La strana virtù della regolarità

«È un miracolo di Natale». Sono le parole pronunciate dal proprietario del portafogli smarrito e riconsegnato qualche ora dopo da un migrante. Il proprietario, quando i vigili lo hanno chiamato per dirgli che il portafogli era stato ritrovato e restituito, pieno di tutto il denaro, più di 500 euro in contanti, documenti e carte di credito, era incredulo. La storia arriva da Foggia, la sera di Santo Stefano.

Chi ha ritrovato il portafogli è un migrante 46enne di origini marocchine, regolare sul territorio. Si trovava nei pressi di un istituto di credito in pieno centro cittadino a Foggia, nella zona di corso Vittorio Emanuele, quando ha notato sul marciapiedi il borsellino contenente numerose banconote, una somma di oltre 500 euro, oltre a documenti e carte di credito.

Non ci ha pensato due volte e lo ha consegnato ad una pattuglia della polizia locale. Nel porgerlo, solo poche parole: «Ho trovato questo portafogli. Ve lo consegno perché lo possiate restituire al proprietario» hanno riferito i vigili, testimoni del gesto.

Grazie ai documenti contenuti nel portafogli, gli agenti sono risaliti all’identità del legittimo proprietario e lo hanno contattato per dargli la bella notizia. Tornerà a Foggia per ritirare il portafogli presso il comando della polizia locale. «Sembra una storia di Natale. Ma è tutto vero. Troviamo chi, pur non navigando nell’oro, non ci ha pensato su due volte e ha restituito quello che non era suo. Un bel gesto», è stato il commento del comandante della polizia locale di Foggia, Vincenzo Manzo.

«È un gesto semplice, ma potente – ha sottolineato il comitato “Difendiamo il quartiere ferrovia” -. Un gesto che ricorda a tutti una verità spesso dimenticata: l’onestà non ha colore, nazionalità o religione. Le persone perbene esistono ovunque e vanno riconosciute, rispettate e valorizzate. Chi si comporta così, chi rispetta le leggi e gli altri, è il benvenuto. Raccontare anche queste storie è importante. Perché la sicurezza si costruisce anche riconoscendo e difendendo i valori giusti». (“Avvenire” – Redazione)

E allora come la mettiamo col luogo comune e politico che identifica gli immigrati con i delinquenti che mettono a soqquadro la nostra sicurezza? I sostenitori di questa autentica cazzata razzista avranno sicuramente pronta la risposta: era un immigrato regolare, sono gli irregolari che ci disturbano e delinquono. Già, è vero, me ne ero dimenticato…

Se dovessimo eliminare tutti gli irregolari che occupano il territorio, forse rimarremmo in pochi. Pensiamo a tutti gli evasori fiscali e previdenziali, ai corrotti ed ai corruttori, agli esportatori di capitali all’estero, etc. etc.

La regolarità è un concetto relativo e fazioso. È più irregolare un immigrato clandestino che cerca di sopravvivere all’ingiustizia che lo perseguita o un italiano che naviga nell’oro e non paga le tasse creandosi magari l’alibi con il fatto che lo Stato aiuta e difende (?) i poveri diavoli?

 

Il Natale di Zelensky non è proprio quello di Gesù

Zelensky ha salutato gli ucraini alla vigilia di Natale, affermando che, “nonostante tutte le sofferenze che ha portate”, la Russia non è in grado di “occupare” ciò che più conta: l’unità dell’Ucraina.

Zelensky si è anche augurato la morte di Putin, senza chiamare esplicitamente il presidente russo per nome, definendola un “sogno condiviso” degli ucraini.

“Celebriamo il Natale in un momento difficile. Purtroppo, non tutti siamo a casa stasera. Purtroppo, non tutti hanno ancora una casa. E purtroppo, non tutti sono con noi stasera. Ma nonostante tutte le sofferenze portate dalla Russia, non è in grado di occupare o bombardare ciò che più conta. Questo è il nostro cuore ucraino, la nostra fiducia reciproca e la nostra unità”, ha detto Zelensky. “Oggi condividiamo tutti un sogno. Ed esprimiamo un desiderio, per tutti noi. ‘Che muoia’, ognuno di noi potrebbe pensare tra sé e sé. Ma quando ci rivolgiamo a Dio, ovviamente, chiediamo qualcosa di più grande. Chiediamo la pace per l’Ucraina. Lottiamo per essa. E preghiamo per essa. E la meritiamo”, ha detto Zelensky nel suo discorso per la vigilia. Nel suo discorso, Zelensky ha anche affermato che in questo momento gli ucraini pregano per tutti coloro che sono in prima linea: che tornino vivi. Per tutti coloro che sono prigionieri: che tornino a casa. Per tutti i nostri eroi caduti che hanno difeso l’Ucraina a costo della loro vita. Per tutti coloro che la Russia ha costretto all’occupazione e alla fuga. Per coloro che stanno lottando ma non hanno perso l’Ucraina dentro di sé, e quindi l’Ucraina non li perderà mai”. (ANSA.it)

La guerra è sporca! È talmente sporca da imbrattare anche il Natale. Il messaggio augurale di Zelensky porta in sé la patriottica sofferenza di un popolo e il nobile auspicio per una pace giusta. Peccato per quella grave stonatura dal sen fuggita: la morte non si augura a nessuno, nemmeno al più feroce dei nemici.

“Parole dal sen fuggite” si riferisce alla celebre frase di Pietro Metastasio: “Voce dal sen fuggita poi richiamar non vale; non si trattien lo strale quando dall’arco uscì”, che significa che una parola detta (o un’azione fatta) non può essere ritirata o annullata, proprio come una freccia scoccata da un arco non può tornare indietro, sottolineando l’importanza di pensare prima di parlare e agire. Il concetto è antico, ripreso da un proverbio latino di Orazio: «Nescit vox missa reverti» (la parola detta non sa tornare indietro).

Andiamo oltre l’umana saggezza col Natale in cui Gesù irrompe nel mondo. Non dimentichiamo, come dice Roberto Benigni, che ha fatto della sua vita un capolavoro d’amore. È riuscito ad amare come nessuno prima di lui. Ed è impressionante la grandezza, l’estensione di questo suo amore. Lo ha allargato, lo ha portato così avanti che di più non si può. Come se avesse detto: «Voglio vedere fin dove posso arrivare: di più, di più!». Fino ad amare lo straniero, lo sconosciuto, il diverso…fino ad amare il nemico! Ecco: «Ama il tuo nemico» è forse la frase più sconvolgente mai pronunciata sulla faccia della Terra. Forse è la parola più forte, più alta di tutto il pensiero umano, e per questo ci sembra irraggiungibile: se ne sta lassù, è troppo alta, non ce la facciamo. Però qualcuno l’ha detta, per sempre! 

E allora consiglio a Zelensky e al popolo ucraino di non augurarsi la morte di Putin, ma di pregare così: “Signore, fa’ che, per amor tuo, amiamo veramente i nemici”. E poi, parliamoci chiaro: dove portano l’odio e la vendetta? Non è forse la ricetta di Gesù l’unica efficace arma per la pace? Amare i nemici non è una paradossale virtù, ma addirittura una necessità…

Anche volendo volare negli artistici “bassifondi della diplomazia”, come ci si può sedere ad un tavolo di trattativa col nemico dopo avere augurato al suo capo la morte? Caso mai, se proprio non resistiamo all’impulso negativo, almeno non dichiariamolo pubblicamente, limitiamoci a pensarlo…

Gli auguri da rispedire al mittente

Resto molto perplesso in merito alla impostazione e finalizzazione delle preghiere dei fedeli formulate, peraltro in modo piuttosto artificioso ed affettato, durante le celebrazioni eucaristiche così come nel contesto della liturgia delle ore: un atteggiamento irresponsabilmente attendista e oserei dire fatalista, che ribalta sul Padre Eterno i nostri mali affinché siano da lui affrontati e guariti. Mi riferisco a guerre, ingiustizie, povertà, sofferenze varie.

Lo stesso discorso vale a maggior ragione a Natale: si aspetta da Gesù Bambino il miracolo della pace. È verissimo che si tratta di un dono di Dio, ma che richiede la nostra collaborazione attiva e fattiva.

Il Natale non è prima di tutto una festa, ma una decisione. Una scelta presa “nell’eternità” e valida ancora oggi. Dio vede il mondo così com’è – diviso, fragile, contraddittorio – e lo ama fino in fondo. Questo giorno santo ci pone una domanda semplice e radicale: noi, che decisione vogliamo prendere? Come Dio, siamo chiamati a guardare. Guardare attorno a noi e un po’ più in là della nostra cerchia abituale. Dove c’è pace e dove c’è guerra? Chi oggi piange e chi ride? Chi è solo, chi è malato, chi ha paura del futuro? Il Natale non chiede gesti eroici, ma scelte vere. Accogliere la decisione di Dio che ci salva e renderla visibile nella nostra vita: nelle priorità che cambiano, nelle relazioni che si ricuciono, nello sguardo che si fa più largo e più misericordioso. Dio viene a farci compagnia.
E noi, diventati fratelli e sorelle, decidiamo di portare il Natale là dove manca: a chi soffre, a chi è ferito dall’odio, a chi vive nel buio della guerra o della solitudine, ai più poveri, ai dimenticati. È così che partecipiamo alla missione di Cristo: una missione di pace, di comunione, di riconciliazione. A ciascuno, senza eccezione, il Signore continua a dire: «Io ti ho amato». E questa decisione non si esaurisce oggi. Rimane.  (Omelia natalizia di don Umberto Cocconi)

Il discorso vale per tutti i cristiani, ma a maggior ragione per i cristiani investiti di alte e gravi responsabilità politiche, che postano loro immagini vicini al presepe, si riempiono la bocca di begli auguri e scaricano sulla mangiatoia di Betlemme i problemi enormi di loro competenza. Una sorta di blasfemo “va’ avanti ti c’am scapä da rìddor”.

Prendo a caso (?) un augurio proveniente dalla classe politica. «In un mondo turbolento che si muove sempre più velocemente, il Natale ci offre un raro momento di pausa per respirare, rallentare e ricordare ciò che conta davvero». Inizia così il messaggio si Ursula von der Leyen, che rivolge un pensiero particolare «ai nostri amici in Ucraina». «Ci auguriamo che l’anno prossimo porti finalmente una pace giusta e duratura – aggiunge la presidente della Commissione europea – e un futuro sicuro e prospero nella nostra Unione».

Come se lei non avesse stringenti responsabilità e importanti funzioni… Vale naturalmente anche per tutte le sue colleghe e i suoi colleghi europei.

Mia sorella Lucia mi rammentava spesso come don Raffaele D’Agnino, suo confessore e direttore spirituale per diverso tempo, a chi gli offriva danaro per i poveri qualificandoli con l’aggettivo possessivo “suoi” (di don D’Agnino appunto), rispondesse stizzito e con genuino spirito evangelico: «Bada che i poveri sono anche “tuoi” e quindi l’aiuto glielo devi consegnare direttamente tu, guardandoli negli occhi!».

Penso che Gesù faccia lo stesso ragionamento e ci chieda di assumerci tutte le nostre responsabilità e di impegnarci per i senza casa, i senza lavoro, i senza patria, i senza pace.

Giorgio La Pira, che considero il prototipo del cristiano impegnato in politica, pregava molto e convintamente, ma poi si rimboccava le maniche, agiva e si faceva carico dei problemi della gente e si comportava da operatore di pace (la beatitudine ritagliata addosso ai politici).

 

 

 

Il presepe è bello perché è vario

Papa Leone XIV, ricevendo in udienza in Vaticano i circa mille figuranti del Presepe, ha detto: “Siate portatori di consolazione e di ispirazione per tutti. Il presepe è “l’usanza di raffigurare nei modi più diversi la Natività del Signore”, una rappresentazione “spesso con i tratti della propria cultura e con i paesaggi della propria terra” del “Mistero dell’Incarnazione”. Ciò lo rende “un segno importante: ci ricorda che siamo parte di una meravigliosa avventura di Salvezza in cui non siamo mai soli”. (da “Vatican news”)

 

Giorgia Meloni mercoledì ha pubblicato sui propri profili social un messaggio di auguri per Natale. La presidente del Consiglio l’ha girato accanto a un presepe, definito “simbolo di valori che meritano di essere custoditi e non messi da parte per moda o timore. Meloni ha ricordato come anni fa – nel 2017 – avesse invitato a fare “la rivoluzione del presepe”, cioè essenzialmente a fare il presepe anche se “nelle scuole dicono che non si può fare perché offende chi crede in un’altra cultura”. “Lo penso ancora”, dice la premier nel messaggio di quest’anno. (da “La Stampa”)

 

Ognuno intende il presepe a suo modo: sarebbe interessante chiedere un parere a san Francesco che lo ha inventato.

Non sono papa, non sono presidente del Consiglio, men che meno sono santo, però ho una mia idea: “Il presepe non è un museo identitario, ma una provocazione universale”.

 

La sicurezza subliminale e le tentazioni del ribellismo

A Torino, il centro sociale Askatasuna è stato sgomberato dalla polizia a metà dicembre 2025, scatenando forti reazioni, manifestazioni e scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, con lancio di oggetti e uso di idranti, a causa della sua posizione critica verso il governo e a supporto di varie cause sociali e politiche, come la Palestina e Alfredo Cospito. Il dibattito in Consiglio Comunale è acceso, con posizioni contrastanti tra la volontà di mantenere il dialogo e la condanna della violenza, mentre il Sindaco ha dichiarato cessato il patto di collaborazione, segnando una vittoria per la legalità secondo alcuni, e una radicalizzazione secondo altri. 

I centri sociali? Fannulloni sfascia-vetrine! I palazzoni-ghetto? Covi di drogati, delinquenti e approfittatori! Gli studenti che protestano? Sfaccendati comunisti! I lavoratori che scioperano? Quelli del venerdì!

Sono le proposte ideologiche della destra al potere: i messaggi subliminali inviati alla gente in cerca di sicurezza. Il malessere sociale è un’invenzione dei menagramo e quindi chi si ribella va represso senza pietà. I centri sociali vanno chiusi, i palazzoni sgomberati, gli studenti manganellati, i lavoratori compatiti e rimossi nelle loro rimostranze. Evviva la democrazia!

I problemi non vanno affrontati e tanto meno risolti, vanno nascosti ed esorcizzati, perché la gente ha diritto alla quiete ed alla tranquillità. Il dialogo con i manifestanti non s’ha da fare… La corda che lega il sacco? I condoni! Ultimo il con-dono natal-edilizio. Bastone per chi protesta, carota per chi evade…

Di fronte a questo stile di governo, con una opposizione politico-parlamentare che non offre spunti di rilievo, rimarrebbe in linea teorica poco più del ribellismo. Capisco quindi i giovani che lo praticano anche se non li condivido. Bisogna aggrapparsi alla nostra Costituzione, lì è il fondamento delle nostre battaglie democratiche.

Prendiamo ispirazione dalle parole di Piero Calamandrei, rivolte agli studenti a Milano nel 1955: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra Costituzione”.

So benissimo che gli attuali governanti non hanno al riguardo il pedigree in ordine, ma non per questo dobbiamo scendere in piazza in modo scriteriato buttando la democrazia nella merda. Un cristiano se i preti sbagliano non rinnega la sua fede. Il discorso vale anche sul piano politico e civile.

Il malessere sociale non deve essere l’alibi per il ricorso alla violenza, altrimenti si contribuisce a creare l’equivoco della sicurezza e dell’ordine a prezzo del misconoscimento dei diritti dei soggetti più deboli e fragili, i cosiddetti nuovi poveri che si sono aggiunti ai poveri tradizionali i cui diritti sono purtroppo rimessi in discussione.

La sinistra dovrebbe avere e svolgere il compito di coniugare la sicurezza dei cittadini non con la repressione ma con il progresso sociale ed ha una grande responsabilità in tal senso, perché, se viene a mancare il suo punto di riferimento, chi protesta può finire nella trappola della violenza ed è allora che il gatto democratico si morde la coda.

Quando partecipavo a certe sacrosante manifestazioni unitarie in difesa del sistema democratico ed antifascista, mi imbattevo spesso in gruppi di estremisti che in coda al corteo agivano sul filo del rasoio della compatibilità democratica. Mi dicevo e dicevo loro: io sono di sinistra come e più di voi, ma cercate di capire che la violenza e il sopruso (anche se usati come risposta a certi attacchi violenti e reazionari) non sono espressioni democratiche. Battagliamo, dialoghiamo, confrontiamoci, protestiamo energicamente, ma senza ricadere nella trappola della violenza: vogliamo difendere la democrazia e rischiamo di rovinarla con le nostre mani!

 

Il bilancio in rosso…di vergogna

«Quest’aula ha dedicato più tempo a organizzare il concerto di Baglioni che non a dibattere della legge di Bilancio. E la colpa non è del Parlamento, la responsabilità è del Governo». Lo ha detto Matteo Renzi in Senato.

Mi sembra una battuta molto azzeccata che fotografa lo strapotere inconcludente dell’esecutivo e la conseguente inerzia del Parlamento: su quella che è annualmente la legge più importante nessun reale dibattito, ma soltanto una insopportabile passerella governativa.

Per quel poco che sono riuscito a comprendere mi sembra un coacervo di norme senza capo né coda, il nulla motivato dalla prudenza: sarebbe come se un automobilista per essere prudente rinunciasse ad usare la macchina tenendola ferma in garage o, meglio, limitandosi ad un giretto in centro città violando i divieti e causando incidenti a non finire.

Il governo Meloni non ha una linea politica, dà un colpo al cerchio e uno alla botte: punta a non disturbare nessuno e finisce col disturbare tutti, o, meglio, colpendo solo i deboli e facendo il solletico ai forti. L’opinione pubblica è distratta, è impossibilitata a farsi un’idea e quindi beve tutto senza battere ciglio.

Un bilancio è la sintesi degli atti gestionali del passato ed al contempo l’indicazione di quelli futuri: non è l’asettica sommatoria di dati, ma semmai un insieme di opinioni su cui imbastire un progetto di gestione.

Non comprendo il senso dell’operare di questo governo e sfido chiunque in buona fede a riuscirci. Far finta di governare è il miglior metodo per difendere gli interessi consolidati illudendo quanti hanno i propri fortemente dimenticati o compromessi. Non parlo di valori, sarebbe forse pretendere troppo, ma mi limito agli interessi. Che pena! La politica ridotta all’istituzionalizzazione del nulla, alle chiacchiere di una manica di incompetenti funzionali allo spirare di un vento di estrema destra che rischia di distruggere la nostra democrazia.

Sto esagerando? Può darsi. Ma più il tempo di questo governo passa e più mi convinco che i suoi bilanci, anche se formalmente a pareggio, non possono che essere in profondo rosso, non certo il rosso di una politica di sinistra, ma quello della vergogna di una pseudo-politica di estrema destra anti-democratica.

 

 

Il Papa è in voga finché non parla di pace

Spero che non vi sarete persi i grandi servizi di giornaloni e tg sul Papa che viene eletto da Vogue come uno dei “personaggi meglio vestiti del 2025” (per il dress code originale e innovativo), che visita a sorpresa il Senato per la mostra sulla Bibbia di Borso d’Este accolto da La Russa,  mentre se ne stanno in silenzio di fronte all’invettiva di Papa Leone XIV contro le classi dirigenti europee, vale a dire una dura critica recente (dicembre 2025) focalizzata sul riarmo bellico, l’uso della paura per manipolare le decisioni politiche e la blasfemia di giustificare la guerra con la fede, in un richiamo alla Pace nella Terra e alla necessità di visione strategica, criticando indirettamente leader come Ursula von der Leyen e sottolineando che l’Europa sta perdendo la sua anima morale e spirituale, preferendo la logica del conflitto. (Marco Travaglio – “Il Fatto Quotidiano”)

Mi ero perso il clamore mediatico sulla stupida scelta di Vogue: niente male, anzi meglio così. Mi ero invece perso i contenuti dell’invettiva di Papa Leone. Do atto a Marco Travaglio della sua incalzante obiettività e di avermi spinto a prendere in considerazione l’invettiva (se la vogliamo chiamare così) di Prevost.

Accolgo con immenso piacere le incisive parole del Papa e constato con crescente amarezza come i governanti facciano orecchie da mercante. Purtroppo anche a livello di pubblica opinione la guerra viene sempre più considerata come un male necessario, le coscienze non hanno la forza di ribellarsi, chi ha il coraggio di denunciare questo folle clima bellico viene considerato un sognatore.

Quando trattiamo la pace come un ideale lontano, finiamo per non considerare scandaloso che la si possa negare e che persino si faccia la guerra per raggiungere la pace. Sembrano mancare le idee giuste, le frasi soppesate, la capacità di dire che la pace è vicina. Se la pace non è una realtà sperimentata e da custodire e da coltivare, l’aggressività si diffonde nella vita domestica e in quella pubblica. Nel rapporto fra cittadini e governanti si arriva a considerare una colpa il fatto che non ci si prepari abbastanza alla guerra, a reagire agli attacchi, a rispondere alle violenze. Molto al di là del principio di legittima difesa, sul piano politico tale logica contrappositiva è il dato più attuale in una destabilizzazione planetaria che va assumendo ogni giorno maggiore drammaticità e imprevedibilità. Non a caso, i ripetuti appelli a incrementare le spese militari e le scelte che ne conseguono sono presentati da molti governanti con la giustificazione della pericolosità altrui. Infatti, la forza dissuasiva della potenza, e, in particolare, la deterrenza nucleare, incarnano l’irrazionalità di un rapporto tra popoli basato non sul diritto, sulla giustizia e sulla fiducia, ma sulla paura e sul dominio della forza.  «In conseguenza – come già scriveva dei suoi tempi San Giovanni XXIII – gli esseri umani vivono sotto l’incubo di un uragano che potrebbe scatenarsi ad ogni istante con una travolgenza inimmaginabile. Giacché le armi ci sono; e se è difficile persuadersi che vi siano persone capaci di assumersi la responsabilità delle distruzioni e dei dolori che una guerra causerebbe, non è escluso che un fatto imprevedibile ed incontrollabile possa far scoccare la scintilla che metta in moto l’apparato bellico». 

Ebbene, nel corso del 2024 le spese militari a livello mondiale sono aumentate del 9,4% rispetto all’anno precedente, confermando la tendenza ininterrotta da dieci anni e raggiungendo la cifra di 2.718 miliardi di dollari, ovvero il 2,5% del PIL mondiale.  Per di più, oggi alle nuove sfide pare si voglia rispondere, oltre che con l’enorme sforzo economico per il riarmo, con un riallineamento delle politiche educative: invece di una cultura della memoria, che custodisca le consapevolezze maturate nel Novecento e non ne dimentichi i milioni di vittime, si promuovono campagne di comunicazione e programmi educativi, in scuole e università, così come nei media, che diffondono la percezione di minacce e trasmettono una nozione meramente armata di difesa e di sicurezza. (Messaggio di Papa Leone XIV per la LIX giornata mondiale della pace)

Andiamo pure incontro alla catastrofe incartando le armi con la patinata e prestigiosa rivista “Vogue” e scambiandoci ipocritamente e scandalosamente “il segno della guerra”.

 

Vieni, c’è una casa nel bosco

I bambini della casa nel bosco di Palmoli non torneranno a casa per Natale. Ma non saranno gli unici minori a trascorrere la festa più bella dell’anno lontano da casa. Nella loro stessa situazione ci sono nel nostro Paese altri ventimila bambini e ragazzi di cui però nessuno parla. A cui non vengono dedicati servizi e talk show, che non suscitano il minimo interesse da parte della politica. Una contraddizione che la dice lunga sulla sensibilità a circuito variabile verso il dramma dei minori fuori famiglia e dei loro genitori. Tanto clamore per un caso, certamente importante e certamente singolare. Silenzio assoluto per gli altri ventimila, altrettanto importanti e altrettanto singolari. Ora, come sappiamo, la Corte d’appello dell’Aquila ha respinto il ricorso presentato dagli avvocati della famiglia anglo-australiana. La palla torna quindi al Tribunale per i minorenni che dovrà valutare i progressi, soprattutto per quanto riguarda la socializzazione, compiuti dai tre bambini ospiti dal 20 novembre scorso di una casa famiglia a Vasto. E da qui nuove domande, nuove valutazioni, nuove analisi del caso da parte di opinionisti e tuttologi che affollano i salotti televisivi dove, quasi quotidianamente, si passa al setaccio la vicenda, si analizzano le relazioni dei servizi sociali, tra cui l’ultima in cui si spiega che i bambini non sanno leggere, che si stupiscono di fronte alla doccia, che mostrano di non aver mai usato il sapone, che fanno fatica a spiegarsi con gli altri bambini perché quasi non parlano in italiano. Questioni non decisive, d’accordo, che forse avrebbero potuto essere risolte spiegando alla famiglia la necessità di mostrarsi più collaborativa. Proprio come sta avvenendo in questi giorni, con i genitori che hanno annunciato la loro disponibilità a trasferirsi in una villetta dotata di tutti i servizi – acqua, luce, gas, servizi igienici – mancanti nel casolare abitato fino a poche settimane fa. (“Avvenire” – Luciano Moia)

Mi vengono spontanee alcune domande/ riflessioni, peraltro collegate fra di loro, che la dicono lunga sulla nostra penosa società.

Non si poteva affrontare per tempo questa situazione famigliare al giusto livello psico-sociale senza bisogno di creare un corto circuito legale, mediatico e politico sbattendo in prima pagina i mostri o i santi a seconda dei punti di vista?

I servizi sociali del comune competente non potevano intervenire a babbo vivo in modo più umano e meno burocratico?

Non si poteva dialogare con questi genitori con pazienza sociale e umiltà giuridica?

Perché si aspetta sempre che i problemi deflagrino per poi affrontarli a gamba tesa, facendo del male a tutti più che del bene ai bambini?

Il tribunale competente non poteva aspettare un po’ prima di adottare drastiche misure: l’istruttoria attuale non poteva essere fatta prima di giungere alla rottura. Ci si doveva almeno tentare! Adesso è tardi e comunque chi ha rotto non pagherà e i cocci saranno di quei bambini.

Non è ora di smetterla con la Tv spazzatura che affronta i problemi umani con il garbo di un elefante nel negozio di cristalleria?

Questi casi così pietisticamente analizzati e così strumentalmente branditi altro non rappresentano che il goffo tentativo di tacitare le coscienze pubbliche e private riguardo alla vastità e profondità dei mali della società.

La casa nel bosco è diventata la casamatta in cui scaricare tutte le emarginazioni infantili davanti alle quali restiamo indifferenti, salvo svegliarci di soprassalto quando scoppia qualche clamorosa e lacerante contraddizione.

È questo ormai lo stile partecipativo di una società egoisticamente chiusa in se stessa, che galleggia sui propri mali, scaricando su Tizio (magistratura), Caio (politica) e Sempronio (psicologia e sociologia) la propria carenza etica e la propria indifferenza umana su cui stendere l’impietoso ed ispido velo mediatico.

 

Giovani alla disperata ricerca di statisti

L’effetto delle nuove norme lo spiega oggi Il Sole 24 Ore: l’uscita dal lavoro si sposterà infatti di tre mesi per i pensionamenti “anticipati”, quelli che oggi si ottengono con 42 anni e 10 mesi di anzianità (un anno in meno per le donne). Mentre il collocamento effettivo a riposo potrà spostarsi addirittura di due anni e mezzo per chi riscatta il periodo di studi universitari. La parte positiva (per il governo) è che le due misure avranno effetti dal 2031-32, mentre al voto si va nel 2027. La finestra mobile è il tempo di attesa tra la maturazione dei requisiti e l’uscita dal lavoro. Oggi si devono aspettare 3 mesi. Dal 2032 bisognerà attenderne 4 e così via. Ci si attende un contributo ai conti pubblici di 1,4 miliardi nel 2035.

La sterilizzazione dei riscatti degli anni di laurea agisce sui requisiti previdenziali ma non sull’assegno. Il quotidiano spiega che dal 2031 il periodo riscattato sarà tagliato di sei mesi, dal 2032 perderà un anno, dal 2033 verranno meno 18 mesi, 24 mesi dal 2034 e 30 mesi a partire dal 2035. La norma a regime porterà il titolo di studio triennale a offrire 6 mesi ai requisiti. Per il titolo magistrale varranno 2 anni e mezzo. Il costo del riscatto naturalmente non cambia. Entrambe le regole escluderanno i lavoratori con contratto di solidarietà. (open.online)

In questa affannosa e irrazionale ricerca di risparmio nei conti pubblici finalizzata al rientro nei parametri virtuosi (?) fissati dalla Ue è racchiusa la fiera delle contraddizioni dell’attuale governo: si era presentato con un programma di allentamento della stretta pensionistica e addirittura la sta accentuando; si pavoneggia come governo di lunga durata e poi vara misure di corta visuale (andiamo indenni al 2027 e poi chi vivrà vedrà…); proprio all’indomani della celebrazione di Atreju, la manifestazione politica promossa dall’organizzazione giovanile del partito di destra su cui si basa l’attuale maggioranza, viene varata una disposizione punitiva nei confronti dei giovani laureati o laureandi.

Un po’ come nelle opere liriche in cui dopo le melodiose arie vengono spesso le cabalette o strette, che portano al finale energico della romanza o addirittura dell’opera: dopo essere stati illusi dalle promesse elettorali arrivano, in men che non si dica, le concrete batoste.

In una società che registra una bassa presenza di laureati, dove i giovani dopo aver ottenuto la laurea non trovano lavoro e se lo trovano è mal remunerato, dove i giovani scappano all’estero per ottenere riconoscimenti e trattamenti adeguati alla loro preparazione professionale, risulta a dir poco demenziale una penalizzazione pensionistica a livello di riscatto degli anni di laurea.

E poi questi stessi giovani, se osano protestare, vengono dipinti come i soliti sfaccendati comunisti: così la ministra Bernini proprio ad Atreju. Mi fa venire alla mente la faziosità di un parroco che negava aiuto a una povera donna perché andava a bere un bicchiere di vino al circolo comunista del quartiere. Pier Luigi Bersani ha commentato con la sua solita verve polemica: a questi giovani non rimarrà altro da fare che affidarsi al primo (vetero) comunista che passa.

Penalizzare la vita studentesca e professionale dei giovani è la più clamorosa delle dimostrazioni in negativo di quanto sosteneva Alcide De Gasperi: “Un politico pensa alle elezioni, ma uno Statista pensa alle prossime generazioni!”.

Purtroppo paradossalmente con le elezioni vissute come un totem, vale a dire come ciò che viene esaltato, adorato, elevato alla massima evidenza, si può arrivare a distruggere la democrazia considerandola un tabù, vale a dire ciò che deve essere occultato nella massima oscurità.

Il capo dello Stato ha recentemente posto attenzione sulle ragioni che portano i giovani a disertare le urne. “Spesso non si tratta di un generico rifiuto della politica. Al contrario, una parte significativa del mondo giovanile mostra ampia, preziosa propensione all’impegno civile, alla mobilitazione sui grandi temi del nostro tempo, dalla pace all’ambiente, al volontariato, alla vita associativa. Ma tanti decidono di non votare”.

A buon intenditor poche parole…

P.S. Sembra che il governo ci abbia ripensato e abbia ritirato in fretta e furia le assurde misure sulla previdenza, non per resipiscenza, ma per contrasti fra i partiti di maggioranza e per calcoli elettoralistici. Il ministro Giorgetti (fa più tenerezza che pena) è rimasto col cerino acceso in mano, ma a scottarsi sono i cittadini sgovernati. Vale tutto quanto sopra a maggior ragione. Brancolano nel buio!

 

 

 

L’Ucraina tra la famiglia dei forti e l’orfanatrofio europeo

“Tanto tuonò che non piovve” diranno Putin e soci. “Ha prevalso il buon senso” ha detto Giorgia Meloni. “L’Europa è la patria degli ‘zbrägavérzi’ dico io.

Prima e subito dopo l’aggressione russa all’Ucraina era il tempo del dialogo e della diplomazia, invece silenzio e risposte in armi; ora che sarebbe purtroppo il tempo della dimostrazione di forza invece ecco spuntare la prudenza per non dire la paura, che va ben oltre le rimostranze giuridiche putiniane per allargarsi agli scheletri negli armadi europei e ai potenziali ricatti per un passato molto ingombrante e imbarazzante e per un incombente futuro rischio atomico da affrontare sotto l’ombrello della Nato che fa acqua da tutte le parti.

I partner europei, sparpagliati come non mai, non riescono a tenere una linea di politica estera comune e finiscono col dare ragione a Donald Trump che li sta snobbando e ridicolizzando (senza gli Usa si sentono orfani e trasformano la Ue in orfanatrofio). Era il momento di puntare i piedi, di battere i pugni sul tavolo, di toccare nel vivo la Russia, ma tutti tengono famiglia nazionale ed elettorale, tutti parlano bene bellico e razzolano male diplomatico, tutti promettono di aiutare l’Ucraina ma senza esagerare (non si sa mai…).

Non so chi vincerà la guerra russo-ucraina (forse lo deciderà Trump che l’ha trasformata da aggressione unilaterale in guerra bilaterale…); una cosa so, vale a dire che questa guerra la sta perdendo l’Europa, che esce malissimo, vittima del proprio tira e molla vergognoso.

Almeno non potevano, prima di imbarcarsi nell’attacco agli asset russi, valutare bene e riservatamente le conseguenze e le divergenze di una simile iniziativa. Sono partiti in quarta e poi hanno fatto marcia indietro. Che figura!

Baci e abbracci con Zelensky. Ogni promessa è debito? No, ogni promessa si risolve in armi (affari d’oro per l’economia di guerra occidentale) e in prestito (da restituire chissà come e chissà quando).

Alla fine probabilmente il tutto, dal punto di vista finanziario, sarà più pericoloso rispetto all’utilizzo degli asset russi.

Gli ucraini ringraziano (a caval donato non si guarda in bocca…), ma forse soprattutto ringrazia Putin (che l’ha scampata bella…). Trump a sua volta incassa e porta a casa il ridimensionamento del potenziale rompiscatole europeo nel suo disegno riveduto e scorretto di spartizione del mondo.

Chiedo scusa per l’eccessivo uso delle parentesi, ma non è colpa mai se il mondo non prevede un testo base a livello narrativo e interpretativo, ma soltanto delle opinioni più o meno plausibili e/o instabili. Conclusione: non ci si capisce un cavolo! E dove nessuno capisce vince il più forte anche se ha torto marcio.