Mattarella, pensaci tu e prendici in braccio

Penso sia vero che Sergio Mattarella gode della stima e dell’affetto di tantissimi connazionali, e sembra quasi superfluo ripetere perché ciò accada. Un modo di fare politica attento al bene comune, espressione di valori umanistici laici e cristiani, declinati con pacatezza ma senza cedimenti, un riferimento anche a livello internazionale per capacità di cogliere le reali urgenze da affrontare con determinazione in tempo di guerre tragiche e odiose e di minacce alla convivenza, provenienti dall’interno e dall’esterno del Paese. Non è un caso che il Capo dello Stato continui a subire intimidazioni esplicite da Mosca e attacchi obliqui da alcuni segmenti dei media, dei partiti e degli interessi organizzati italiani. Evidentemente dà fastidio la sua limpida testimonianza di democrazia, rispetto della legalità ed equilibrio, argini a sopraffazioni, nazionalismi autoritari, ingiustizie e attentati alla dignità di ciascuno.

Un sistema vitale che vedesse l’attivo coinvolgimento della maggioranza dei suoi cittadini sulla scia dei migliori esempi istituzionali non avrebbe difficoltà a presentare persone adeguate a ricoprire le cariche più importanti con “disciplina e onore”, secondo l’articolo 54 della nostra Costituzione. Se, tuttavia, non fermiamo l’emorragia di fiducia nei processi liberal-democratici e non alimentiamo di convincimenti forti il terreno in cui si radica la pianta del bene comune, saremo condannati a rimpiangere gli statisti del presente come del passato e a pentirci della nostra accidia civile. (da “Avvenire” – Andrea Lavazza in risposta ad un lettore)

A livello internazionale è sotto gli occhi di tutti come il presidente Mattarella, in assenza di una seria linea del governo italiano e/o in presenza di una linea oscillante ed ambigua, stia elegantemente e coerentemente colmando le enormi buche nel terreno governativo e raccogliendo letteralmente le cacche sparse nel mondo da una premier inadeguata prima e più che sbalestrata.

A volte mi chiedo se, considerata la grande stima e considerazione di cui gode da parte dei cittadini italiani nonché a livello internazionale, il presidente Mattarella non potrebbe fare qualcosa di più pur rimanendo rigorosamente nell’ambito dei suoi poteri istituzionali, aggiungendo ai suoi interventi appropriati ma felpati, un quid di provocatoria, esplicita e concreta incisività. È sempre così: quando si trova un interlocutore disponibile si tende ad approfittarne. Gli chiedo scusa anche se il mio è un eccesso di stima e di considerazione.

Forse è proprio la sua misura che conquista fiducia e credibilità, tuttavia un po’ più di grinta non guasterebbe: di fronte a certe situazioni socio-politiche potrebbe tranquillamente denunciare ingiustizie clamorose e censurare comportamenti indecenti. I cittadini starebbero dalla sua parte.

Capisco e apprezzo la sua prudenza, ma quando la casa brucia bisogna gettare immediatamente secchiate d’acqua e non accontentarsi di chiamare i pompieri. E che la casa stia bruciando non c’è alcun dubbio. Faccio qualche piccolo esempio.

Davanti alla conclamata ingiustizia di retribuzioni da fame per molti lavoratori dipendenti e alla titubanza per non dire contrarietà governativa verso l’introduzione dell’obbligo di un salario minimo e ancor più alla inerzia parlamentare riguardo ad un sacrosanto provvedimento che restituisca dignità ai lavoratori, un appello chiaro e deciso del Capo dello Stato sarebbe perfettamente in linea con la Carta costituzionale (L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro – La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.) e con le funzioni e i poteri presidenziali (Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale – Il Presidente della Repubblica, prima di assumere le sue funzioni, presta giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione dinanzi al Parlamento in seduta comune).

E se il Parlamento perseverasse nella sua sordità potrebbe essere minacciato di scioglimento: forse i parlamentari di fronte al rischio di essere mandati a casa si impegnerebbero finalmente nell’affrontare questo problema.

Analogo discorso si potrebbe porre per la sanità pubblica (La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti).

Qualcuno potrebbe obiettare che si finirebbe con lo scivolare in una repubblica presidenziale: ad estremi mali estremi rimedi, sempre meglio salvare la partita della democrazia con interventi a gamba tesa del presidente della repubblica piuttosto che sospendere di fatto la partita per impraticabilità del campo; sempre meglio un presidente “invadente” che un presidente “comparsa” come prevede la penosa riforma in discussione.

Chiudo con un esempio di carattere internazionale: il noto e gravissimo caso Almasri, tuttora presente come un ingombrante macigno nei nostri rapporti internazionali. Il Capo dello Stato poteva intervenire anche come presidente del Consiglio Superiore della Magistratura per evitare un vergognoso vulnus perpetrato contro il diritto internazionale.

“La repubblica ripudia la guerra” è la celebre frase dell’Articolo 11 della Costituzione italiana, che stabilisce che l’Italia rifiuta la guerra come strumento di offesa e come mezzo per risolvere controversie internazionali. Questo principio è un punto fondamentale dell’ordinamento repubblicano e antifascista, mirando a promuovere la pace attraverso la collaborazione internazionale. E non è collaborazione internazionale l’osservanza dei provvedimenti adottati dalla Corte Penale dell’Aia?

Lungi da me formulare giudizi e indirizzare consigli verso il Presidente Mattarella. Mi permetto soltanto di attaccarmi alla sua gonna come fanno i bambini nei momenti di paura: «mama tôm in spala!». Io ho paura di perdere la democrazia e come cittadino italiano non mi resta che piangere e gridare chiedendo il suo aiuto.

 

 

 

 

Pluralismo informativo a furor di mercato

L’indipendenza e il pluralismo dell’informazione sono altrettanti pilastri essenziali per una democrazia autentica. Per questo, la preoccupazione non può essere soltanto quella di salvaguardare i posti di lavoro. Diceva giusto un anno fa il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: «È necessario sostenere il pluralismo, nelle articolazioni sociali come nell’informazione, non affidando soltanto alle logiche di mercato quel che è prezioso per la qualità della convivenza e per una piena cittadinanza». (“Avvenire” – Gerolamo Fazzini)

È lacrimevolmente coccodrillesca la discussione intorno alla vendita delle attività del gruppo Gedi, di cui fanno parte Stampa e Repubblica, a Kyriakou, un imprenditore greco – in Italia quasi sconosciuto, mentre in Grecia è una figura di primo piano – erede di una storica famiglia di armatori, che guida oggi un vasto conglomerato attivo nei media, televisioni, radio, editoria, musica, con interessi anche in Polonia, Romania, Regno Unito e Stati Uniti.

Il discorso di fondo riguarda il ruolo del mercato in una società democratica: ci siamo rassegnati o addirittura genuflessi ai meccanismi mercatali e poi ci preoccupiamo degli effetti. Come può una politica sempre più succube dell’impero mediatico, a cui si affida per essere letteralmente inventata e ottenere consensi e appoggi, portare avanti un’azione positiva nel campo dell’informazione? Come può la mano pubblica difendere la società dagli abusi di un camaleontico capitalismo sempre più avvolgente e condizionante? Come può un Parlamento legiferare e un Governo amministrare in modo da evitare gli effetti distorsivi di un sistema che intacca i diritti dei cittadini fra cui il sacrosanto diritto ad un’informazione corretta?

Questa dovrebbe essere la sfida portata avanti dal riformismo della sinistra. Questa è la filosofia della nostra Costituzione. Questa è la problematica fondamentale per una società democratica.

I conservatori si rassegnano alle contraddizioni, i reazionari ci guazzano dentro, i rivoluzionari si illudono di risolverle in nome di una democrazia sostanziale che rinuncia alla democrazia formale, i riformisti dovrebbero eliminarle costruendo una società basata sulle più profonde aspirazioni del cuore umano: la pace, la giustizia, l’uguaglianza fra le persone e fra i popoli.

Senonché molti parlano di pace e preparano la guerra; firmano trattati e già pensano a ingannarsi; sprecano paroloni in favore degli affamati e bruciano incenso al consumismo; predicano la giustizia e non sanno pronunciare una parola di perdono; cantano inni al pluralismo e al multilateralismo e si piegano sistematicamente alla legge del più forte.

Un giornale esprime una comunità; rappresenta un pezzo di storia del Paese; svolge un ruolo insostituibile nel dibattito pubblico, al di là del suo orientamento ideale e politico; costruisce relazioni solide con il suo pubblico e con il territorio di riferimento. Insomma: un giornale è un ineliminabile presidio sociale e culturale. Ecco perché – per una volta – governo e opposizione su questa vicenda sembrano esprimere preoccupazioni bipartisan. (ancora “Avvenire” – Gerolamo Fazzini)

Mia sorella Lucia, tra le bonarie critiche che mi rivolgeva, inseriva, in modo caricaturale, la mia tendenza all’ansia: mi definiva simpaticamente “l’eterno preoccupato”.  Con il progredire dell’età questa mia caratteristica si sta accentuando e rischia di passare da sofferto stimolo al miglioramento a pericolosa spinta alla rassegnazione.

Ecco perché non mi fido delle preoccupazioni del poi. Ancor più se sono bipartisan.  Preferisco gli impegni del prima, meglio se divisivi, quando forse è ancora possibile evitare il disastro o almeno prevenire l’impatto dei meccanismi del mercato.

Esigo che la politica punti ad una solidarietà rivoluzionaria e a costruire un modello di società in cui la persona è al centro: l’uomo, la donna, il cittadino siano i sovrani, e non il mercato. Oggi siamo diventati schiavi del mercato e sudditi di un’informazione stravolgente e fuorviante. I regimi autoritari di destra e di sinistra puntano a controllare rigorosamente i media, mentre i sistemi democratici accettano di farsi guidare dai media.

Pensiamo al berlusconismo che è stato ed è tuttora emblematico di questa stortura sistemica. Pensiamo alla città di Parma dove vige il monopolio dell’informazione in mani saldamente confindustriali.

Pensiamo alla televisione perché mantiene una solida leadership tra le fonti di news cui si abbeverano gli italiani. Pensiamo alla televisione italiana pubblica che scimmiotta quella privata e si limita a fare da cassa di risonanza ai governanti di turno. Non esiste pluralismo delle fonti di informazione, esiste soltanto il pluralismo delle spazzature televisive.

La carta stampata o informatizzata concede un po’ di respiro critico al lettore e quindi che due quotidiani importanti del nostro Paese finiscano in mani oscure sparge ulteriore pioggia sul bagnato.

Ricordo che mio padre, per sintetizzarmi in poche parole l’aria che tirava durante il fascismo, per delineare con estrema semplicità, ma con altrettanta incisività, il quadro che regnava a livello informativo, mi diceva: se si accendeva la radio “Benito Mussolini ha detto che…”, se si andava al cinema con i filmati luce “il Capo del governo ha inaugurato…”, se si leggeva il giornale “il Duce ha dichiarato che…”. Tutto più o meno così ed è così, in forme e modi più moderni, ma forse ancor più imponenti, sofisticati e subdoli, anche oggi.

Guarda caso ad essere nel mirino delle spregiudicate operazioni di mercato sono proprio due quotidiani non allineati agli indirizzi attuali della politica italiana. Ecco perché mi fanno sorridere le preoccupazioni bipartisan. Tuttavia non c’è via di scampo se non nel segno di un vero riformismo a monte. Non dimentichiamo infatti che il capitalismo ha i secoli contati.

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Conte del Grillo

Sono da sempre del parere che il movimento cinque stelle sia stato un fenomeno legato al carisma affabulatorio di Beppe Grillo e nulla più: dietro Grillo niente. Questa creatura è sfuggita quasi subito di mano al creatore, andando al governo tramite l’ignobile connubio con Salvini, inventando di sana pianta un personaggio/burattino da piazzare a palazzo Chigi, quel Giuseppe Conte che è abilmente sopravvissuto alla debacle del governo giallo-verde, riciclandosi alla grande in un premierato “ribaltonesco”, andando a presiedere un governo giallo-rosso e arrivando persino a sfilare il portafoglio M5S al suo legittimo ed attonito proprietario.

Questa in estrema sintesi è la storia politica di Giuseppe Conte fu Grillo: un furbo voltagabbana accettato obtorto collo dai sempre più striminziti grillini, indaffarato nel rubare il mestiere alla sinistra, un doroteo riveduto e scorretto che sta nella sinistra come gli autentici dorotei stavano nella democrazia cristiana.

Quale azzeccagarbugli del centro-sinistra sposa strumentalmente certe cause (il no alle armi, la provocazione a livello europeo, la demagogia sociale, etc. etc.) e gioca a fare la spina nel fianco del Partito democratico, mirando più a disturbarlo e dividerlo che a coltivare con esso una sana alleanza.

Gli ex grillini lo sopportano, gli elettori lo snobbano sempre più, il Pd lo considera un male necessario. Fino a quando? La destra ha tutto l’interesse a legittimarlo come suo contraltare senza ideologia, senza storia, senza cultura e senza presa elettorale.

Ai tempi in cui partecipavo attivamente alla politica avrebbe sì e no ricoperto la carica di consigliere comunale, oggi pontifica e ricatta. Tutto ormai è possibile, il casino è tale per cui Giuseppe Conte merita attenzione e considerazione. Tutti si chiedono dove andrà e cosa farà.

Lo cercan qui, lo cercan là, dove si trovi nessun lo sa. Che mandare al diavolo mai non si possa quella furbastra primula giallo-rossa?

Il partito democratico deve liberarsi di tutte le scorie della sua storia recente, riscoprendo il materiale pregiato proveniente dal suo glorioso passato: da una parte Conte che gli vuol rubare populisticamente il cuore popolare, dall’altra parte Renzi che gli vuol togliere l’abito riformista per sostituirlo con quello “moderatista”, in mezzo la gente che vorrebbe dalla sinistra risposte ai problemi partendo una buona volta da quelli della povera gente.

Azzardo una paradossale, scandalosa e masochistica regola per la sinistra italiana: è meglio perdere le elezioni con dignità e coerenza (nel campo stretto) che perdere la faccia (nel campo largo) andando dietro a Conte e Renzi. E chi ha detto che i cittadini, aiutati magari da una riforma elettorale proporzionalista, non tornino alle urne a premiare l’orgoglio del Partito democratico riveduto e corretto in salsa “catto-comunista”, riprendendo la politica italiana da dove si era interrotta, vale a dire da Moro-Berlinguer?

 

Forza Italia deve fare a meno di Fratelli d’Italia

Pier Silvio Berlusconi ieri sera, 10 dicembre, ha incontrato la stampa durante una conferenza stampa pre natalizia nello studio 10 di Cologno Monzese. Tra i temi “caldi” televisivi, politici e privati, l’amministratore delegato Mediaset ha anche tracciato un quadro sul partito fondato dal padre, Silvio Berlusconi, Forza Italia.

Il tema del rinnovamento di Forza Italia resta centrale: “Premesso che io non mi occupo di politica, il mio pensiero non cambia. Che io e Marina ci si appassioni al destino di Forza Italia, siamo onesti, è naturale. Tra i lasciti di mio padre tra i più grandi, se non il più grande, c’è Forza Italia. Siamo due persone che lavorano, appassionate e impegnate nel proprio lavoro ma chi fa l’imprenditore non può essere distante dalla politica”.

Ringrazia il ministro degli Esteri ma guarda al futuro: “Io ho gratitudine vera per Tajani e tutta la squadra che ha mantenuto in piedi il partito dopo la scomparsa di mio padre, cosa per nulla facile. In aggiunta ritengo – continua Berlusconi – che guardando al futuro siano inevitabilmente necessarie facce e idee nuove. Con un programma rinnovato senza mettere in discussione i valori fondanti di Forza Italia e dell’agire politico di Silvio Berlusconi ma con valori che devono essere portati a ciò che oggi è la realtà e all’anno 2025. Sulle facce nuove quello che vale per Forza Italia, vale per la politica in generale e per moltissimi settori”. (FQMagazine)

Entro certi limiti le idee (oltre che le colpe) dei padri ricadono sui figli: è sicuramente il caso dell’umana antipatia e della sufficienza politica con cui Silvio Berlusconi guardava a Giorgia Meloni, che evidentemente si ripercuote sui figli del cavaliere.

Lo stesso discorso vale per l’idea della politica asservita agli affari di famiglia: a Mediaset del governo Meloni interessa soltanto lo spazio che le può garantire in senso strategico, finanziario ed editoriale. Del partito Forza Italia Pier Silvio e Marina Berlusconi hanno un concetto padronale, che ben si sposa con la vocazione piattamente filoberlusconiana di questo partito, ma probabilmente non va d’accordo con la sua staticità e con la mancanza di autonomia rispetto alla maggioranza di destra. I figli oltre tutto aggiungono all’eredità del padre una certa qual spregiudicatezza politico-editoriale che va ben oltre il filo diretto con Forza Italia.

Anche l’angustia filo-trumpiana del governo non fa molto gioco a Mediaset interessata a lavorare con un respiro europeo e su un quadro politico liberaldemocratico. Lo schiacciamento sempre più evidente e difficoltoso di Giorgia Meloni su Trump è imbarazzante e lo è ancor più se accompagnato dal servilismo di Antonio Tajani. Forza Italia ha una fetta di voti, ma li sta usando male e soprattutto non si sta mettendo in grado aumentarli attingendo all’area moderata in libera uscita.

Morale della favola: bisogna darsi una mossa e cambiare. E chi potrà mai pilotare un simile volo? I casi sono due: la discesa in campo dei “Berluschini” riveduti e corretti oppure la scelta di una nuova leadership fatta di “Berluscacci” ossequienti e obbedienti a Mediaset.

Se fossi in Giorgia Meloni non mi sentirei tanto tranquilla: a un italiano su due non piace Trump e in men che non si dica questa sfiducia potrebbe ripercuotersi sui partiti italiani: con una destra sempre più a destra appoggiata da Trump, un centro moderato oscillante fra destra e sinistra, una sinistra europeista e riformista all’acqua di rose.

Un panorama poco appetitoso, ma interessante per la famiglia Berlusconi e i suoi porci comodi, che potrebbe navigare a vista nell’area moderata con tanti saluti a Tajani e c., a Giorgia e ai suoi Fratelli d’Italia, a Salvini e alla sua rimanente ghenga. Il messaggio rivolto a nuora (Taiani) perché suocera intenda (Meloni) è così sintetizzabile: Forza Italia può, anzi deve fare a meno dei Fratelli d’Italia.

 

 

Uniti sì, ma contro la Meloni e c.

Un’opposizione al governo, di fatto, esiste già ed è quella portata avanti dalla minoranza parlamentare. Curiosamente la parabola seguita da Landini in questi anni è stata, nel metodo, esattamente opposta rispetto a quella portata avanti dalla segretaria del Pd, Elly Schlein, che si è sempre professata «testardamente unitaria». Mentre la leader del Nazareno ha fatto di tutto per unire, con molta fatica, il centrosinistra, dal Partito democratico a Italia Viva e ai Cinque stelle, fino al fianco sinistro di Alleanza Verdi sinistra, il segretario del sindacato è sembrato più voler dividere, facendo venir meno la linea della tradizionale unità sindacale: prima ha perso sintonia con la Cisl, poi con la Uil. Anche l’iniziativa di oggi è stata condotta in solitaria. In una fase come questa, la mancanza di coesione tra le organizzazioni sindacali pesa. (“Avvenire” – Diego Motta)

Lo sciopero del 12 dicembre scorso pone due problemi peraltro piuttosto frusti, vale a dire se il sindacato abbia un ruolo politico e se debba essere unitario.

Tutto è politica, figuriamoci se l’azione sindacale, anche e soprattutto col ricorso allo sciopero, non lo sia. Le battaglie sindacali devono essere contestualizzate nel quadro politico e quindi assumono per forza di cose una valenza politica anche perché in una società democratica la politica non è riservata ai partiti, ma si esprime anche a livello delle forze intermedie e della società civile. In questa tormentata fase storica, in cui il gioco democratico viene sempre più pericolosamente ristretto, si sente il bisogno di una forte ripresa del discorso politico a tutti i livelli e in tutti gli ambiti. Ben venga quindi l’invasione di campo da parte del sindacato con la mobilitazione dei lavoratori sui temi politici scottanti: non è colpa del sindacato se le minoranze parlamentari fanno solo il solletico all’attuale governo e sembrano più intente a guardarsi l’ombelico che a puntare il dito.

Altro mantra culturale è quello dell’unità del sindacato.  È naturale che l’unione faccia la forza anche se mio padre osava mettere ironicamente in discussione questo luogo comune. Amante dei proverbi e dei modi di dire, riusciva anche in questo campo a mettere il proprio grano di sale. Era solito citare due proverbi: “chi fa da sè fa per tre” e “l’unione fa la forza”. Aggiungeva: “E l’ora cme s’à da far?”. Non aveva tutti i torti, perché l’unità, anche quella sindacale, non è un valore assoluto a cui sacrificare le proprie specificità, ma una scelta tattica.

Qualcuno infatti teorizza il “marciare separati per colpire uniti”: è una massima strategica, che significa coordinare azioni tattiche e strategiche in modo indipendente (separati) per concentrare la forza e ottenere un impatto decisivo (colpire uniti) al momento giusto, applicabile sia in ambito militare che politico o sociale per superare divisioni e ottenere un obiettivo comune.

Dissacriamo quindi il valore dell’unità sindacale subordinandolo alla ricerca di valori e finalità comuni. Non credo che in questo frangente la mancanza di unità fra i sindacati dei lavoratori sia dovuta alla fuga in avanti e ad un eccessivo protagonismo politico della CGIL e del suo leader Maurizio Landini a scapito delle altre sigle. Vedo piuttosto come una certa parte del mondo sindacale, soprattutto quello di ispirazione cattolica, sia stato irretito in una scomposizione sostanzialmente reazionaria della società portata avanti, all’insegna del moderatume, dalla destra meloniana. Il “Dio, patria e famiglia” fa proseliti dappertutto anche tra i lavoratori…

Viviamo un momento storico in cui è necessario schierarsi e non ci si può permettere il lusso di tenere atteggiamenti attendisti e possibilisti. Ecco perché non capisco i tentennamenti di Cisl e Uil così come di molte altre forze sociali cosiddette intermedie.

In questo periodo mi sono ripetutamente chiesto come possa (ri)nascere una sinistra cattolico-laica che riesca a giubilare il PD e a prescindere dalle schermaglie tra Schlein e Conte, tra Renzi e Fratoianni etc. etc. Ho concluso, si fa per dire, che dovrebbe nascere da gente preparata e onesta, competente e piena di pathos. Landini, se stesse più “calmo”, sarebbe lui il leader della sinistra. Occorrono personaggi che parlano credibilmente di problemi concreti: sanità, lavoro, equità fiscale, etc. È così che si riporta il popolo della sinistra a partecipare, protestare e votare. Forse Landini è troppo focoso per essere il leader di una sinistra ideale e nello stesso tempo pragmatica? E allora teniamoci la confusione ideologica di Elly Schlein, l’opportunismo doroteizzante di Giuseppe Conte, il protagonismo esibizionistico di Matteo Renzi e poi, come dice Michele Serra, andiamo a Lourdes…

Mio padre per dissacrare il rito degli auguri raccontava la gustosa barzellettina di quel bambino che, in un linguaggio equivoco tra italiano e dialetto parmigiano, terminava la poesia di Natale con: «…e tanti ingurij al papà…». Al che il padre rispondeva: «Sì, e un m’lon in tla schén’na a tò mädra…». Ed eccone la versione anti-sindacale:”Tanti ingurij aj italiàn e ‘na m’lonna (una Meloni) in tla schén’na ai lavoradôr”.

 

 

 

Il folle volo e il sensato atterraggio

La pazza ma sempre più concreta ed inesorabile strategia trumpiana mira a sconvolgere i pur discutibili equilibri democratici, puntando decisamente al consolidamento e addirittura all’istituzionalizzazione degli squilibri antidemocratici: la jungla internazionale basata sulla legge del più forte imposta dall’alto e subita con rassegnazione dal basso.

Questa strategia coinvolge la Russia di Putin, entro certi limiti la Cina di Xi Jinping, a pieno titolo l’Israele di Netanyahu e più o meno occasionalmente i regimi autocratici sparsi per il mondo.

L’Europa per storia, cultura e assetto geopolitico presenta una complessità che mal si combina con la suddetta strategia. Ecco il perché di tanta subdola ostilità nei suoi confronti: la questione Nato è solo un pretesto (addirittura un ricatto) per mettere con le spalle al muro l’Europa, facendo leva sulla sua problematica autonoma capacità difensiva.

Naturalmente c’è chi casca, più o meno in buona fede, nel tranello. È il caso del ministro della difesa Crosetto, non certo il peggior virgulto dell’attuale governo italiano, che si rifugia nelle acrobazie internazionali non capendo che la posta in palio è ben diversa e più profonda di un aggiustamento dell’organizzazione intergovernativa.

Serve una trasformazione profonda e veloce della Nato, che la faccia diventare una struttura capace di garantire un’alleanza per la pace nel mondo, un “braccio” armato ma democratico, di una Onu rinnovata, uscendo dal ruolo di organizzazione di difesa del solo Occidente “atlantico”. La Nato, così com’è è stata percepita per decenni e cioè come un nemico per i Paesi del Sud, per i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa, ndr), deve invece aprirsi e allargarsi. Deve pensare al mondo, non solo a una sua parte. E visto che l’Onu non ce la fa più, la Nato ha le caratteristiche, il know how e le capacità militari, ma anche diplomatiche, per diventare il vero difensore della pace. Però, attenzione: solo se la Nato saprà essere credibile, attendibile, sincera e saprà allargarsi, potrà rappresentare e difendere tutti. (intervista rilasciata ad “Avvenire”)

Se il caos internazionale viene vissuto con questo imbarazzante semplicismo dal miglior fico del bigoncio meloniani, figuriamoci cosa penseranno gli altri…

I Paesi europei infatti possono (cor)rispondere in ordine sparso e tentare di (con)vivere, fingendo di non comprendere che non è in ballo soltanto l’alleanza atlantica, ma il fondamento democratico dell’Occidente svenduto alla borsa dei contro-valori.

E allora la Francia di Macron strizza l’occhio alla Cina tenendo fede al suo storico ruolo di rompiscatole, la Germania di Merz fa la voce grossa vantando la propria forza (?) economica, l’Italia meloniana fa buon viso a cattiva sorte mirando testardamente a diventare interlocutore privilegiato degli Usa riveduti e scorretti, l’Inghilterra risponde col mal di testa ai raffreddori trumpiani, i cespugli est-europei, dopo aver succhiato le mammelle della Ue, si illudono di passare agli omogeneizzati trumputiniani.

Tutto ciò avviene nell’attonito silenzio dei cittadini, così come se assistessero in seconda fila ad uno spettacolo più fantapolitico che geopolitico. Alla dura e forse irreversibile realtà di un mondo che avanza su binari non morti ma che portano alla morte non si può rispondere con un’alzata di spalle.

Non è un caso che, mentre il contesto internazionale spinge verso semplificazioni autoritarie e leadership forti, cresca anche un disagio democratico profondo. Il Censis lo ha osservato con chiarezza: circa il 30% degli italiani guarda con favore a forme di autarchia o a modelli di governo che riducono pluralismo e mediazione. Non è nostalgia ideologica. È paura, disorientamento, richiesta di protezione. Ed è proprio qui che si annida la deriva demofobica: quando la complessità viene percepita come minaccia e la democrazia come inefficiente. I corpi intermedi sono il primo, vero antidoto a questa deriva. Sono nuovi anticorpi democratici. Cooperative, associazioni, fondazioni, reti civiche, mutualismi non svolgono solo una funzione sociale o economica: svolgono una funzione politica in senso alto. Tengono viva la partecipazione, trasformano bisogni in domande collettive, costruiscono fiducia dove lo Stato è lontano e il mercato non arriva.

L’economia sociale, in questo quadro, non è un settore tra gli altri. È una infrastruttura democratica europea. È il luogo in cui valore economico e valore sociale non si separano, in cui la comunità non è uno slogan identitario ma una pratica quotidiana, in cui la sicurezza non è solo controllo ma capacità di prendersi cura. (“Avvenire” – Paolo Venturi)

La politica lanciò e mise in atto l’idea di un’Europa unita; l’antipolitica sta puntando ad un’Europa disunita o addirittura sbracata; le forze sociali devono conquistare gli spazi per (ri)costruire la democrazia europea che riesca ad invadere il mondo.

Nei giorni scorsi ho auspicato che, davanti alla triste realtà di chi non sa guidare e si spaccia per provetto autista, si reagisca viaggiando sulle proprie gambe, ci si aggrappi alla propria coscienza ed ai sogni per farli diventare realtà.  Se un sogno rimane a livello individuale non sposta nulla, se è condiviso a livello sociale può trasformarsi in realtà rivoluzionaria.

 

 

 

La Meloni sta perdendo la melona

Giorgia Meloni mantiene la rotta sul crinale scivoloso che separa Washington da Bruxelles, anche se il cammino è sempre più impervio. La premier continua a perorare la causa del sostegno al percorso avviato da Donald Trump per la soluzione della crisi in Ucraina, ma il documento per la sicurezza nazionale pubblicato venerdì dalla Casa Bianca marca una netta distanza con l’Unione e il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, lo ha fatto capire in modo piuttosto eloquente. Come se non bastasse, il vertice di ieri a Londra del formato E3, con Volodymir Zelensky, il cancelliere tedesco Friedrich Merz, il presidente francese Emmanuel Macron e il premier britannico Keir Starmer, segna una nuova assenza di Roma dai tavoli che contano e in un momento decisivo dei negoziati per la pace tra Mosca e Kiev.

Per questo il capo dell’esecutivo ha deciso di giocare in anticipo. Domenica ha sentito Zelensky rinnovandogli la solidarietà dell’Italia e organizzando un incontro a Roma previsto per martedì alle 15. Ma ha anche ribadito il sostegno «all’impegno degli Stati Uniti» per il percorso verso la pace. Lo stesso ha fatto anche ieri, quando ha “raggiunto” alcuni leader europei riuniti con Zelensky in una videoconferenza del formato Washington seguita al vertice a Downing Street. Nel corso del summit, spiega una nota di Palazzo Chigi, Meloni ha insistito sulla necessità di offrire garanzie di sicurezza per Kiev e «ha posto l’accento sull’importanza dell’unità di vedute tra partner europei e Stati Uniti per il raggiungimento di una pace giusta e duratura in Ucraina».

Ai vertici dell’Ue, però, l’atteggiamento di Washington piace sempre meno. Per Costa, intervenuto ieri alla conferenza annuale dell’Istituto Jacques Delors, a Parigi, «i rapporti nelle alleanze del Secondo Dopoguerra sono cambiati» e se Mosca appoggia la nuova strategia di sicurezza Usa bisogna che gli europei «si interroghino» sui motivi per cui lo fa. Anche perché, è il ragionamento del presidente del Consiglio europeo, in Ucraina Trump «non punta a una pace giusta e duratura» ma «alla cessazione delle ostilità per avere relazioni stabili con la Russia». In altre parole, Costa ne è convinto, gli Stati Uniti «non credono più nel multilateralismo, nell’ordine internazionale basato sulle regole» e persino «nel cambiamento climatico». Quindi è chiaro che nell’alleanza convivono ormai «visioni del mondo diverse». Tuttavia, ha continuato, è «positivo» che Washington consideri ancora l’Europa come un suo alleato (come scritto nel documento strategico della Casa bianca appunto), ma «se siamo alleati – ha avvertito Costa – dobbiamo agire come tali. E gli alleati non minacciano di interferire nella vita democratica o nelle scelte politiche interne di questi alleati». (“Avvenire” – Matteo Marcelli)

C’è da chiedersi il vero perché di questo atteggiamento avventato del nostro Presidente del Consiglio. Come tutti hanno capito Giorgia Meloni ha giocato d’astuzia a livello internazionale, facendosi la principale paladina della causa ucraina e puntando ad un rapporto privilegiato con gli Usa fin dai tempi di Biden.

Senonché Trump ha cambiato pesantemente la politica estera americana, ha sostanzialmente scaricato Zelensky, sta preparando le merende da consumare con Putin, sta maltrattando brutalmente l’Europa individuando nell’Unione Europea un ostacolo alla sua visione del mondo.

In pratica Giorgia Meloni è rimasta col cerino acceso in mano e si ostina a voler fare da ponte tra Europa e Usa, fingendo di non capire che a Trump non importa niente dell’Europa e che i partner europei stanno riposizionandosi rispetto agli Usa. Sta venendo meno il suo punto tattico-politico di appoggio e viene a trovarsi scoperta su entrambi i fronti.

Questa posizione le crea non pochi problemi nei rapporti con gli alleati di centro-destra: da una parte la Lega che guarda con interesse all’asse Trump-Putin, dall’altra parte Forza Italia che ha un occhio di riguardo per l’Unione Europea tramite l’adesione al Ppe; la espone alle forti critiche delle opposizioni per quello che possono contare, ma soprattutto la indebolisce a livello di politica interna in un momento tutt’altro che facile per il governo. Persino a livello mediatico le diventa difficile nascondersi, come si suol dire, in “un prato segato”.

Finora il giochino della politica estera le è stato d’aiuto, ma ormai le carte si stanno scoprendo e le furbizie non tengono più. E l’Italia? Finiremo completamente ai margini dell’Europa? Diventeremo i servi sciocchi di Trump?

Ricevendo Zelensky a Palazzo Chigi ha mostrato una notevole tensione nervosa: questi si affidava a lei mentre Trump ne sparava di tutti i colori contro di lui e contro i suoi difensori europei: guardando le immagini non si riusciva a capire chi fosse più pallido fra Meloni e Zelensky. Una situazione che ha dell’incredibile: Giorgia si ostina a puntare su Trump e così facendo si allontana sempre più dai partner europei, che stanno reagendo con un po’ di orgoglio agli attacchi statunitensi. Cosa dirà al presidente americano? Cosa dirà ai colleghi europei? Si attaccherà agli svogliati amici del giaguaro come Ungheria, repubblica Cesa e Slovacchia o andrà a Canossa dai volonterosi vale a dire Francia, Germania e Gran Bretagna. Che figura farà con Zelensky? Il problema però non è la Meloni, è il paese Italia. Un tempo una politica italiana così disastrosa a livello internazionale avrebbe comportato effetti pesanti a livello governativo: una crisi di governo sarebbe stata inevitabile. Oggi sull’altare della stabilità stiamo sacrificando tutto. La situazione è difficilissima e, affrontata con grave imperizia, potrebbe anche precipitare, esplodere e/o implodere.

Se andiamo avanti così, ci potrà salvare solo Mattarella bypassando il governo italiano in sede Ue e parafrasando quanto pronunciato da Alcide De Gasperi il 10 agosto 1946 alla Conferenza di Pace di Parigi, dove, come capo del governo italiano, si presentò di fronte alle potenze vincitrici, sentendosi in una posizione di svantaggio (“ex nemico”) e sottolineando l’ostilità generale ma anche la necessità di difendere dignitosamente l’Italia. Non gli resterà che affermare solennemente: “Prendendo la parola in questo consesso europeo, sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”. E speriamo che ci sia qualche esponente europeo di rilievo che si alzi e gli vada a stringere la mano.

 

 

 

 

Le pagliuzze dei pro-pal e le travi dei contro-pal

Nutro grande stima sul piano personale e politico verso Graziano Del Rio, purtroppo però non riesco a capire la logica della sua iniziativa legislativa in materia di contrasto all’antisemitismo: mi sono documentato, ho letto ed ascoltato attentamente, ma, pur concedendo la buona fede e la retta intenzione, la giudico inopportuna dal punto di vista culturale e politico e soprattutto difficilmente inquadrabile in modo equilibrato e corretto nel contesto storico attuale.

Non è serio legiferare sull’antisemitismo non prendendo atto, non condannando e non combattendo l’autentico genocidio perpetrato dal governo di Israele contro la popolazione di Gaza, senza considerare quindi che l’antisemitismo è anche e soprattutto conseguenza del comportamento a livello istituzionale di Israele. L’antisemitismo è un male, ma per estirparlo efficacemente e non sbrigativamente, bisogna analizzarne le motivazioni, altrimenti rischiamo di usare la chirurgia al posto della medicina. In questo momento storico il male principale mi sembra il genocidio e non chi protesta contro di esso usando talora la pur deprecabile violenza. Giusto preoccuparsi dell’insorgente antisemitismo, ma preoccupiamoci anche e soprattutto della strage degli innocenti a Gaza e dintorni.

Graziano Del Rio non ha visto la vomitevole trionfalistica manfrina parlamentare israeliana alla presenza di Donald Trump l’indomani della tregua bellica, senza alcuna voce dissenziente se non quella di un parlamentare immediatamente isolato e criminalizzato?

Graziano Del Rio ritiene che non sia stata sufficientemente considerata e condannata l’azione terroristica di Hamas. MI permetto di chiedergli se non si è reso conto che tutta la narrazione ruota proprio attorno alla responsabilità di Hamas fino a giustificare la spropositata vendetta israeliana che ha dato sbocco all’odio atavico contro i palestinesi innescandone un vero e proprio genocidio?

Graziano Del Rio non sa che gli ebrei formano una lobby potentissima presente in tutto il mondo e tale da influenzare in modo democraticamente assai discutibile equilibri politici ed economici?

Graziano Del Rio non ricorda che lo Stato di Israele ha continuamente violato e continua tuttora a violare l’ordine internazionale occupando territori altrui e ignorando i richiami dell’Onu al riguardo, fregandosene altamente di tutte le censure persino di quelle provenienti dagli alleati?

Graziano Del Rio è soddisfatto del nulla portato avanti dall’Occidente e in specie dal governo italiano per costringere Israele a più miti consigli e ad interrompere la macelleria in atto a Gaza?

Graziano Del Rio non ritiene che le scandalizzate reazioni a certe esagitate manifestazioni di antisemitismo rappresentino il cercare la pagliuzza nell’occhio dei manifestanti pro-pal tralasciando la trave nell’occhio di Netanyahu e c.?

Graziano Del Rio non pensa che sia settario condannare l’attacco alla sede di un giornale senza considerare l’esasperazione per la mancanza di informazione obiettiva e corretta sul conflitto israelo-palestinese? Un politico prima di condannare non dovrebbe sforzarsi di capire le ragioni e le motivazioni anche di coloro che protestano, sbagliando, con violenza? Non è violenza fare tartufesche distinzioni giornalistiche in materia di genocidio? Cos’altro deve succedere a Gaza per constatare il compimento di un genocidio e per condannarlo apertamente.

Ricordo la rispettabilissima e condivisibile crisi di coscienza di Graziano Del Rio di fronte agli aiuti in armi al governo ucraino. L’Italia non è un’importante fornitrice di armi ad Israele? E allora non andiamo in crisi sapendo che queste armi vengono usate per sterminare i bambini palestinesi?

Ho recentemente titolato un mio commento “la guerra è sinistra, ma non di sinistra”. Giudico Del Rio un politico di sinistra e gli chiedo scusa, ma non capisco questa sua iniziativa legislativa che prende lucciole per lanterne e finisce col brandire impropriamente un’arma contro l’antisemitismo quale arma di distrazione di massa rispetto alle gravissime responsabilità del governo israeliano e di chi lo appoggia direttamente o indirettamente.

 

La guerra è sinistra e non di sinistra

La Guerra Russo-Ucraina ha posto la sinistra nuovamente di fronte al dilemma del come comportarsi quando un paese vede minacciata la propria legittima sovranità. Quanti a sinistra hanno ceduto alla tentazione di diventare – direttamente o indirettamente – co-belligeranti, dando vita a una nuova union sacrée, contribuiscono a rendere sempre meno riconoscibile la distinzione tra atlantismo e pacifismo. La storia dimostra che, quando non si oppongono alla guerra, le forze progressiste smarriscono una parte essenziale della loro ragion d’essere e finiscono con l’essere inghiottite dall’ideologia del campo a loro avverso.

La tesi di quanti si oppongono sia al nazionalismo russo e ucraino che all’espansione della NATO non contiene alcuna indecisione politica o ambiguità teorica. Al di là delle spiegazioni – fornite, in queste settimane, da numerosi esperti – sulle radici del conflitto, la posizione di quanti suggeriscono una politica di “non allineamento” è la più efficace per far cessare la guerra al più presto e assicurare che in questo conflitto vi sia il minor numero possibile di vittime. Significa dare forza all’unico vero antidoto all’espansione della guerra su scala generale. A differenza delle tante voci che invocano un nuovo arruolamento, va perseguita un’incessante iniziativa diplomatica.

Inoltre, nonostante essa appaia rafforzata a seguito delle mosse compiute dalla Russia, bisogna lavorare affinché l’opinione pubblica smetta di considerare la più grande e aggressiva macchina bellica del mondo – la NATO – come la soluzione ai problemi della sicurezza globale. Al contrario, va mostrato come questa sia un’organizzazione pericolosa e inefficace che, con la sua volontà di espansione e di dominio unipolare, contribuisce ad aumentare le tensioni belliche nel mondo. (marcellomusto.org/la-sinistra-e-contro-la-guerra)

Non so se sono un pacifista, so soltanto che, come recita la Costituzione, ripudio la guerra e ritengo che non sia nemmeno da prendere inconsiderazione come strumento estremo di difesa.

Il mio bravissimo medico rifiutava categoricamente di rassegnarsi di fronte al decorso delle malattie e non accettava testardamente il detto “non c’è più niente da fare”. Aggiungeva: “C’è sempre qualcosa da fare…” e lo dimostrava con l’impegno e la dedizione a servizio dei suoi ammalati.

Anche di fronte all’incalzare dei venti di guerra si può e si deve sempre tentare di evitare il ricorso alle armi, che non risolve niente per nessuno. L’azione in favore della pace però non deve limitarsi ed iniziare a valle quando le situazioni sono gravemente compromesse, ma va portata avanti a monte contro le ingiustizie che portano alle guerre.

Quante volte mi sono sentito porre l’obiezione relativa al nazifascismo: non si poteva evitare la guerra per sconfiggerlo! Si doveva e si poteva prevenirlo a livello sociale, politico e diplomatico. Invece si pensò di contenerlo con accordi di potere pazzeschi. Quando finalmente ci si svegliò, era troppo tardi. La Resistenza ha il pedigree in ordine, è credibile in quanto partì a monte come lotta politica e civile contro il regime per poi diventare vera e propria guerra di liberazione. Potrà forse essere una lettura storica piuttosto semplicistica, ma credo che corrisponda alla realtà.

Il discorso si ripropone di fronte al nuovo Stalin/Hitler, che invade l’Ucraina e minaccia l’Europa tutta: molti sostengono, anche a sinistra, che non si possa lasciar fare, rinunciare ad aiutare militarmente l’Ucraina e puntare ad un riarmo difensivo per l’Europa.

Mi chiedo: prima che avvenisse l’invasione è stato fatto tutto il possibile per evitarla? Dopo che è avvenuta è stato fatto tutto il possibile per aprire un fronte diplomatico veramente incidente e consistente? È realistica una incombente minaccia bellica russa sull’Europa o è il modo per rimanere in una sistemica e opportunistica logica di guerra?

Altra obiezione è quella della doppia morale, dei due pesi e due misure: contrari all’azione bellica israeliana contro la Palestina e balbettanti di fronte all’aggressione russa all’Ucraina. I due pesi e le due misure per la verità li sta usando soprattutto il governo italiano molto attivo in favore dell’Ucraina e molto latitante sul fronte israelo-palestinese. Non escludo che possa esistere una certa faziosità pacifista: i macellai sono comunque da rifiutare sdegnosamente e le due guerre in questione sono da aborrire nelle coscienze, nelle piazze e nel fare politica.

Temo che il “se vuoi la pace, prepara la guerra” dei romani, stia diventando il “se vuoi difendere il sistema, rassegnati alla guerra” degli europei (per non parlare degli Usa…).

Ho recentemente ascoltato uno stupendo commento alla famosa e apparentemente paradossale regola evangelica del “porgere l’altra guancia”: non è un’assurda virtù, ma un’assoluta necessità. Tutta la storia dell’uomo lo dimostra. Gesù impone a Pietro di rimettere la spada nel fodero, ma non per questo rinuncia alle proprie convinzioni: durante il processo farsa intentato contro di lui, alla guardia del Sommo Sacerdote che lo schiaffeggia, chiede spiegazioni in modo stringente.

Una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: “Così rispondi al sommo sacerdote?” (Gv 18,22). Questa guardia ritiene irrispettose le parole di Gesù che, diversamente da lui, non accoglie passivamente ciò che gli viene chiesto ma ha il coraggio di interrogare e di rinviare l’altro a ciò che già sa, o può sapere.

Questa è una vecchia storia che purtroppo vediamo tutti i giorni ripetersi: ciascuno esercita violenza sull’altro che ritiene in posizione subalterna o quanto meno svantaggiata, ciascuno si sente grande umiliando l’altro, ciascuno nasconde dietro una maschera di straordinaria lealtà all’autorità il suo piccolo io frustrato, che ha bisogno del leader da difendere per sentirsi consistente esercitando violenza sugli altri.

Ma Gesù spezza, come aveva fatto lungo tutta la sua vita, questa catena di violenza e prepotenza e lo fa usando la domanda come un appello alla responsabilità, alla sensatezza di ciò che diciamo e facciamo: “Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gv 18,23). (monasterodibose.it)

Non so se l’essere di sinistra imponga l’essere contrari alla guerra, ad ogni e qualsiasi guerra (per quanto mi riguarda credo proprio di sì!), so che l’essere cristiani, Vangelo alla mano, non consente la guerra se non quella contro l’ingiustizia, la povertà e le discriminazioni di ogni tipo. Qualcuno andrà sicuramente a spulciare nei documenti del Magistero Pontificio e in quelli conciliari per sottilizzare sulle cosiddette guerre difensive (una sorta di ossimoro). Ma fatemi il piacere…

Papa Francesco diceva: «Parlare sempre dei poveri non è comunismo, è la bandiera del Vangelo». Mi permetto di parafrasarlo aggiungendo: «Essere sempre e comunque contro la guerra non è (solo) pacifismo, è cristianesimo».

 

 

 

Migranti carne da ricatto

I Paesi poveri che non cooperano sul fronte dei rimpatri dei propri connazionali potranno vedersi revocate le agevolazioni commerciali Ue. Si tratta di uno dei punti cruciali dell’intesa raggiunta lunedì sera tra il Parlamento Europeo e il Consiglio Ue (che rappresenta gli Stati membri), le due istituzioni legiferanti dell’Unione Europea, per una riforma delle norme sul Sistema generalizzato Ue sulle preferenze sui dazi (Gsp). E cioè le agevolazioni commerciali (dazi zero o fortemente ridotti) per 65 Paesi in via di sviluppo più vulnerabili (per un totale di circa due miliardi di persone). Soprattutto le capitali insistevano per introdurre il criterio della cooperazione sul fronte della riammissione in patria tra quelli già presenti come condizioni per la concessione del Gsp (e cioè rispetto dei diritti umani e dell’ambiente, delle convenzioni internazionali e altro).

Sullo sfondo, la difficoltà degli Stati Ue ad eseguire i decreti di espulsioni: al momento in media nell’Ue solo il 20% dei rimpatri viene effettuato, la causa è soprattutto (ma non solo) il rifiuto di vari Paesi di origine di riprendersi i propri cittadini emigrati irregolarmente in Stati Ue. «Abbiamo chiarito – ha spiegato, per la presidenza di turno Ue, il ministro degli Esteri danese Lars Løkke Rasmussen – che questi vantaggi commerciali devono esser legati al rispetto dei diritti umani, buon governo, protezione ambientale e, per la prima volta, la cooperazione sul rimpatrio dei propri cittadini illegalmente nell’Ue”. Un nuovo tassello, si potrebbe dire, della sempre più avanzata costruzione della “Fortezza Europa” che è sempre più la priorità di Bruxelles e della maggior parte delle capitali. (“Avvenire” – Giovanni Maria Del Re)

Mi sembra un vero e proprio ricatto. Se può avere un senso subordinare gli aiuti e le agevolazioni per i Paesi sotto-sviluppati al rispetto dei diritti umani e delle regole democratiche, condizionarli al rimpatrio degli emigrati non è accettabile dal punto di vista umanitario e controproducente dal punto di vista politico.

Gli emigrati, per clandestini che siano, vengono considerati carne da ricatto, merce di scambio: che colpa hanno loro se nei Paesi di origine non riescono a vivere e forse neanche a sopravvivere? Che senso ha rispedirli brutalmente al mittente ributtandoli nella mischia di fame, guerre, torture, etc. etc.? Che responsabilità hanno se i regimi dei loro Paesi sono più o meno dittatoriali e non rispettano le regole minime nel trattamento dei cittadini? Il problema dei rapporti internazionali e delle migrazioni viene scaricato sulla pelle delle (già)vittime!

Sul piano politico l’indirizzo europeo mi sembra più trumpiano che mai: non lasciamoci trascinare in questa deriva del più forte che detta le regole a suo piacimento. Cosa ne potrà sortire? Un’ Europa chiusa in se stessa e sempre più a rischio immigrazione clandestina e i Paesi sottosviluppati sempre più a rischio dittatura. La politica si fa in positivo e non con le minacce e i fieri accenti.

Sull’argomento c’è stato contrasto tra Parlamento europeo e Consiglio UE: evidentemente qualche parlamentare di Strasburgo si è posto qualche problema. Gradirei sapere come si sono orientati i deputati europei di sinistra: si sono piegati alla realpolitik di Bruxelles? Hanno almeno tenuto accesa la fiaccola europea dei fondatori dell’Unione che si rivolteranno sempre più nelle loro tombe?

A livello europeo così come dei singoli Stati membro non esiste una politica seria a livello migratorio: questa ultima velleitaria impuntatura ne è la riprova. In fin dei conti stanno vincendo i Salvini e i Vannacci tra i sorrisi Durban’s della Von der Leyen e le facce feroci di Orban. E chi difende i diritti dei migranti, peste lo colga!