Una maschera che smaschera il governo

Quando a mio padre rimproveravano di essere esageratamente suscettibile di fronte a certe espressioni, era solito affermare convintamente: «L’ è al tón ch’a fà la muzica…».

È stata licenziata la maschera della Scala che lo scorso 4 maggio, all’ingresso della premier Giorgia Meloni in teatro, ha urlato «Palestina Libera». Lo denuncia il Cub del Piermarini. «È arrivato il verdetto ghigliottina della direzione nei confronti della giovane donna del personale di sala che dalla prima galleria ha urlato “Palestina libera” prima del concerto del 4 maggio, all’ingresso di Giorgia Meloni in palco reale», informa il sindacato scaligero. «Evidentemente per la direzione la giovane ha detto qualcosa da punire severamente – aggiungono -. Nel provvedimento di licenziamento, firmato dal sovrintendente Fortunato Ortombina, viene sottolineato che ha tradito la fiducia disobbedendo a ordini di servizio ma a noi vien da dire che lei ha dato retta alla sua coscienza. L’obbedienza non è più una virtù, così come scrisse Don Milani». (da lastampa.it)

Questa è una stonatura fotonica che fa musica antidemocratica, antisindacale, “antipacifica”: un’autentica cazzata di regime! Viene alla mente Arturo Toscanini quando si rifiutò di eseguire l’inno fascista “Giovinezza” a Bologna nel 1931. Per questo motivo, fu aggredito e picchiato da fascisti. Questo evento contribuì alla sua decisione di lasciare l’Italia e andare in esilio.

Ma cosa sta diventando questo Paese in cui si licenziano le persone per non dispiacere alla premier? Probabilmente la Cocomeri non sarà nemmeno stata informata di questo insulso provvedimento, ma non bisogna darle fastidio. Siamo a questo punto?

Un semplice gesto di protesta costa il posto di lavoro? Si rende conto il sovrintendente alla Scala di avere commesso un gravissimo atto contro la democrazia? Se ha verso la musica lo stesso rispetto che dimostra di avere verso i diritti dei lavoratori, povera Scala…

D’altra parte forse bisogna ringraziarlo perché ha contribuito a scoprire un “altarone” della nostra attuale politica estera: siamo schiacciati su Israele al punto che chi osa reclamare i diritti dei palestinesi perde il posto di lavoro e quindi, se due più due fa quattro, ciò significa che Giorgia Meloni è culo e camicia con Israele e vuol essere la più filo-israeliana di tutti.

Non so come finirà la causa contro il licenziamento totalmente ingiustificato, so come sta finendo la democrazia in Italia: una gara alla piaggeria nei confronti di un governo che di democratico ha solo una lontana parvenza. L’aria che tira è viziata e faccio fatica a respirare…

L’uovo razzista e la gallina populista

Invitato per domattina al Quirinale dal presidente della Repubblica Mattarella, il capo della Polizia, Vittorio Pisani, per riconfermare la stima e la fiducia dello Stato nelle Forze dell’ordine, “la cui azione si ispira allo spirito democratico e ai valori della Costituzione”, come si legge in un comunicato della Presidenza della Repubblica a seguito del Rapporto del Consiglio d’Europa che solleva dubbi su ipotesi di razzismo nell’operato delle forze dell’ordine italiane.

Il Consiglio d’Europa, nell’ultimo rapporto annuale della sua Commissione contro Intolleranza e Razzismo, presentato oggi a Bruxelles, ha raccomandato all’Italia uno studio sulla profilazione razziale da parte delle forze dell’ordine. Il documento rileva tuttavia la presenza del fenomeno della profilazione razziale da parte delle forze dell’ordine in diversi Paesi europei – e dunque non solo in Italia. Come ha riferito il presidente della Commissione del Consiglio d’Europa Bertil Cottier, la raccomandazione indirizzata all’Italia e al governo di Roma è stata quella di condurre uno studio indipendente sulla profilazione razziale per valutare la situazione reale. Il fenomeno sarebbe in aumento in molti Paesi europei, si legge nel rapporto, in particolare in Francia e in Italia.

“Agenti di polizia fermano le persone basandosi sul colore della loro pelle, o sulla loro presunta identità o religione violando così i valori europei” ha aggiunto Tena Simonovic Einwalter, vicepresidente della Commissione intolleranza e razzismo. Sempre secondo Einwalter, si sarebbero osservati miglioramenti ad esempio nelle forze di polizia britanniche grazie all’adozione di misure come una più accurata raccolta dati e l’utilizzo di bodycam da parte degli agenti di polizia.

La Commissione ritiene che “i governi e i vertici delle forze dell’ordine debbano intraprendere azioni risolute, volte a prevenire e contrastare efficacemente il profiling razziale, incluso il riconoscerlo come una forma specifica di discriminazione razziale e come potenzialmente indicativo di razzismo istituzionale all’interno delle forze dell’ordine”. (Rai News.it)

Non mi stupisce, non mi scandalizza e non mi offende questo invito del Consiglio d’Europa: mi preoccupa. Vado a prestito da Gioacchino Rossini Parafrasando la sua “calunnia”.

“Il razzismo è un venticello, un’auretta assai gentile che insensibile, sottile, leggermente, dolcemente, incomincia a sussurrar. Piano, piano, terra terra, sottovoce, sibilando, va scorrendo, va ronzando nelle orecchie della gente s’introduce destramente, e le teste ed i cervelli fa stordire e fa gonfiar”.

La polizia svolge un compito molto importante e delicato e viene indubbiamente a contatto con persone di tutte le razze che vivono spesso borderline: è normale che possa riscontrare comportamenti scorretti in soggetti provenienti da altri Paesi in gravi difficoltà di inserimento e integrazione e quindi in pericolo di cadere in fenomeni delinquenziali. La tentazione di generalizzare e di intervenire col pugno particolarmente duro è sicuramente dietro l’angolo. Aggiungiamo pure che la Polizia non è un organo estraneo alla società e quindi risente di tutte le pulsioni sociali, anche le più sbagliate come la discriminazione razziale.

La preoccupazione di difendere l’ordine pubblico può portare ad estremizzare, schematizzare e fuorviare il concetto stesso di sicurezza del quale si sta facendo un uso politico strumentale per scaricare tutti i problemi addosso ai comportamenti anche solo potenzialmente trasgressivi.

Il clima di ostilità preconcetta che sta dilagando nei confronti degli immigrati, pregiudizialmente criminalizzati, influisce sicuramente sul comportamento delle forze di polizia. Bisogna affrontare il fenomeno migratorio in termini positivi: non è facile, ma è eticamente imprescindibile, socialmente indispensabile e politicamente utile.

In questo contesto va studiato e controllato l’operato della polizia, senza il pregiudizio dell’intoccabilità e senza squalifiche sommarie. Giusto quindi, come sta facendo il Presidente della Repubblica, partire dalla stima e dalla fiducia dello Stato nelle Forze dell’ordine, la cui azione si dovrebbe ispirare allo spirito democratico e ai valori della Costituzione. Dopo di che occorre la massima attenzione per verificare che la realtà corrisponda sempre e comunque a questa virtuosa ed irrinunciabile ispirazione. L’invito europeo non va rigettato sdegnosamente, ma accolto positivamente e corrisposto concretamente.

In cauda venenum: siamo sicuri che il retroterra culturale e la prassi politica della destra al potere nel nostro Paese non stiano comportando un clima sociale di intolleranza che può sfociare anche nella discriminazione razziale? Stiamo quindi bene attenti all’uovo razzista, ma anche alla gallina populista del pollaio europeo e mondiale.

 

Parlamento nel pallone e Consulta in superallenamento

È arrivata la sentenza della Corte Costituzionale sui casi di madri intenzionali che ricorrono alla Procreazione medicalmente assistita legittimamente praticata all’estero: possono riconoscere il proprio figlio nato in Italia. Il divieto per i giudici è incostituzionale.

 

La Corte Costituzionale oggi ha anche pubblicato un’altra sentenza, relativa al divieto per le donne single di ricorrere alla Pma in Italia: i giudici hanno stabilito che il divieto non “irragionevole”, ma hanno anche aggiunto che estendere questo diritto alle donne single che vogliono diventare madri in Italia tramite Pma non sarebbe incostituzionale.

 

Suicidio medicalmente assistito: la Corte conferma che il requisito del trattamento di sostegno vitale non è in contrasto con la Costituzione e rinnova i propri appelli al legislatore.
Non è costituzionalmente illegittimo subordinare la non punibilità dell’aiuto al suicidio al requisito che il paziente necessiti, secondo la valutazione medica, di un trattamento di sostegno vitale.

 

Penso di avere una mentalità molto aperta sulle problematiche etiche quali appunto la Procreazione medicalmente assistita e il suicidio medicalmente assistito, ma anche in materia di adozioni da parte delle coppie omosessuali e su tutte le questioni inerenti alle coppie di fatto. Chi mi legge e/o mi conosce me ne può dare ampiamente atto.

Non intendo entrare nel merito di questi temi, mi limito ad una considerazione politico-istituzionale. Mi sembra che l’inerzia parlamentare costringa in un certo senso la Corte Costituzionale a debordare, affrontando di necessità questioni che meriterebbero una seria regolamentazione legislativa.

Invece il Parlamento è teatro di scontri sul piano ideologico e non fa il proprio mestiere di legislatore, nonostante i frequenti inviti provenienti dalla Consulta. Capisco la difficoltà di legiferare in materie così delicate, ma lasciare aperto il campo non è eticamente e costituzionalmente accettabile.

Anche la confusione che ne deriva a livello di interventi regionali dimostra il vuoto legislativo che regna sovrano sulla pelle delle persone.

Quando una regione interviene si grida subito allo scandalo dell’invasione di spazi propri del Parlamento nazionale: invece di gridare sarebbe meglio studiare e lavorare sodo. In fin dei conti il compito del Parlamento è quello di varare buone leggi e non tanto quello di litigare sui massimi sistemi della politica.

Dall’alto della Presidenza della Repubblica e della Corte Costituzionale arrivano forti sollecitazioni a coprire le aree di competenza parlamentare; dal basso delle Regioni arrivano interventi (quasi) di supplenza.

Con licenza parlando, ad esempio, mi fa sorridere il voler contrapporre il diritto alle cure al diritto a chiudere la propria esistenza di malato terminale: una sorta di “paccaterapia” sulle gracili spalle di chi soffre in modo insopportabile.

Ho fatto solo un esempio per chiarire un concetto, quello della necessità di un legislatore che, rispettando i diritti e le volontà delle persone, individui le possibilità legali di scelte adeguate allo status di cittadino.

Non si dovrà quindi più, come disse in una stupenda battuta polemica Pier Luigi Bersani, accettare che a decidere della nostra vita e della nostra morte siano il senatore Gaetano Quagliariello e i politici in ordine sparso, preoccupati solo di compiacere i cattolici dotati di dogmatici paraocchi: infatti personalmente penso di avere il sacrosanto diritto a decidere in proprio, dal momento che la vita è stata donata a me ed io ne devo e ne dovrò rispondere. Ho fatto esperienze tali da convincermi che non solo il testamento biologico sia sacrosanto, ma anche la prospettiva di una seria legislazione in materia di eutanasia non sia da scartare a priori. Non è questione di egoismo o di mancanza di coraggio, ma si tratta di rispetto per la persona e per la sua volontà. Il Parlamento è obbligato costituzionalmente ad operare in tal senso.

 

Acid test per la destra troppo meloniana

Il pur piccolo test elettorale amministrativo del 25 e 26 maggio qualcosa ha indicato. La incontestabile affermazione del centro-sinistra, salvo clamorosi e improbabili rovesciamenti ai ballottaggi, evidenzia una timida ma significativa voglia di cambiamento rispetto all’aria che tira: forse la gente è stanca della stucchevole passerella meloniana e comincia a desiderare qualcosa di più e di meglio.

In secondo luogo probabilmente l’elettorato apprezza una certa semplificazione degli schieramenti politici: effettivamente non se ne può più dei contrasti all’interno del centro-destra così come di quelli nel centro-sinistra. La gente è pragmaticamente orientata su proposte politiche semplici, trasparenti e unificanti: di qui l’incoraggiamento al perseguimento di una certa unità nell’area progressista e il fastidio verso la vuota e litigiosa rincorsa a destra per vedere chi è più trumpiano di Trump, più cattolico del Papa e più euroscettico di Orban.

Mentre la conflittualità a sinistra ha una certa seppur striminzita base politico-culturale (pace, riarmo, Europa, etc.) anche se spesso brandita strumentalmente, a destra si intravede un contrasto di mero potere in quanto, strada facendo, gli accordi tendono a lasciare il posto alla populistica smania di prevalere nei consensi.

Probabilmente il debordante presenzialismo di Giorgia Meloni sta logorando la sua immagine troppo mediaticamente esposta: infatti tutti i troppi sono troppi… E la eccessiva personalizzazione sta esaurendo la sua efficacia e innescando una sorta di rigetto da parte dell’elettore medio rifugiatosi finora nell’astensionismo. Della serie “di questa nana megalomane non se ne può più!”.

Non so quindi se prevalga la critica verso una destra inqualificabile dall’autore invadente e prevaricante o se susciti qualche interesse una sinistra in cerca d’autore autorevole e dialogante.

Non so fino a qual punto comincino a farsi sentire anche le preoccupazioni per una situazione internazionale in cui il governo italiano fa molto fumo e pochissimo e bruciacchiato arrosto.

Forse qualcosa si sta muovendo: qualche cambiamento sta timidamente emergendo, l’astensionismo ha toccato il fondo, i votanti non sono ulteriormente calati, la prossima prova del voto referendario potrebbe fornire ulteriori segnali di novità. Speriamo!

 

Savio ma non Saviano

La copertina di Gomorra di Roberto Saviano come simbolo negativo, contrapposto all’immagine di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. È il messaggio diffuso sui social da Fratelli d’Italia nel giorno dell’anniversario della strage di Capaci. Nella didascalia del post si legge: “Esempi da evitare, esempi da emulare. Diffida di chi ha migliorato la propria vita speculando sulla criminalità. Prendi esempio da chi l’ha combattuta, pagando con la vita”. Senza nominare l’autore del libro, Saviano. (dal quotidiano “La Repubblica”)

Ha fatto un certo scalpore l’iniziativa mediatica di Fratelli d’Italia: è una vecchia consuetudine quella di squalificare chi si oppone alla criminalità considerandolo un mestierante che tutto sommato vive alle spalle della criminalità stessa.

Roberto Saviano è da anni sotto scorta per la sua convinta e convincente opera di intellettuale impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata. In questa virtuosa battaglia non risparmia colpi ai governanti di turno che molto spesso direttamente o indirettamente offrono spazi di manovra alle mafie di vario tipo.

Molti pensano che le più delinquenziali realtà non dovrebbero essere descritte e approfondite in quanto questa opera di verità finirebbe col diventare una distruttiva cassa di risonanza anziché una istruttiva denuncia. È il vecchio discorso de “i panni sporchi si lavano in famiglia”: significa che è meglio non rendere pubblici i problemi e le questioni delicate.  Questa prassi si attaglia perfettamente al discorso e alla mentalità mafiosi: della serie “la mafia non esiste”.

I morti di mafia possono “parlare”, i vivi è meglio che se ne stiano zitti. Così facendo virtualizziamo il problema, lo decantiamo e ce ne laviamo le mani. Le voci scomode vanno squalificate e tacitate. Lasciamo fare gli organi dello Stato, a loro compete difenderci dalla delinquenza, che però parte dalle coscienze individuali e collettive. Se manca una forte presa di coscienza non si va da nessuna parte. E qui sta la preziosa opera di chi studia e spiega i fenomeni mafiosi, di chi si impegna a promuovere iniziative concrete a livello di società civile.

È clamoroso che un partito politico come Fratelli d’Italia si faccia risucchiare nella logica sostanzialmente negazionista dei fenomeni mafiosi. Ancor più grave il fatto che questo partito stia ricoprendo responsabilità di governo. Se possibile, ancor più inaccettabile che questa formazione politica sia capeggiata dalla premier.

Non si tratta di un infortunio mediatico, ma di un tentativo maldestro di evitare l’individuazione delle responsabilità precise in chi governa: troppe infatti sono le linee governative, dai pubblici appalti alla sanità, che strizzano subdolamente l’occhio a chi vuole approfittare in senso delinquenziale di spazi finanziari aperti all’intromissione delle mafie.

Meglio allora limitarsi ad incensare i martiri e non preoccuparsi di fare giustizia a valle e ancor più di cambiare a monte i meccanismi socio-culturali nonché di smascherare le assenze, le connivenze e le omertà della politica.

 

 

 

Da lievito pastorale a prezzemolo clericale

Un messaggio di pace e unità quello indirizzato da Papa Leone XVI alla Curia Romana: “i Papi passano, ma la Curia rimane”. Era la sua prima udienza nell’Aula Paolo VI con gli Officiali della Curia Romana, i dipendenti della Santa Sede, del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano e del Vicariato di Roma.

A mio giudizio si tratta di una frase piuttosto sibillina che si presta a diverse interpretazioni. Personalmente ascoltando quelle parole mi è venuto spontaneo dire: “Purtroppo!”. Ho sempre avuto la convinzione che la burocrazia stia alle istituzioni repubblicane come la curia sta alla Chiesa cattolica. Una continuità che diventa più mera conservazione del potere che salvaguardia di memoria storica.

In una franca e amichevole corrispondenza epistolare col carissimo amico don Domenico Magri, prendendo lo spunto dalle difficoltà che incontrava l’apprezzabile sforzo riformista di papa Francesco anche e soprattutto negli ambienti curiali, affermavo spregiudicatamente: «Dei predecessori di Bergoglio ho una mia originale idea riguardo al loro atteggiamento verso la Curia e gli intrighi vaticani: Paolo VI soffriva, si macerava e poi si arrendeva all’impossibilità del cambiamento; Giovanni Paolo I somatizzò il dramma al punto da morirne in pochi giorni; Giovanni Paolo II se ne fregò altamente, andò per la sua strada, si illuse di cavare anche un po’ di sangue dalle rape; Benedetto XVI ci rimase dentro alla grande e gettò opportunamente la spugna. Quando constato come tanti papi siano diventati o stiano diventando Santi, mi viene qualche dubbio. Pur con tutto il rispetto, temo che nell’aldilà troveremo parecchie novità, riguardo alla nostra vita e a quella della Chiesa».

Papa Francesco ce l’ha messa tutta anche se è paradossalmente rimasto prigioniero della sua opzione squisitamente evangelica, che lo ha portato a privilegiare l’attenzione alle coscienze delle persone piuttosto che agli assetti delle strutture. Qualcosa ha fatto nei riguardi della Curia forse più a parole (spesso giustamente molto dure) che coi fatti.

L’incipit prevostiano citato all’inizio, così come tutto il discorso fatto ai componenti della Curia, mi sembra alquanto buonista e accattivante ed assai poco incisivo: questa leccata curialesca se la poteva risparmiare. Come se non sapessimo che la curia romana è sempre stata sintomo di intrighi di palazzo e di manovre di potere. È inutile che papa Leone citi papa Francesco ad ogni piè sospinto, salvo poi lanciare concreti messaggi in chiara controtendenza rispetto alla pastorale bergogliana. Qualcuno mi accusa di pretendere da Prevost la fotocopia di Bergoglio: non vorrei che si finisse col farne la brutta copia…

Quanto alla curia vaticana non posso esimermi dal riportare una stupenda barzelletta di don Andrea Gallo, raccontata a Parma nell’ambito del Festival della poesia, dove era stato rappresentato “Angelicamente anarchico”, lo spettacolo che Cinzia Monteverdi ha tratto dal un libro del pretaccio genovese con le canzoni di De André.

«Voi sapete che nella nostra Santa Madre Chiesa, uno dei dogmi più importanti è la Santissima Trinità: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. L’amore e la comunione vanno in tutto il mondo, e si espandono. Lo Spirito Santo dice: “Andiamo a farci un giro. Io sono affascinato dall’Africa”.  Il Padre risponde: “Be’, io andrò a vedere il paradiso delle Seychelles. Perché non capisco come mai i miei figli e figlie hanno il paradiso in terra”. Gesù ascolta e non risponde. Allora gli altri due: “Tu non vai?” Gesù: “Io ci son già stato duemila anni fa”. “Non ci farai mica far la figura che noi andiamo e tu rimani”, gli dicono in coro il Padre e lo Spirito Santo. “Va be’, allora vado anch’io”. “Dove vai?” “A Roma”. “Sì, ma a Roma dove vai?” “Vado in Vaticano”. “In Vaticano?”, dicono increduli il Padre e lo Spirito Santo. Gesù risponde: “Eh sì, non ci sono mai stato”».

Don Gallo chiosava così: «Il Vaticano è la Chiesa di Gesù. Dicendo che il Figlio di Dio non c’è mai stato è come dire che tra gli alti prelati non c’è la sua presenza».

Io sono ancor più ecclesialmente scorretto e penso alla burocrazia vaticana nel suo complesso di cui gli alti prelati e il Papa in primis sono i capi e le guide. Ecco perché, alla battuta ““i Papi passano, ma la Curia rimane”, ho avuto un dubbioso sussulto di protesta. Se la Chiesa non diventerà sempre più comunità di credenti e sempre meno complesso istituzionale, svuoteremo ulteriormente le chiese-tempio e riempiremo le stanze del potere col prezzemolo clericale.

 

 

 

 

 

Il tempio profano del dio-calcio

“Non è solo uno stadio quello in cui ci troviamo, seppure intitolato al più grande calciatore di tutti i tempi, è un tempio laico, che esonda di amore e di passione, non è solo una partita quella che ci accingiamo a raccontarvi, è un modo di ripassare a memoria un intero anno, fatto di gioie irrefrenabili e di delusioni cocenti, non è solo una città quella che ci ospita, è la culla di un popolo nel cuore del Mediterraneo, abituato a vivere sospeso tra una montagna infuocata e un mare che non riposa mai”.

Questo è l’incipit della radiocronaca di Francesco Repice su Rai 1 della partita Napoli-Cagliari, decisiva per l’assegnazione dello scudetto relativo al campionato di calcio. Povero Repice…mi ha fatto pena. Penso che se la fosse preparata, ma forse era meglio che avesse riflettuto un attimo prima di sparare simili cazzate. Potrebbe finire tutto con questa commiserazione, senonché il discorso è un tantino più complesso e delicato.

Quando succede qualche fatto increscioso sui campi di calcio, tutti si scandalizzano, stupendosi della violenza che si sfoga negli stadi e condannando la degenerazione del fenomeno sportivo in una vera e propria guerra tra opposte tifoserie, salvo poi enfatizzare a dismisura l’evento calcistico anziché riportarlo nel solco del normale agonismo e della normale passione.

Da una parte abbiamo un vero e proprio sistema affaristico che nulla ha da spartire con lo spirito sportivo; dall’altra parte abbiamo uno sfogatoio fatto di violenza, razzismo e intolleranza; in mezzo la prezzolata e vergognosa opera dei media che pompano il pallone salvo rammaricarsene quando scoppia.

Lo stadio trasformato in tempio laico, una partita resa specchio della vita di un anno, una cittadella sportiva assimilata alla culla di una civiltà. Non stiamo esagerando?  Non stiamo concedendo un assist retorico al calcio-regime strizzacervelli? Non stiamo trasformando il folclore in visione esistenziale? Non stiamo riempiendo gli stadi di assurdi contenuti culminanti nella peggiore delle subculture?

Il Napoli calcio ha vinto il campionato: complimenti! Ma per cortesia non diamo a questo fatto un significato socio-culturale che non ha, tipo la vittoria di una città, il riscatto di un popolo, la gioia per un traguardo sociale, etc. etc.

“Panem et circenses”, in italiano “pane e giochi”, è una locuzione latina che indica un modo di gestire il popolo, offrendo principalmente cibo e intrattenimento per distogliere l’attenzione da questioni più importanti e mantenendo il consenso. Nel caso del modulo calcistico si offre soltanto un gioco, spacciandolo per fatto socio-culturale zeppo di contraddizioni e strumentalizzazioni, facendone un fenomeno di distrazione di massa con tutte le degenerazioni conseguenti.

Mia madre osservava in modo attento, ma disincantato, le vicende del mondo del calcio: mi faceva compagnia mentre guardavo le partite in televisione, se ne usciva con osservazioni e domande simpatiche ed acute. A volte, davanti al vortice degli eventi calcistici accompagnati dalle solite ed insulse sbornie mediatiche, si lasciava andare ad una sferzante domanda/commento: «Cò farisla tùtta cla genta lì, se neg fis miga al balón?».  Ben detto dei protagonisti principali, secondari e terziari di un mondo sempre più paradossale ed assurdo: quelli che io amo chiamare “magnabalón”.

Troppa gente vive di pallone, anche i cronisti televisivi e radiofonici, e finisce col tentare di mandarci tutti nel pallone, a cominciare da quei giovani che non esitano a scatenarsi in violenze di ogni tipo quasi a rifiutare che la vita reale sia ben altra cosa.

Durante una fase particolarmente concitata di una partita di calcio, in occasione di un affondo pericoloso dell’attacco parmense, un giocatore si trovò quasi a scontrarsi col portiere avversario ed in quel preciso momento scattò una frase urlata, di quelle strozzate in gola, cattive quanto assurde, che incitava, si fa per dire, l’attaccante nei confronti del portiere: “Dai, masol!”.

Per fortuna il giocatore del Parma, che forse non sentì neanche l’urlo, si comportò da persona seria, desistette dall’intervenire e, come si dice in gergo, saltò il portiere. Bene così. Ma a mio padre non sfuggì quell’urlo violento proveniente da un tifoso alle nostre spalle e riuscì ad individuarlo con assoluta precisione e ad apostrofarlo con una battuta amara, una domanda retorica:“Mo ti, pr’un balón, masòt un òmm? Mo sit stuppid?”

L’interessato farfugliò una risposta ancora più assurda dell’urlo in questione, non la ricordo bene e non cerco neanche di ricordarla, perché l’unica risposta sarebbe stato il silenzio, quel virtuoso e professionale silenzio che dovrebbero fare anche gli operatori del calcio parlato. Ma poi di cosa vivrebbero? Potrebbero cambiare mestiere…

 

 

Prove d’orchestra ecclesiale

Continuando a parlare delle prospettive del papato di Leone XIV devo registrare tre note liete un po’ forzate, che tuttavia mi hanno sorpreso nella mia ignoranza, incuriosito nel mio scetticismo, consolato nella mia delusione: giudizi strani ma positivi, che forse mi possono aiutare ad uscire dallo sconcerto in cui sono caduto.

Parto con Padre Ermes Maria Ronchi, un presbitero e teologo italiano dell’Ordine dei Servi di Maria, che ha presentato e salutato il nuovo papa come di seguito, prendendo in considerazione il nome da lui scelto e partendo da esso. “Nomen omen” è una locuzione latina, peraltro anche un po’ evangelica, che, tradotta letteralmente, significa “il nome è un presagio”, “un nome un destino”, “il destino nel nome”, “di nome e di fatto”.

“Amici, il nuovo Papa è un frate, il suo nome è Leone. Lo chiamerò Frate Leone, che era il discepolo più vicino a Francesco d’Assisi. Benvenuto Frate Leone, pecorella di Dio!”.

Don Luigi Ciotti, col suo linguaggio senza fronzoli e appassionato, ha dichiarato di pensare che il nuovo papa sia un gran regalo di papa Francesco, perché lo ha scovato quando era vescovo di una piccola diocesi del Perù, se lo è portato a Roma e l’ha fatto cardinale giusto in tempo per…

Il teologo Piero Coda, un presbitero e teologo italiano, segretario generale della Commissione teologica internazionale, ha usato la bella immagine del direttore d’orchestra a significare l’esigenza di uscire dal “papacentrismo” ed al contempo la presa d’atto che papa Leone non sarà un solista, un assoluto protagonista della scena ecclesiale, ma una specie appunto di direttore d’orchestra, che dovrà cercare in tutte le maniere  di coinvolgere gli strumentisti  che abbiano voglia e capacità di suonare.

In effetti, a prima vista, non vedo in Prevost un grande e travolgente carisma ed allora, visti i chiari di luna della mancanza di leader, che caratterizza il mondo intero, bisogna fare di necessità virtù, privilegiando il gioco di squadra: insieme, insieme, basta con gli eccessivi protagonismi, con gli occhi puntati su una persona sola…

Dal momento poi che tira un venticello leggero (?) di normalizzazione post-bergogliana, è meglio andare giustamente in cerca di collegamenti fra papa Francesco e papa Leone, usando anche un po’ di fantasia che non fa mai male. Temo che, per trovare una forte continuità tra Bergoglio e Prevost, di fantasia ne occorra parecchia…

 

È arrivato l’ambasciatore

Ha tutte le sembianze della goccia che fa traboccare il vaso diplomatico, l’incidente occorso oggi a Jenin, dove militari israeliani hanno sparato in aria per allontanare una delegazione di diplomatici stranieri. Dopo l’ulteriore espansione delle operazioni militari a Gaza lo Stato ebraico appare ormai da giorni sempre più isolato, anche tra i suoi storici alleati, dall’Europa agli Stati Uniti. Oggi i governi dei Paesi coinvolti, dalla Francia all’Italia, hanno protestato con veemenza con Israele per quanto accaduto a Jenin. E per quanto riguarda Roma in particolare, l’occasione è stata colta dal governo per mandare a Israele un messaggio di inedita durezza sul quadro complessivo delle azioni israeliane, comprese quelle a Gaza. Lo si evince chiaramente dalla scelta di far trapelare che a muoversi in prima persona è stata questa volta la premier Giorgia Meloni, che ha «sentito al telefono il vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, per concordare la convocazione alla Farnesina dell’ambasciatore israeliano in Italia, non solo alla luce dell’episodio di oggi vicino al campo profughi di Jenin che ha coinvolto diplomatici stranieri, tra cui il vice console italiano a Gerusalemme, ma anche nel contesto più ampio della drammatica situazione nella Striscia di Gaza». E la conferma del cambio di passo e di tono arriva poi dalla nota con cui la Farnesina dà conto di quanto è stato comunicato esattamente all’ambasciatore israeliano in Italia Jonathan Peled.

Nel faccia a faccia con Peled, fa sapere nel tardo pomeriggio il ministro degli Esteri, il segretario generale della Farnesina Riccardo Guariglia «ha protestato e chiesto spiegazioni per l’incidente di oggi in cui una delegazione diplomatica di Paesi dell’Unione europea, che comprendeva il vice-console italiano a Gerusalemme, è stata colpita con armi da fuoco da parte di soldati dell’IDF all’ingresso del campo profughi di Jenin. L’ambasciatore Guariglia ha contestato il comportamento dei militari israeliani, definendo inaccettabile il fatto che una delegazione diplomatica civile venisse allontanata da un’area presidiata dai militari con l’uso delle armi da fuoco». Il segretario generale della Farnesina però è andato oltre e a nome dell’Italia ha anche detto a Peled che «Israele deve interrompere le operazioni militari a Gaza, deve puntare sul negoziato politico e diplomatico per la liberazione degli ostaggi israeliani e per raggiungere un cessate il fuoco che possa far ripartire un processo di pace. Soprattutto Israele deve aprire immediatamente i varchi di accesso a Gaza per permettere l’ingresso massiccio di aiuti alimentari e sanitari per la popolazione palestinese». Una scelta verbale, quella del dovere ripetuto più volte, particolarmente forte in termini diplomatici e inedita da parte dell’Italia dall’inizio della guerra a Gaza. L’unica “concessione” alla narrativa di Israele resta quella sul fatto che la popolazione palestinese è da considerarsi «essa stessa vittima dei terroristi di Hamas». Ma la conclusione dell’Italia, in linea coi partner europei ma sembra pure con gli Usa, è opposta a quella del governo Netanyahu: proprio per questa la popolazione palestinese «non può più essere coinvolta negli attacchi militari dell’Idf». (da open.online)

Morale della favola: un affronto ai diplomatici vale più del massacro di bambini. Così va il mondo! D’altra parte mio padre rilevava, con il suo solito sarcasmo, come di fronte alla caduta di un cavallo gli astanti si impietosiscano ed esclamino “povra béstia”, mentre di fronte alla caduta di una persona si sbellichino dalle risa senza preoccuparsi minimamente dei conseguenti danni subiti dalla persona stessa.

Ci voleva l’incidente diplomatico per smuovere le coscienze? Staremo a vedere…Anche perché il giorno precedente il governo italiano non aveva esitato a voltarsi ancora una volta e vergognosamente dall’altra parte.

Con il lancio dell’operazione Carri di Gedeone da parte di Israele, l’Unione Europea sta iniziando a capire che – forse – lo Stato ebraico va fermato. I ministri degli Esteri dell’Unione hanno infatti approvato la richiesta di avviare una revisione del trattato di associazione UE-Israele, avanzata dai Paesi Bassi dopo un anno di ripetuti appelli da parte di Spagna e Irlanda. In sede di votazione, comunicano fonti diplomatiche, nove Paesi si sarebbero opposti tra cui, come ormai consolidato in sede diplomatica, anche l’Italia. L’accordo regola le relazioni multilaterali tra Israele e Stati membri e, sin dal preambolo e dai suoi primi articoli, si fonda sul rispetto dei diritti umani e sulla condivisione dei valori democratici. Aprendo a una possibile revisione, l’UE compie così, con drammatico ritardo, i primi passi formali per distanziarsi dallo Stato ebraico, sottolinea Amnesty. «L’entità della sofferenza umana a Gaza negli ultimi 19 mesi è stata inimmaginabile. Israele sta commettendo un genocidio a Gaza con agghiacciante impunità». (lindipendente.online)

Evviva la sensibilità, la coerenza, l’europeismo, il coraggio e l’umanità di chi ci (s)governa. Se i bambini di Gaza aspettano un cenno di concreta solidarietà da Giorgia Meloni e c. fanno in tempo a crepare tutti sotto le bombe o di fame. Non mi si dica che questo è il cinismo della politica. Per la verità non è che gli altri Paesi dell’Europa stiano facendo molto meglio: questa feroce indifferenza ammantata di subdola equidistanza fa letteralmente schifo!

Stiamo forse aspettando che Trump si stanchi di Netanyahu e lo scarichi lasciandolo al suo destino? Campa cavallo: ogni simile ama il suo simile! Ho esaurito le mie parole di condanna. Mi vergogno di essere italiano, anzi mi vergogno di essere una persona cosiddetta umana.

 

 

La Cocomeri vuol intortare Prevost

“Il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni – informa Palazzo Chigi – ha avuto oggi una conversazione telefonica con il Santo Padre sui prossimi passi da compiere per costruire una pace giusta e duratura in Ucraina. Il colloquio – si spiega – fa seguito alla telefonata di ieri con il Presidente Trump e con altri leader europei, nel corso della quale è stato chiesto al Presidente del Consiglio italiano di verificare la disponibilità della Santa Sede a ospitare i negoziati”. Meloni ha riscontrato l’apertura di papa Prevost: “Trovando nel Santo Padre conferma della disponibilità ad accogliere in Vaticano i prossimi colloqui tra le parti – conclude Palazzo Chigi – il Presidente del Consiglio ha espresso profonda gratitudine per l’apertura di Papa Leone XIV e per il suo incessante impegno a favore della pace”.

“Speriamo che la Cocomeri non riesca ad intortare Prevost. Con Francesco ce l’aveva fatta… ma mi sa che questo papa sia più politico o almeno lo spero…La furbetta ha già chiesto (dicono) udienza entro 10 giorni. Ma non c’è prima Mattarella?”.

Questo breve ma ficcante messaggio, giuntomi da un caro amico, attento osservatore delle cose politiche e religiose, fotografa perfettamente la situazione. Da una parte una premier, che lui chiama sarcasticamente “Cocomeri” e che gira a vuoto come il garzone di mio padre (non combinava niente di buono…), dall’altra parte un papa a cui tutti stanno tirando la tonaca bianca (sarà già diventata grigia…).

Giorgia Meloni, o Cocomeri come dir si voglia, vuole far credere di essere immanicata a livello internazionale: effettivamente tutti sembrano darle ascolto, in realtà la considerano una mascotte, la compatiscono (coi fanciulli e coi dementi spesso giova il simular…).

Si difende a livello mediatico: questa è l’unica sua forza (fino a quando?). In realtà non si capisce da che parte stia con la scusa di fare la “pontiera”, tra la Ue e Trump, tra i sovranisti e gli europeisti, tra i post-fascisti e i post-democratici, tra i leghisti e i nazionalisti, adesso anche tra la politica e il Vaticano.

Forse l’unico merito che ha è quello di essere un vero e proprio “estrat äd confuzion” e quindi di evidenziare plasticamente il casino che regna sovrano a livello politico internazionale e nel suo governo nazionale. Gli allocchi applaudono, gli scettici scrollano le spalle, gli snobboni ridono, le persone serie piangono.

Ultimamente sta alzando un po’ troppo l’asticella delle sue esercitazioni pseudo-diplomatiche: con Trump se la può cavare, salvo i pochi secondi che il tycoon impiegherà per darle il benservito, allorché non gli farà più comodo averla fra i piedi; col Vaticano avrà vita dura, perché in quell’ambiente hanno un’esperienza tale da riconoscere i bagoloni a prima vista e da smascherare quanti si credono i più furbi della compagnia.

Per quanto concerne papa Leone XIV mi rifaccio a quanto già scritto. Premesso che non mi piace affatto vedere la Chiesa-istituzione protagonista della politica anche se a fin di bene, ammettendo pure che un papa politico possa rappresentare un valido riferimento per il mondo alla deriva, mi permetto di osservare cinicamente come la politica sia un terreno molto difficile da praticare. Agh vôl al cul plä!

Con licenza parlando, non so come sia messo al riguardo Prevost: fatto sta che tutti sono in fila per sfruttare l’audience di cui gode. Lui al momento non fa nemmeno una piega, forse è assai meno ingenuo di quanto si possa pensare.  E poi, se gira per le stanze vaticane (sembra preferirle a casa Santa Marta), di furbastri dai quali farsi aiutare ne trova fin troppi.

Don Andrea Gallo diceva fuori dai denti: «Non mi curo di certe sottigliezze dogmatiche, perché mi importa solo una cosa: che Dio sia antifascista!». Mi permetto di allargare il discorso al vicario di Dio in terra. Dopo di che per la signora Cocomeri la vita nei rapporti col Vaticano non sarebbe così facile.