilità, alla sensatezza di ciò che diciamo e facciamo: “Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gv 18,23). (monasterodibose.it)

Non so se l’essere di sinistra imponga l’essere contrari alla guerra, ad ogni e qualsiasi guerra (per quanto mi riguarda credo proprio di sì!), so che l’essere cristiani, Vangelo alla mano, non consente la guerra se non quella contro l’ingiustizia, la povertà e le discriminazioni di ogni tipo. Qualcuno andrà sicuramente a spulciare nei documenti del Magistero Pontificio e in quelli conciliari per sottilizzare sulle cosiddette guerre difensive (una sorta di ossimoro). Ma fatemi il piacere…

Papa Francesco diceva: «Parlare sempre dei poveri non è comunismo, è la bandiera del Vangelo». Mi permetto di parafrasarlo aggiungendo: «Essere sempre e comunque contro la guerra non è (solo) pacifismo, è cristianesimo».

 

 

 

Migranti carne da ricatto

I Paesi poveri che non cooperano sul fronte dei rimpatri dei propri connazionali potranno vedersi revocate le agevolazioni commerciali Ue. Si tratta di uno dei punti cruciali dell’intesa raggiunta lunedì sera tra il Parlamento Europeo e il Consiglio Ue (che rappresenta gli Stati membri), le due istituzioni legiferanti dell’Unione Europea, per una riforma delle norme sul Sistema generalizzato Ue sulle preferenze sui dazi (Gsp). E cioè le agevolazioni commerciali (dazi zero o fortemente ridotti) per 65 Paesi in via di sviluppo più vulnerabili (per un totale di circa due miliardi di persone). Soprattutto le capitali insistevano per introdurre il criterio della cooperazione sul fronte della riammissione in patria tra quelli già presenti come condizioni per la concessione del Gsp (e cioè rispetto dei diritti umani e dell’ambiente, delle convenzioni internazionali e altro).

Sullo sfondo, la difficoltà degli Stati Ue ad eseguire i decreti di espulsioni: al momento in media nell’Ue solo il 20% dei rimpatri viene effettuato, la causa è soprattutto (ma non solo) il rifiuto di vari Paesi di origine di riprendersi i propri cittadini emigrati irregolarmente in Stati Ue. «Abbiamo chiarito – ha spiegato, per la presidenza di turno Ue, il ministro degli Esteri danese Lars Løkke Rasmussen – che questi vantaggi commerciali devono esser legati al rispetto dei diritti umani, buon governo, protezione ambientale e, per la prima volta, la cooperazione sul rimpatrio dei propri cittadini illegalmente nell’Ue”. Un nuovo tassello, si potrebbe dire, della sempre più avanzata costruzione della “Fortezza Europa” che è sempre più la priorità di Bruxelles e della maggior parte delle capitali. (“Avvenire” – Giovanni Maria Del Re)

Mi sembra un vero e proprio ricatto. Se può avere un senso subordinare gli aiuti e le agevolazioni per i Paesi sotto-sviluppati al rispetto dei diritti umani e delle regole democratiche, condizionarli al rimpatrio degli emigrati non è accettabile dal punto di vista umanitario e controproducente dal punto di vista politico.

Gli emigrati, per clandestini che siano, vengono considerati carne da ricatto, merce di scambio: che colpa hanno loro se nei Paesi di origine non riescono a vivere e forse neanche a sopravvivere? Che senso ha rispedirli brutalmente al mittente ributtandoli nella mischia di fame, guerre, torture, etc. etc.? Che responsabilità hanno se i regimi dei loro Paesi sono più o meno dittatoriali e non rispettano le regole minime nel trattamento dei cittadini? Il problema dei rapporti internazionali e delle migrazioni viene scaricato sulla pelle delle (già)vittime!

Sul piano politico l’indirizzo europeo mi sembra più trumpiano che mai: non lasciamoci trascinare in questa deriva del più forte che detta le regole a suo piacimento. Cosa ne potrà sortire? Un’ Europa chiusa in se stessa e sempre più a rischio immigrazione clandestina e i Paesi sottosviluppati sempre più a rischio dittatura. La politica si fa in positivo e non con le minacce e i fieri accenti.

Sull’argomento c’è stato contrasto tra Parlamento europeo e Consiglio UE: evidentemente qualche parlamentare di Strasburgo si è posto qualche problema. Gradirei sapere come si sono orientati i deputati europei di sinistra: si sono piegati alla realpolitik di Bruxelles? Hanno almeno tenuto accesa la fiaccola europea dei fondatori dell’Unione che si rivolteranno sempre più nelle loro tombe?

A livello europeo così come dei singoli Stati membro non esiste una politica seria a livello migratorio: questa ultima velleitaria impuntatura ne è la riprova. In fin dei conti stanno vincendo i Salvini e i Vannacci tra i sorrisi Durban’s della Von der Leyen e le facce feroci di Orban. E chi difende i diritti dei migranti, peste lo colga!

 

 

I sogni nel cassetto europeo

È ufficiale: Donald Trump non crede più alla Nato, intende disimpegnarsi dall’Europa (che considera un continente in declino) e vuole concentrare le risorse Usa sulle Americhe.  La nuova National security strategy pubblicata dalla Casa Bianca contiene un messaggio scomodo per la Ue: nel momento in cui la guerra preme ai suoi confini, la garanzia americana non è più scontata. Nel documento, che traccia le linee guida della politica americana interna ed estera, emerge infatti con chiarezza che Washington non intende più «reggere da sola l’ordine mondiale» e che sposterà il baricentro della propria presenza militare e politica sull’emisfero occidentale, mettendo il resto del pianeta in secondo piano. Dietro questa svolta c’è un giudizio severo sul futuro dell’Europa, descritta a rischio di «cancellazione di civilizzazione» e di perdita di identità entro vent’anni, per colpa di politiche migratorie, denatalità, burocrazie sovranazionali e «censura della libertà di parola». Gli Stati Uniti spiegano di cercare invece una «stabilità strategica» con Mosca con toni che si avvicinano alle narrative russe e mettono in ombra la principale minaccia militare che l’Europa percepisce mentre subisce incursioni con droni sul proprio spazio di sicurezza. (“Avvenire” – Elena Molinari)

(…)

“Non parlerei di un incrinatura dei rapporti fra Stati Uniti ed Europa, penso che quello che c’è scritto nel documento strategico” degli Usa, “al di là dei giudizi sulla politica europea, alcuni dei quali condivido, come quelli sull’immigrazione che stiamo correggendo, penso che dica con toni assertivi qualcosa che nel dibattito fra Usa e Europa va vanti da molto tempo. E parla di quello che alcuni di noi hanno avuto il coraggio di definire, molto tempo fa, un percorso storico inevitabile” ha detto Meloni, commentando le affermazioni di Donald Trump sulla politica autodistruttiva dell’Europa. (intervista con Enrico Mentana al TgLa7)

I casi sono due: o Donald Trump oltre ad essere un delinquente è anche un deficiente (eventualità piuttosto realistica) oppure costituisce veramente un’enorme mina vagante su cui rischiamo di saltare in aria.   Le due ipotesi si possono anche combinare fra di loro.

Proseguo con le ipotesi: non so se Giorgia Meloni ci sia o ci faccia, se sia opportunisticamente infatuata di Trump (oltre che di se stessa) oppure stia portando (in)coscientemente il nostro Paese in un’autentica deriva europea ed internazionale. Le suddette ipotesi possono anche andare perfettamente d’accordo.

Al pensiero che questi personaggi, volenti o nolenti, possano fare la storia, mi vengono i brividi. Sta tornando a galla, in modo peraltro dilettantesco, ma quindi ancor più pericoloso, la volontà di potenza spartitoria tra Usa e Russia con terzo incomodo la Cina, supportata dall’ignobile connubio fra ideologia cattolica americana e ideologia ortodossa russa.

In questo quadro inquietante non trova posto l’Europa, non tanto per la strategia ricattatoria e marginalizzante di Trump, ma per la crisi di valori di riferimento, per la perdita di identità storico-politica, per il pressapochismo sostanzialmente nazionalista dei Paesi membri della UE, per la dispersione del proprio patrimonio culturale, politico, economico e sociale. Al riguardo il presidente Usa prende atto e favorisce compiaciuto questo suicidio europeo, traendone buoni auspici per le proprie scelte di campo.

Possibile che i governanti dei Paesi europei e i responsabili della Ue non se ne rendano conto? Stanno giocando al tanto peggio tanto meglio? Stanno pensando alle prossime elezioni anziché alle future generazioni? Stanno difendendo lo status quo entro cui vivacchiare? Ritengono che sia meglio l’odierno uovo di Trump della gallina da nutrire e allevare nel tempo con impegno e fatica?

E pensare che in molti pensavano che Giorgia Meloni sarebbe stata sepolta da risate europee e mondiali (ero uno di quelli, lo ammetto). Invece è così bassa la qualità della politica internazionale (al limite dell’inconsistenza) da sopportarla e finanche supportarla. L’inconsistenza meloniana lucra dall’inconsistenza degli altri.

Mio padre si fidava del prossimo con una giusta punta di scetticismo e di ironia. A chi gli forniva un “passaggio” in automobile era solito chiedere: “Sit bon ad guidär”. Naturalmente l’autista in questione rispondeva quasi risentito: “Mo scherzot?!”  E mio padre smorzava sul nascere l’ovvia rimostranza aggiungendo: “Al fag parchè se pò suceda quel, at pos dir dal bagolon”.

Davanti alla triste realtà di chi non sa guidare e si spaccia per provetto autista, non si può che reagire viaggiando sulle proprie gambe, per meglio dire non si può che aggrapparsi alla propria coscienza ed ai sogni per farli diventare realtà.  I sogni danno fastidio e fanno paura: si pensi alla vergognosa polemica contro gli estensori del manifesto di Ventotene. E allora, a maggior ragione, sforziamoci di sognare in grande. Il mondo, nonostante Trump, Putin, Meloni etc. etc. si salverà, la storia la fa qualcun altro che la sa molto più lunga di loro…

 

Parma la trilussiana

Parma conquista la top ten nella classifica sulla qualità della vita del Sole 24 Ore. La nostra città si piazza al decimo posto con un balzo in avanti di ben sedici posizioni rispetto al 2024. “Una classifica che ci soddisfa per la forte crescita di posizioni – sottolinea il sindaco di Parma Michele Guerra- grazie a dei dati su parametri in netto miglioramento. Esce a poche settimane da un’altra rilevazione nazionale che ci poneva alla settima posizione. Significa che la città, il territorio provinciale e un sistema intero che queste classifiche fotografano, sono in buona salute e ben gestite». (Parmatoday)

E se la smettessimo una buona volta con queste graduatorie del cavolo e andassimo a guardare come vive la gente in realtà… A Parma siamo specialisti nel guardarci l’ombelico, viviamo in una sorta di benessere virtuale, di fronte ai problemi siamo bravissimi a girare lo sguardo, a chi chiede aiuto rispondiamo con il certificato di buona condotta.

Il sindaco Guerra si è perfettamente inserito in questo andazzo, gli ha persino dato una parvenza culturale: non l’ho votato e sono soddisfatto della mia scelta. Anche per lui i sondaggi sono molto buoni.

Cosa si può dire? Evviva Trilussa con il suo pollo. Forse i polli siamo noi che crediamo agli asini che volano. Evviva Parma città delle belle statistiche, noi siamo le colonne della virtualità!

Le città italiane hanno molti soprannomi, spesso basati su storia, cultura o caratteristiche fisiche. Tra i più noti ci sono Roma “Città Eterna” e “Caput Mundi”, Venezia “La Serenissima”, Genova “La Superba”, e Bologna “La Dotta”, “La Grassa” e “La Rossa”. Altri esempi includono Firenze “Culla del Rinascimento” e Milano “La Meneghina”. Aggiungiamoci anche Parma, definendola “La trilussiana”.



Così è (anche se non vi pare)

Rasmussen, ex segretario generale Nato: “La pace è lontana, Putin vuole vincere sul campo”. L’ex numero uno dell’Alleanza atlantica: “Serve più pressione su Mosca con gli aiuti militari a Kiev”. (dal quotidiano “La Stampa”)

(…)

Intanto, sul versante politico statunitense, Donald Trump sostiene che la loro impressione sia quella di un Vladimir Putin “desideroso di porre fine alla guerra”, una lettura che contrasta con la chiusura mostrata da Mosca nei colloqui. L’Unione Europea ha reagito alle ultime minacce dello “zar” bloccando completamente l’import di gas russo, anche se resta l’incognita del veto di Viktor Orban. La Nato, che si prepara a uno scenario di mancato accordo, alza il livello di allerta: “Mosca appare sempre più sconsiderata. Si va avanti con armi e sanzioni”. (fanpage.it)

Sono un grande ammiratore di Luigi Pirandello: il suo “così è (se vi pare)” si attaglia perfettamente alla situazione pseudo-diplomatica in essere riguardo alla guerra tra Russia e Ucraina.

I diplomatici in pensione, che forse vedono le cose con maggior distacco, danno una versione drammatica della situazione vocata alla guerra senza soluzione di continuità, fino all’ultimo respiro.

Donald Trump tende invece ad incantare il mondo, basandosi “sull’ogni simile ama il suo simile” e spargendo fiducia in una Russia sotto-sotto orientata a chiudere la guerra.

L’Unione Europea, per convinzione o per convenienza, si attesta sul “si vis pacem para bellum”, continuando a fornire aiuti militari all’Ucraina, ma soprattutto rimpinguando i propri arsenali e allertando i propri eserciti.

La Nato resta fedele alla sua missione di “abbaiare”.  Papa Francesco aveva usato la metafora dell'”abbaiare della Nato” per esprimere la sua preoccupazione che l’espansione della Nato verso la Russia potesse aver contribuito a scatenare il conflitto in Ucraina. In un’intervista al Corriere della sera, aveva affermato che “forse l’ira facilitata dall’abbaiare della Nato alla porta della Russia ha indotto Putin a reagire male”. Non aveva giustificato l’aggressione russa, ma aveva cercato di interpretare il conflitto in una chiave storica e geopolitica, parlando di “imperialismi in conflitto”. Questa interpretazione ha un fondo di verità anche oggi!?

E la Cina? L’oggetto misterioso nel quale mi riduco a sperare (sperànsa di mälvestì ca fâga un bón invèron). I cinesi forse interpretano attualmente la realpolitik nel modo più razionale ed attendibile.

La guerra in Ucraina fa felice la Cina: perché ora Mosca dipende da Pechino. Ruoli ribaltati rispetto al passato: ora è Mosca a dipendere da Pechino e ad acquistare armi e mezzi militari. (dal quotidiano “La Stampa)

Non è più da escludere che nel dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin si inserisca anche la Cina. Rimandate le tariffe, i rapporti con Washington sono più distesi, e “l’amicizia senza limiti” con la Russia rende Pechino un interlocutore privilegiato nel difficile raggiungimento di una tregua con l’Ucraina. (da “Il Fatto Quotidiano)

Fare sintesi è un problema improbo: ognuno ha una sua verità e la pace se ne va. Paradossalmente le residue speranze sarebbero affidate alle reciproche fanfaronate di Trump e Putin. L’unica entità in grado di elaborare una strategia di pace dovrebbe essere l’Europa, che invece oscilla tra l’appiattimento sulla schizofrenia trumpiana, le strizzate d’occhio all’invadenza putiniana e lo sfruttamento delle convenienze economiche che la guerra propone. Non resta che guardare col fiato sospeso alle empatiche intenzioni di Xí Jìnpíng…

La guerra russo-ucraina, come del resto tutte le guerre, dimostra la propria insensatezza etica, ma tende ad autoalimentarsi per forza d’inerzia diplomatica e politica: una guerra che poteva essere prevenuta e scongiurata per tempo e che via via è diventata imprescindibile e infinita.

L’ex-segretario di Stato statunitense Kissinger, pur nella sua lucida e perfida realpolitik, dimostrava che si poteva evitare questo conflitto; l’ex segretario generale della Nato Rasmussen sostiene che, una volta iniziata, questa guerra chi l’ha iniziata la vuole consumare fino in fondo.

La diplomazia rischia di essere la sistematica elaborazione dell’ovvio politico; la politica rischia di perpetuare il sistematico mantenimento degli assetti di potere; le genti rischiano di essere sacrificate sugli altari politico-diplomatici. Io, nonostante tutto, rischio di logorarmi nel mio testardo e irrinunciabile pacifismo.

Per rimanere laicamente con Luigi Pirandello, indosso il berretto a sonagli e resto fedele alla frase chiave: “Io me la voglio portare sana, libera – sgombra”. Questo si riferisce all’ intenzione di preservare la mia reputazione e il mio onore di fronte alle conseguenze di una strisciante guerra mondiale.

Volendo guardare in alto e facendomi forza col pensiero di Giorgio La Pira, non mi resta che togliermi il berretto di cui sopra e, a capo scoperto, pregare. La politica è la più grande espressione di carità cristiana. La preghiera è il più forte baluardo contro la violenza umana.

 

Papocchio 3.0 L’impertinente speranza nell’antipapa Leone

Durante la visita di papa Leone XIV al Quirinale mi sono molto commosso ripensando alla sobrietà cerimoniale osservata da papa Francesco in simili occasioni: tutto cambiato, tutto riportato alla tradizionale stucchevole pompa. Qualcuno mi critica perché continuo ad insistere su questa discontinuità tra i due papi. Sì, lo faccio perché mi sento defraudato di un patrimonio di semplicità e povertà di stile, acquisito durante il papato bergogliano: sono un figlio che ha l’impressione di assistere allo scialacquamento dell’eredità paterna. Il mio cuore batte così anche se il cervello mi consiglia di aspettare con pazienza i contenuti dottrinali che si prospettano molto interessanti e quelli pastorali ancora tutti da scoprire, non fermandomi ai gesti ed agli atteggiamenti iniziali.

Ho provato quindi in questi giorni a mettere da parte il bicchiere mezzo vuoto della mia verve ipercritica rispetto al papato di Leone XIV per guardare al bicchiere mezzo pieno di un pontificato che potrebbe segnare, nel bene e nel male, l’inizio della fine del papismo.

È indubbio come da Giovanni Paolo II in poi l’identità cattolica si sia espressa quasi esclusivamente nell’azione pastorale del papa: chi dice Chiesa dice papa e viceversa.

Io, ad esempio tanto per rendere l’idea, ho una originale opinione riguardo all’atteggiamento dei papi verso la Curia e gli intrighi vaticani: Paolo VI soffriva, si macerava e poi si arrendeva all’impossibilità del cambiamento; Giovanni Paolo I somatizzò il dramma al punto da morirne in pochi giorni; Giovanni Paolo II se ne fregò altamente, andò per la sua strada, si illuse di cavare anche un po’ di sangue dalle rape; Benedetto XVI ci rimase dentro alla grande e gettò opportunamente la spugna; papa Francesco ha scelto coraggiosamente di brandire e usare, oserei dire esclusivamente, l’arma evangelica facendo scoppiare le contraddizione nelle coscienze.

Quando constato come tanti papi siano diventati o stiano diventando Santi, mi viene qualche dubbio. Pur con tutto il rispetto, temo che nell’aldilà troveremo parecchie novità, riguardo alla nostra vita e a quella della Chiesa.

La mia consolatoria e un tantino maliziosa speranza è che il papato di Leone XIV sia talmente poco carismatico e profetico, ma così umile e disponibile, da innescare un meccanismo di relativizzazione papale a vantaggio di una forte attenzione e di un concreto coinvolgimento di tutte le esperienze comunitarie in atto, talvolta assai nascostamente, nella Chiesa.

In questa nuova logica, finalmente conciliare e sinodale, ci troveremmo a fare i conti con una rischiosa ma benefica vivacità di idee e proposte incarnate in diverse esperienze di vita cristiana, che si allargherebbero oltre la sempre più ristretta cerchia clericale.

E, per dirla tutta, nemmeno molti uomini di Chiesa riescono a far brillare la bellezza di Dio. Più che testimoni, spesso sembrano burocrati del sacro, funzionari di un’agenzia extraterrestre che promette viaggi premio in un altro mondo. (da una recente omelia di don Umberto Cocconi)

Forse verrebbe superata la ormai sterile parrocchialità a favore del fecondo impegno nel sociale; forse cadrebbe il dramma della crisi delle vocazioni religiose per puntare sul rimescolamento delle vocazioni e delle ordinazioni; forse il ruolo della donna verrebbe veramente riconosciuto e valorizzato; forse il sesso entrerebbe positivamente nella condizione esistenziale di tutti i cattolici; forse diventerebbe normalità quanto testimoniato dal cardinal Martini così come ricordato nel terzo anniversario della sua morte.

«Tre anni or sono moriva il card. Carlo Maria Martini, grande studioso della Bibbia, pastore e profeta. Sulle orme di Gesù, partendo dalla giustizia quale conseguenza della fede, era aperto alle persone, non facendosi mai imprigionare dagli e negli schemi,  con una grande attenzione ai non credenti, ai poveri, ai malati, agli indigenti, agli stranieri, agli omosessuali, alle coppie di fatto, ai divorziati risposati, ai detenuti, financo ai terroristi; affrontava serenamente il dialogo con le altre religioni, si poneva, a cuore aperto, davanti alle problematiche sessuali, alla bioetica, all’eutanasia, all’aborto, all’accanimento terapeutico, all’uso del preservativo, al sacerdozio femminile, al celibato sacerdotale. Sempre pronto all’incontro con gli “altri”, con tutti» (Luciano Scaccaglia ricorda il Cardinale Carlo Maria Martini)

Finirebbe una buona volta il clericalismo di preti e laici: ricordiamoci che Gesù non era un prete…

Mi illudo (?) cioè che possa terminare la visione unilaterale e verticistica del “papacentrismo”: la Chiesa Cattolica è una comunità ed al suo interno esistono carismi (servizi) fra i quali c’è anche quello del Vescovo di Roma. A tutti i livelli, la Chiesa deve esprimere, all’interno e all’esterno, la piena e totale adesione allo stile evangelico, liberato dalle incrostazioni della tradizione e dai lacci dell’esercizio del potere. Quindi la procedura delle scelte deve essere rivista sostanzialmente e formalmente in un bagno di partecipazione e condivisione coinvolgente: bisognerebbe partire dall’assoluto primato della dimensione  pastorale rispetto a quella istituzionale; al centro dello stile ecclesiale si dovrebbe porre la collegialità episcopale; la vita dell’istituzione e la stessa pastorale andrebbero sclericalizzate, liberate dall’affarismo, ridotte all’essenziale in senso economico ed organizzativo e subordinate alle esigenze evangeliche; occorrerebbe puntare al forte coinvolgimento del laicato ed alla imprescindibile valorizzazione della presenza femminile.

Al di là dei limiti legati alla persona del papa sottratto alla (s)comoda infallibilità, bisogna prendere coscienza della fragilità cronica di una Chiesa incapace di leggere i segni dei tempi e di andare incontro ai problemi dell’uomo, della donna, della società, del mondo. Il fatto strano non è l’autocoscienza della fatica di un papa, ma il vero dramma è una Chiesa capace solo di succhiare il latte dalle mammelle più o meno floride del successore di Pietro, che aspetta sempre il “la papale” per suonare e cantare qualsiasi motivo musicale,  che si piange addosso, che si guarda l’ombelico, che arranca rispetto alle sfide del mondo contemporaneo, che si rifugia nello sterile dogmatismo e nel penoso rigorismo, che si limita a rammaricarsi della scarsità degli operai nella vigna e della propria appassita capacità all’impegno evangelico, che vive spesso di campanilismo ecclesiale o di retrograda contrapposizione alla modernità, che non rispetta la laicità dello Stato, che si compromette col potere, che difende ipocritamente la vita con i principi irrinunciabili senza condividere i drammi delle persone.

Occorre finalmente un colpo di reni evangelico raccogliendo le provocazioni del Concilio Vaticano II e sviluppando la debole ma vitale testimonianza di papa Francesco e magari approfittando degli spazi concessi da un discreto e delicato papa Leone: la collegialità vissuta come partecipazione di tutti, la centralità del Popolo di Dio, l’apertura al ruolo della donna nella pastorale e nei sacramenti, una visione nuova e gioiosa della sessualità nel rispetto delle tendenze personali e intime e, soprattutto, una Chiesa povera, trasparente a livello economico, esperta in comprensione, quella di Gesù, e non in condanne e anatemi.

La forte presa di coscienza ed il coraggio del dialogo interno ed esterno in stile comunitario saranno il miglior viatico per promuovere un rinnovamento di metodo e di merito. La Chiesa ha bisogno di cambiare. Non basta pregare e tacere. Credere e obbedire al papa. Ogni cristiano ed ogni comunità deve portare il proprio contributo critico alla vita della Chiesa. All’attesa si devono accompagnare la riflessione, la provocazione, la protesta, la proposta, l’impegno, la testimonianza, la condivisione.

 

 

 

 

Papocchio 2.0 = Prevost-Meloni

Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera): Sono ore di grande tensione tra la Nato e la Russia, si parla di guerra ibrida, prospettive di cyber attacchi e cose del genere. Lei vede il rischio di una escalation, di un conflitto portato avanti con nuovi mezzi come denunciato dai vertici Nato? E, in questo clima, ci può essere una trattativa per una pace giusta senza l’Europa che è stata in questi mesi sistematicamente esclusa dalla presidenza americana?

Papa Leone XIV: Questo è un tema evidentemente importante per la pace nel mondo, però la Santa Sede non ha una partecipazione diretta perché non siamo membri della Nato e di tutti i dialoghi finora. Anche se tante volte abbiamo chiesto il cessate il fuoco, dialogo e non guerra. E una guerra con tanti aspetti adesso, anche con l’aumento delle armi, tutta la produzione che c’è, cyber attacchi, l’energia. Ora che arriva l’inverno c’è un problema serio lì. È evidente che, da una parte, il presidente degli Stati Uniti pensa di poter promuovere un piano di pace che vorrebbe fare e che, almeno in un primo momento, è senza Europa. Però la presenza dell’Europa importante e quella prima proposta è stata modificata anche per quello che l’Europa stava dicendo. Specificamente penso che il ruolo dell’Italia potrebbe essere molto importante. Culturalmente e storicamente, la capacità che ha l’Italia di essere intermediaria in mezzo a un conflitto che esiste fra diverse parti. Anche Ucraina, Russia, Stati Uniti… In questo senso io potrei suggerire che la Santa Sede possa incoraggiare questo tipo di mediazione e si cerchi e cerchiamo insieme una soluzione che veramente potrebbe offrire pace, una giusta pace, in questo caso in Ucraina. (dalla conferenza stampa di Papa Leone XIV durante il volo di ritorno dal Libano verso Roma)

Dopo la sviolinata a Erdogan, ecco l’assist al governo italiano. Mi chiedo: non si è accorto il Papa che l’Italia a livello internazionale è molto fumo e poco arrosto, che non ha né il coraggio, né la capacità, né la credibilità per intromettersi seriamente nelle trattative di pace?

Sarò prevenuto e sospettoso (chiedo scusa per la mia sgarbata impertinenza e per la scarsa deferenza), ma continuo a intravedere mosse diplomatiche piuttosto avventate e alquanto discutibili di Papa Leone XIV. Questa volta gli consiglierei, prima di parlare, di confrontarsi riservatamente con Sergio Mattarella. È lui l’unico interlocutore serio ed attendibile a livello italiano e, oserei dire, anche a livello europeo.

Non sono sicuro di avere capito bene. Se ho capito male, chiedo umilmente scusa: resta comunque in me la sensazione di pericolosa improvvisazione. Il Papa pensa che la Santa Sede e l’Italia possano cercare insieme soluzioni di pace per l’Ucraina? Santità, guardi che la politica è come la musica: bisogna capirla! E con chi vorrebbe concordarla questa azione? Col ministro Tajani? Ma mi faccia il piacere… Con la premier Meloni? È in tutt’altre tattiche impegnata, vale a dire a leccare i piedi a Trump (mi sono contenuto…)!

Ripeto: prima di parlare a vanvera ascolti i consigli del nostro Presidente della Repubblica e poi magari conti fino a dieci. Il consiglio vale a maggior ragione se intendeva ipotizzare un’azione concordata tra Santa Sede ed Europa. Sempre più difficile, come dicono in ambienti circensi.

E il suo Segretario di Stato cosa ne dice? Forse ne capisce un po’ di più. Se non ha fiducia in lui, lo sostituisca, ma tenga fede al buon proposito di agire con un gioco di squadra, almeno con i cardinali, che l’hanno eletta o che comunque hanno le mani in pasta. Faccia quattro chiacchiere magari con il cardinale Zuppi, che sta dimostrando di avere, oltre una importante esperienza acquisita sul campo, una notevole preparazione diplomatica e idee chiare e concrete sul ruolo umanitario e non politico della Santa Sede.

 

 

Il papocchio Prevost-Erdogan

Seyda Canepa, della televisione turca: “Santità, con il presidente Erdogan, al di là delle dichiarazioni ufficiali, avete parlato della situazione a Gaza visto che il Vaticano e la Turchia ha la stessa veduta sulla soluzione dei due popoli, due Stati? E poi sull’Ucraina, il Vaticano più di una volta ha sottolineato il ruolo della Turchia a cominciare dall’apertura del corridoio del grano all’inizio del conflitto. Quindi, vede le speranze per una tregua in Ucraina e per un processo di pace più veloce a Gaza in questo momento? Grazie mille”.

Papa Leone XIV: “Grazie! Certamente abbiamo parlato di tutte e due le situazioni. La Santa Sede già da diversi anni pubblicamente appoggia la proposta di una soluzione dei due Stati. Sappiamo tutti che in questo momento ancora Israele non accetta questa soluzione, ma la vediamo come unica soluzione che potrebbe offrire – diciamo – una soluzione al conflitto che continuamente vivono. Noi siamo anche amici di Israele e cerchiamo con le due parti di essere una voce mediatrice che possa aiutare ad avvicinarci a una soluzione con giustizia per tutti. Abbiamo parlato di questo con il presidente Erdogan, lui certamente è d’accordo con questa proposta. La Turchia ha un ruolo importante che potrebbe giocare in questo. Lo stesso con l’Ucraina. Già qualche mese fa con la possibilità di dialogo tra le parti Ucraina e Russia, il presidente ha aiutato molto a convocare le due parti. Ancora non abbiamo visto purtroppo una soluzione, però oggi di nuovo ci sono proposte concrete per la pace. E speriamo che il presidente Erdogan con il suo rapporto con il presidente di Ucraina, della Russia e degli Stati Uniti, possa aiutare in questo senso a promuovere il dialogo, il cessate il fuoco e vedere come risolvere questo conflitto, questa guerra in Ucraina. Grazie”. (Conferenza stampa di Papa Leone XIV nel volo da Istanbul a Beirut)

 L’allora presidente del consiglio Mario Draghi nel 2001 si espresse in questi termini sul presidente turco Erdogan, scatenando una dura reazione: «Con questi dittatori, chiamiamoli per quello che sono, di cui però si ha bisogno per collaborare, uno deve essere franco nell’esprimere la propria diversità di vedute e di visioni della società e anche pronto a cooperare per assicurare gli interessi del proprio Paese, bisogna trovare l’equilibrio giusto».

E qual è il giusto equilibrio? Papa Leone sembra averlo trovato nel considerare Erdogan una sorta di interlocutore privilegiato del Vaticano per affrontare le gravi crisi belliche in Palestina e in Ucraina. Mi sembra un tantino azzardato. Capisco il bon ton diplomatico, apprezzo la volontà di dialogo, ma tutto ha un limite…

In una recente intervista, rilasciata a Corrado Augias nell’ambito della trasmissione “Torre di Babele” su La7, il cardinale Zuppi ha fatto riferimento all’azione del Vaticano per la pace in Ucraina: un impegno umanitario volto allo scambio dei prigionieri, in primis i bambini. Non sarebbe meglio limitarsi all’ambito umanitario e lasciar perdere la politica internazionale, laddove gli interlocutori sono uno peggio dell’altro. Sarebbe un po’ come se Gesù, anziché predicare le Beatitudini, si fosse messo ad auspicare la mediazione fra gli Israeliani e i Romani facendosi sponda su Erode.

La Santa Sede faccia il suo mestiere usando il linguaggio evangelico del sì-sì no-no, perché il di più viene dal maligno, peraltro incarnato dai loschi personaggi che dominano la scena mondiale.

Se proprio papa Prevost intende imbarcarsi nelle avventure diplomatiche, gli consiglierei un corso accelerato in materia, scegliendo come maestri tre suoi predecessori: papa Roncalli, che costruiva autentici capolavori nell’umanizzazione della diplomazia; papa Montini, che conosceva la politica meglio dei politici a cui era in grado di tenere testa; papa Bergoglio, che non risparmiava dissensi e provocazioni ai potenti della terra. Facendo magari una capatina nella storica eredità di Giorgio La Pira, che sapeva dialogare con tutti ma tenendoli sulla corda evangelica.

 

 

Le pietre dei contestatori e i peccati dei massacratori

La «ferma condanna» di Sergio Mattarella non spegne la polemica sull’assalto pro-pal alla redazione della Stampa, che deflagra definitivamente dopo il commento di Francesca Albanese, relatrice Onu per la Palestina. Mentre proseguono le manifestazioni contro il provvedimento di espulsione ai danni dell’imam di Torino, Mohamed Shahin, parte delle “ragioni” addotte dai responsabili per l’irruzione negli uffici del quotidiano. Albanese, in realtà, ha condannato con decisione la violenza ai danni del giornale torinese («occorre giustizia per quello che è successo»). Ma ha anche auspicato che quanto avvenuto venga preso come un monito dai giornalisti che «non fanno il proprio lavoro» e riportano notizie «senza un minimo di analisi e contestualizzazione». «Perché non avete coperto quello che è successo a Genova e in altre città italiane? Sono in tantissimi a essere scesi in piazza – ha incalzato a margine di un evento del Global movement to Gaza per la Giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese –. Il genocidio continua anche grazie a questo silenziamento della verità. Non è normale che la stampa non stia raccontando cosa succede in Palestina dal giorno del cessate il fuoco». (da “Avvenire” – Matteo Marcelli)

Alla notizia dell’assalto alla redazione de “La Stampa”, nel mio piccolo, ho reagito facendo lo stesso ragionamento di Francesca Albanese. È inutile nasconderlo: sul massacro israeliano ai danni del popolo palestinese siamo succubi di una narrazione molto parziale e faziosa, quella che fa risalire tutte le responsabilità all’attacco di Hamas. I media, chi più chi meno, ci forniscono una versione sostanzialmente di parte e subdolamente filo-israeliana.

Non scandalizziamoci più di tanto quindi se qualcuno reagisce scompostamente, sbagliando magari il bersaglio, lanciando sbrigativamente pietre contro chi non è tuttavia senza peccato e rischiando di cadere nella protesta indistinta e violenta.

Basti pensare ai vergognosi distinguo fra genocidio e massacro, basti guardare a come Benjamin Netanyahu continui imperterrito a pontificare e a bombardare, basti fare riferimento a tutti i se e i ma occidentali di fronte alla carneficina nella striscia di Gaza, basti prendere atto delle scarsissime iniziative europee contro questa folle, cinica e, per certi versi, persino masochista vendetta israeliana.

I contestatori non vanno per il sottile, sparano nel mucchio mediatico e forse sbagliano il bersaglio, ma la loro reazione è comprensibile anche se giustificabile solo dal punto di vista emotivo. Di fronte al massacro dei palestinesi è certamente esagerato assaltare la sede di un giornale, ma è altrettanto inaccettabile il (quasi) silenzio dei governanti occidentali e italiani così come la versione a dir poco faziosa di certi media (non tutti, ma molti).

Non accetto quindi la strumentale criminalizzazione della contestazione, speculando sulla violenza di alcuni gruppi: non sono mai stato e non sarò mai un violento, credo che alla violenza si dovrebbe reagire con la forza della ragione, anche se, come dichiara Francesca Albanese, il silenziamento della verità è pure violenza a cui alcuni reagiscono con la violenza.

D’altra parte i rapporti tra israeliani e palestinesi sono da sempre improntati alla violenza: dopo quello che sta succedendo come si potrà mai invertire questa tendenza, come si potrà chiedere ai giovani palestinesi di soprassedere alla vendetta, come si potrà arrivare ai “due popoli – due Stati”.

Nel 2006, durante gli attacchi Hezbollah a Israele, in una seduta del Senato Italiano il senatore a vita Giulio Andreotti disse: “Ognuno di noi se fosse nato in un campo di concentramento e da 50 anni fosse lì e non avesse alcuna prospettiva di poter dare ai propri figli un avvenire sarebbe un terrorista”.

È facile condannare la violenza senza chiedersi le sue motivazioni. Il discorso vale anche oggi in riferimento ai seguaci di Hamas: cosa dovrebbero fare i palestinesi maltrattati sistematicamente dagli israeliani e penosamente governati dai propri dirigenti corrotti e incapaci?

Mi permetto di allargare il discorso ben consapevole dei rischi culturali che corro: cosa dovrebbero fare i contestatori pro-pal che intendono reagire ad una opprimente ed asfissiante valanga di falsità politiche e mediatiche tendenti all’omertà o all’indifferenza di fronte all’eccidio di un popolo?

Ognuno dia la sua risposta, che però non può essere quella del mero perseguimento giudiziario e della comminazione delle pene conseguenti per i trasgressivi contestatori. Non è giusto esigere la non violenza solo dai contestatori. Sì, il bastone per chi contesta con violenza e la carota per chi massacra i palestinesi.

 

Un ministro della guerra e…un papà della pace

“Reintrodurre in Italia un nuovo servizio militare, come in Francia e in Germania? Se lo deciderà il Parlamento sì”. Parola del ministro della Difesa Guido Crosetto secondo il quale “va fatta una riflessione sul numero delle forze armate, sulla riserva che potremmo mettere in campo in caso di situazioni di crisi”. Crosetto pertanto vuole tornare a discutere di servizio militare con una proposta con la reintroduzione della leva su base volontaria e non obbligatoria, specifica. Mentre la Francia annuncia il ripristino di 10 mesi di leva e la Germania mette in campo una serie di novità per potenziare l’esercito (con l’obiettivo di diventare “il più forte in Europa entro il 20229”), in Italia è il ministro della Difesa a “scaldare le truppe” provocando le critiche dei partiti di opposizione.

Da Parigi – dove ieri ha incontrato la sua omologa francese, Catherine Vautrin – Crosetto spiega che “se la visione che noi abbiamo del futuro è una visione nella quale c’è minore sicurezza, una riflessione sul numero delle forze armate va fatta”. Per questo annuncia che proporrà, prima in Consiglio dei ministri e poi in Parlamento, “una bozza di disegno di legge da discutere che garantisca la difesa del Paese nei prossimi anni e che non parlerà soltanto di numero di militari ma proprio di organizzazione e di regole”. Per Crosetto anche l’Italia deve muoversi a causa di un futuro che definisce “meno sicuro”: “Tutte le nazioni europee, mettono in discussione quei modelli che avevamo costruito 10-15 anni fa e tutti stanno pensando di aumentare il numero delle forze armate”. In passato, osserva, “abbiamo costruito negli anni scorsi modelli che riducevano il numero dei militari”. “Anche noi in Italia – ribadisce il ministro – dovremmo porci il tema di una riflessione che in qualche modo archivi le scelte fatte di riduzione dello strumento militare e in qualche modo porti a un suo aumento”.

“Ognuno ha un suo approccio diverso, alcuni hanno addirittura ripristinato la leva”, spiega Crosetto. Per il ministro le scelte andranno prese in Parlamento: “Le regole nel settore della difesa – dice – devono essere il più condivise possibile e nascere proprio nel luogo di rappresentazione del popolo”. Per questa ragione “più che un decreto legge, penso a una traccia che il ministero della Difesa porterà in Parlamento perché venga discussa, aumentata e integrata e in qualche modo costruisca uno strumento di difesa per il futuro”. Anche il governo italiano, pertanto, intende potenziare il suo esercito. (da “Il Fatto Quotidiano”)

Leggendo questa notizia sono rimasto letteralmente sbigottito. Il demenziale “si vis pacem para bellum” non ha limiti. L’Europa, forse per darsi una parvenza di importanza, forse per fare affari, forse per raggiunti limiti di ragionevolezza, gioca a sentirsi sotto attacco e a reagire col riarmo e con il potenziamento degli eserciti nazionali.

Per riprendermi dallo smarrimento cedo la parola a mio padre, riportando uno stralcio del libro che gli ho dedicato.

“Per chiudere con gli …. ismi poche battute sul militarismo. Mio padre aveva fatto il servizio militare con spirito molto utilitaristico ed un po’ goliardico (per mangiare perché a casa sua si faceva fatica), cercando di evitare il più possibile tutto ciò che aveva a che fare con le armi (esercitazioni, guardie, tiri, eccetera) a costo di scegliere la “carriera” da attendente, valorizzando i rapporti umani con i commilitoni e con i superiori, mettendo a frutto le sue doti di comicità e simpatia, rispettando e pretendendo rispetto aldilà del signorsì  o del signornò.

Raccontava molti succosi aneddoti soprattutto relativamente ai rapporti con il tenente cui prestava servizio.

Aveva vissuto quel periodo come una parentesi nella sua vita e come tale l’aveva accettato, seppure con una certa fatica.

Mio padre era estraneo alla mentalità militare, ne rifiutava la rigida disciplina, era allergico a tutte le divise, non sopportava le sfilate, le parate etc., era visceralmente contrario ai conflitti armati.  Quando capitava di ascoltare qualche notizia riguardante provocazioni fra nazioni, incidenti diplomatici, contrasti internazionali era solito commentare: “S’ag fis Mussolini, al faris n’a guera subita. Al cominciaris subit a bombardar”. 

Era una lezione di politica estera (sempre molto valida, più che mai in clima di unilateralismo, di guerra preventiva, etc.) e di antifascismo (bollando il regime per quello che era e non revisionandolo strumentalmente).

Ogni volta che sentiva notizie sullo scoppio di qualche focolaio di guerra reagiva auspicando una obiezione di coscienza totalizzante.

Mo s’ pól där ch’a gh’sia ancòrra quälchidón ch’a pärla äd fär dil guèri?

E con questo interrogativo molto più profondo di quanto possa sembrare avrei terminato il capitolo relativamente agli insegnamenti ed alle testimonianze paterne in materia politica”.

È detto tutto. Era l’altro ieri e sembra oggi, magari addirittura domani!