Moro, un pluralista che metteva alla punta gli integralisti

In questi giorni si è aperto l’annuale meeting di Rimini promosso da Comunione e Liberazione. Non ho mai avuto simpatia religiosa e, tanto meno, ammirazione politica per questo movimento.

David Maria Turoldo, un monaco di spirito profetico e di notevole coraggio, nel 1975 esprimeva un autorevole e dubbioso giudizio affermando: «Dirò che constatando come in Cl tutto è ferreamente previsto e organizzato, e come l’individuo sia seguito dalla nascita alla tomba dalla onnipresente e insonne Cl, e come il ciellino deve ritmare la sua giornata, le sue relazioni, le sue vacanze, ecc., ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte più che a un movimento di fede, a una specie di Ibm del cattolicesimo italiano».

Solo Aldo Moro riesce a distogliermi dai pregiudizi e dai giudizi sbrigativamente negativi e mi costringe a guardare questo movimento con occhio diverso seppur critico, riprendendo, tramite i contenuti di una lettera, i rapporti tra Aldo Moro e CL.

Spuntata chissà come, è venuta alla luce qualche giorno fa una lettera del novembre 1974 di don Tommaso Latronico – giovane sacerdote di origini lucane, trasferitosi a Roma per i suoi studi di seminarista – indirizzata ad Aldo Moro, che proprio in quei giorni era impegnato nella formazione del quarto governo a sua guida. La lettera era conservata nell’archivio storico della Camera.

Moro aveva conosciuto don Latronico già da seminarista al collegio Capranica, dove era ad accoglierlo uno studente che sarebbe diventato il suo confessore, Antonello Mennini, più volte evocato nelle sue lettere dalla prigionia. Alcuni dei seminaristi con cui entrò in contatto avrebbero ottenuto in seguito l’ordinazione episcopale, fra questi il futuro cardinale Arrigo Miglio, Roberto Filippini, vescovo emerito di Pescia, e – nell’ambito di un gruppo di seminaristi espressione delle prime comunità di Cl – vi erano gli attuali vescovi emeriti di Taranto, Filippo Santoro e di Monreale, Michele Pennisi. Quest’ultimo ricorda nitidamente un Moro, al tempo ministro degli Esteri, che arrivava al Collegio su invito del rettore, monsignor Franco Gualdrini, «con il desiderio di confrontarsi con dei giovani che avevano fatto quella scelta trattenendosi in amabile conversazione, a volte fino alle 23». Moro aveva conosciuto Cl nella facoltà di Scienze politiche all’università di Roma, dove insegnava. Fu il loro responsabile, Saverio Allevato, a invitarlo al celebre primo raduno nazionale di Cl al Palalido di Milano, il 31 maggio 1973, dove Moro arrivò a sorpresa e prese posto nel parterre, fra i ragazzi.

In quella lettera don Latronico aveva specificato le date di gennaio, marzo e maggio 1975 fissate per gli incontri di scuola di comunità a Roma. Sarà un anno terribile per CI, quello, soprattutto a seguito di una notizia finita sui giornali, poi rivelatasi del tutto infondata, circa presunti finanziamenti della Cia al movimento. Le minacce e le aggressioni si moltiplicarono anche a Roma, anche sotto gli occhi di Moro, a Scienze Politiche. Questa premura verso Cl, discreta ma fattiva, emerge anche nel racconto di Francesco Cossiga, che rivelò come al suo insediamento da ministro dell’Interno, nel febbraio 1976, si sentì raccomandare da Moro presidente del Consiglio di proteggere i ragazzi di Cl che erano in pericolo all’università e per questo gli scrisse su un ritaglio di giornale, perché prendesse contatto, i numeri di don Giussani e Formigoni. Preoccupazioni non infondate: nel luglio del 1977 sarà gambizzato dalle Brigate rosse Mario Perlini, il papà di due giovani universitari romani di Cl che aiutava la comunità a tenere i conti, scambiato, come scritto nella rivendicazione, per un leader da colpire.

Moro non smise mai di offrire il suo ascolto, il suo incoraggiamento, i suoi consigli, ai ragazzi di Cl che incontrava in università, tanto che a Scienze politiche avvenne, su sua sollecitazione, un esperimento unico per quei tempi, che vide confluire i giovani democristiani nella stessa lista universitaria, con Cl. Nel ricordo di Nicodemo Oliverio (suo allievo in università, poi funzionario della Dc e parlamentare nelle file del Pd) c’è anche un contributo che Moro dava mensilmente (le decime) alla comunità dell’ateneo. Ma – un po’ come i discepoli di Emmaus, che riconobbero Gesù nello spezzare il pane – il tratto comune che dà la cifra di questa singolare amicizia fra Moro e Cl, a Roma, non fu certo una comune strategia politica o visione ideologica, ma la condivisione del sacramento dell’Eucaristia, partecipando numerose volte, Moro, nel corso di quegli anni, alla messa della comunità di Roma, la domenica, in qualche caso in compagnia di Vittorio Bachelet.

Per Moro, d’altronde, la fede – un po’ come nell’insegnamento di don Giussani – non è un alimento al quale attingere nei momenti più rilassati della vita, ma un faro che illumina la vita nel suo svolgersi, e si fa strada anzi con particolare evidenza proprio nel pieno delle prove che la vita impone. Se immaginiamo Moro, la sera prima del rapimento (che era per lui, ignaro del suo destino, la vigilia difficilissima del voto di fiducia, per il governo di solidarietà nazionale) trovato dal figlio Giovanni, rincasato molto tardi, immerso nella lettura del libro Il Dio crocifisso del teologo protestante Jürgen Moltmann, forse possiamo meglio intuire a che livello sia scattata la singolare predilezione di Moro per questo giovane sacerdote lucano.

Don Latronico è scomparso a soli 45 anni, nel 1993, a seguito di una malattia breve e fulminante e da qualche anno si è aperto per lui il processo di canonizzazione. La discrezione di quella sua lettera – al pari di tutto il rapporto che Moro mantenne con Cl, a Roma – dopo più di mezzo secolo, ci dice due cose, soprattutto. La prima – dal lato del destinatario – è la distanza della politica di Moro da quella che va per la maggiore oggi nell’era dei social, in cui ogni gesto, anche il più insignificante, va pubblicizzato, se possibile in diretta, in ragione del tornaconto che può portare in termini di consensi. La seconda, dal lato del mittente, ci racconta della sensibilità di don Latronico verso il bisogno che un credente operante in politica ha, nel suo impegno per il bene comune, di non esser lasciato solo, come un mero erogatore di servizi o “favori” alle prese con “la più alta forma di carità”, ma anche con una delle più formidabili tentazioni: l’esercizio del potere. Esigenza, questa, di recente riportata alla luce dalla Settimana sociale di Trieste, dedicata alla democrazia. (da “Avvenire” – Angelo Picariello)

Moro aveva una strategia politica ed una visione ideologica molto diversa da quelle di Comunione e Liberazione, ma sentiva l’obbligo di dialogare soprattutto coi giovani di cui si sforzava di comprendere ansie, proteste e finanche violenze. Davanti alla foto di un giovane ribelle con la pistola in pugno non si scandalizzò, né si lasciò andare a condanne inappellabili, ma si pose il problema di capire il perché di tanta e drammatica protesta.

Il dialogo! Un irrinunciabile imperativo moroteo. L’esatto contrario della vena integralista di CL a cui faceva riferimento David Maria Turoldo. Però evidentemente Moro era attratto e incuriosito, in senso religioso e politico, dall’impegno dei giovani aderenti a questo movimento e dalla, seppur contradditoria, vivacità culturale che li pervadeva.

Non voglio esagerare, ma quando leggo il Vangelo mi viene spontaneo concludere che Gesù, con il suo capovolgimento religioso, con il suo messaggio esistenziale, con la sua proposta ed il suo stile di vita, non poteva che finire in Croce. Analizzando la vita di Aldo Moro, la sua apertura mentale, il suo umile approccio ai problemi della società e il suo modo di concepire e fare politica, arrivo alla stessa conclusione: alla politica, intesa come mero esercizio del potere, non rimaneva che reagire e fargliela pagare, ammazzandolo come un cane.

In un certo senso bene ha fatto la moglie a rifiutare le esequie politiche a cui Paolo VI restituì il senso religioso.

«Ed ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il “De profundis “, il grido, il pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce. Signore, ascoltaci! E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui. Signore, ascoltaci!»

In mezzo ad un mondo di nani due giganti si sono incontrati in vita e in morte!

Tra sboroni ci si intende

Episodio 1

Salvini afferma durante un dibattito alla Versiliana: “Un summit tra Trump, Putin e Unione Europea? La von der Leyen può portare da bere, non di più. L’Europa cerchi di risolvere i conflitti nel mondo e non rompa le palle sulle auto, sui motorini, sui furgoni, sulle lattine della Coca Cola, sugli ombrelloni di Viareggio”. (da “Il Fatto Quotidiano”)

Ho parecchia comprensione umana ma poca simpatia politica per Ursula von der Leyen, tuttavia dopo aver ascoltato la succitata dichiarazione di Matteo Salvini ho letteralmente gridato: “Vag ti stuppid e sta’ pu tornär indrè!!!”.

Non è possibile scendere a questo livello nella polemica politica: il problema non sono le conseguenze in capo a Salvini, ma quelle in capo all’Italia. Ursula non mancherà di farcele giustamente pagare. Quando i nostri rappresentanti si siederanno ai tavoli di confronto in sede Ue, oltre a mafia, corruzione, evasione fiscale e burocrazia, si sentiranno chiedere conto anche di queste buffonate dialettiche.

Non si può stare dentro l’Europa con l’opportunistico piede di Giorgia Meloni e fuori dall’Europa con quello di Salvini (lasciamo perdere Tajani, che fa da paraninfo). Alla lunga questi atteggiamenti ambivalenti non pagano.

La presenza dell’Italia nella Ue è molto problematica: non siamo credibili quando diamo rassicurazioni, siamo ridicoli quando formuliamo degli ultimatum per cambiare le regole, siamo incompetenti ed ignoranti quando elaboriamo cervellotiche proposte di risanamento. Avremmo bisogno di aiuto, ma attacchiamo e provochiamo chi ce lo potrebbe dare; dovremmo dialogare con pazienza, ma invece osiamo lanciare dei diktat. Qualche tempo fa Salvini attaccava Junker dandogli dell’ubriacone e del ladro. L’ubriaco è Salvini. Siamo ancora fermi lì.

Non si può sedersi con un minimo di credibilità al tavolo di una trattativa, se, dietro, gli amici sparano a zero sugli interlocutori. Con quali chance di successo discutiamo con i partner europei, se gli esponenti del governo italiano continuano a straparlare. La situazione è sempre più paradossale. In occasione della suddetta sparata salviniana mi sono chiesto: è possibile che tanti italiani abbiano stima e fiducia di uno sbruffone da bar di periferia (con tutto il rispetto per i bar e per le periferie)?

È possibile e forse sarà sempre peggio perché questo signore riesce a galleggiare nel suo partito e nella coalizione di governo (gli lasciano fare persino il ponte sullo Stretto di Messina). Non che gli altri siano molto meglio di lui, sia in Italia che in Europa, però a tutto ci dovrebbe essere un limite, invece…

Chiudo ricordando una barzelletta con protagonista uno storico personaggio di Parma, Stopàj: questi, piuttosto alticcio, sale in autobus e, tonificato dall’alcool, trova il coraggio di dire impietosamente la verità in faccia ad un’altezzosa signora: «Mo sale che lè l’è brutta bombén!». La donna, colta in flagrante, sposta acidamente il discorso e risponde di getto: «E lu l’è imbariägh!». Uno a uno, si direbbe. Ma Stopaj va oltre e non si impressiona ribattendo: «Sì, mo a mi dmán la me pasäda!». Al lettore l’incarico di uscire dalla metafora, sostituendo ai personaggi della gustosa gag quelli di cui sopra, con una variabile di non poco conto: a Matteo Salvini la sbornia non passa, anzi…

Episodio 2

Come volevasi dimostrare. Il leader leghista ha invitato il presidente francese – in dialetto milanese – a “taches al tram”, ad attaccarsi, cioè al tram, esortandolo polemicamente ad andarci lui in Ucraina: “Ti metti il caschetto, il giubbetto, il fucile e vai in Ucraina”, aveva detto Salvini a margine di un sopralluogo in via Bolla a Milano commentando l’ipotesi della Francia di mandare truppe sul terreno.

Non ho grande simpatia per Macron, ma c’è scappato un (quasi) incidente diplomatico. La Francia ha convocato l’ambasciatrice italiana a Parigi, Emanuela D’Alessandro, “a seguito dei commenti inaccettabili” di Matteo Salvini contro Emmanuel Macron per il suo sostegno all’invio di truppe in Ucraina. Salvini ha criticato le “macronate” che prevedono, è l’accusa, “eserciti europei, riarmi europei, debiti comuni europei per comprare missili”. Da qui l’incidente diplomatico che ha costretto Parigi – come riporta una fonte della France Press – a ricordare “che questi commenti sono contrari al clima di fiducia e alle relazioni storiche tra i due Paesi, nonché ai recenti sviluppi bilaterali che hanno evidenziato forti convergenze, in particolare per quanto riguarda il loro incrollabile sostegno all’Ucraina”. Non sto a ripetere quanto sopra scritto in merito alle battute da osteria rivolte alla Von der Leyen.

Episodio 3

Di fronte a questo muro contro muro, Trump ha deciso di fare un passo indietro nella mediazione Russia e Ucraina. Ieri si è limitato a scaricare il barile del fallimento su Joe Biden e, in parte, su Kiev. «È molto difficile, se non impossibile, vincere una guerra senza attaccare il Paese invasore. È come una grande squadra che ha una difesa fantastica, ma non può giocare in attacco. Non c’è possibilità di vincere. Il corrotto e incompetente Joe Biden non ha permesso all’Ucraina di attaccare e come è andata?», ha scritto il capo della Casa Bianca su Truth. Quindi ha descritto uno dei territori in gioco, la Crimea come «enorme, grande quanto il Texas, in mezzo all’oceano». La Crimea si affaccia sul mar Nero ed è circa 26 volte più piccola del Texas. (da “Avvenire” – Elena Molinari)

Molti anni fa partecipavo come docente ad un corso di formazione in materia di cooperazione. Fraternizzando con gli allievi del corso fui invitato, assieme ad un simpatico e carissimo collega di Forlì, ad una partita a carte da una coppia di partecipanti, uno dei quali si vantava di essere un giocatore abilissimo e imbattibile. Accettammo la sfida durante la pausa pranzo e vincemmo alla grande, umiliando letteralmente i nostri interlocutori, in particolare quello che si vantava di essere un giocatore di classe superiore. Ricordo che il mio collega forlivese all’apice del godimento cominciò ad apostrofarlo, usando un termine di gergo romagnolo, che non ha bisogno di traduzione, gridandolo ripetutamente in un crescendo esilarante: “Sborone! …Sborone! …Sborone!”, in faccia al ridimensionato sedicente gran giocatore di briscola. Era scaduto il tempo della pausa e ci allontanammo: ci venne chiesta la rivincita, che ci guardammo bene dal concedere. La missione era infatti stata compiuta.

***

Nei giorni del referendum sulla Brexit, proprio in Scozia, la regione contraria all’uscita e favorevole a rimanere nella Ue anche per puntare all’autonomia da Londra, l’allora aspirante candidato repubblicano alle presidenziali americane, Donald Trump, proferì alcune parole che andarono di traverso agli scozzesi. Disse: «Vedo un reale parallelo fra il voto per Brexit e la mia campagna negli Stati Uniti». Come riferì in quei giorni Pietro Del Re, inviato di Repubblica, nel pub di John Muir a Edimburgo, quando Trump apparve in tv, i clienti si avvicinarono allo schermo. Poi, tutti assieme cominciarono a urlargli insulti di ogni genere, il cui meno offensivo era senz’altro pig, porco.

Conclusione

Ebbene, oggi come oggi, faccio sintesi. Anch’io mi avvicino allo schermo televisivo e urlo all’indirizzo di Trump, a dir poco insopportabile bluffatore e volgare gradasso, un combinato insulto: “Porco sborone!!!”.

Senonché mi risponde Salvini, che esalta la politica di Donald Trump: “Con i suoi modi, che a volte possono sembrare bruschi o irrituali, sta riuscendo laddove hanno fallito tutti”. Che dire? Tra sboroni ci si intende alla perfezione!

 

 

 

 

La democrazia val bene l’inviolabilità di un Leoncavallo

Dopo che le forze dell’ordine questa mattina hanno eseguito, con l’ufficiale giudiziario, l’ordine di sfratto emesso nei confronti dello storico centro sociale Leoncavallo a Milano, e dopo l’esultanza di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, secondo cui “In uno Stato di diritto non possono esistere zone franche o aree sottratte alla legalità”, le opposizioni vanno all’attacco e chiedono un analogo trattamento del governo nei confronti del palazzo occupato da Casapound. Si tratta in questo caso di un palazzo di proprietà pubblica, che è stato occupato nel dicembre del 2003 dal movimento di estrema destra.

“Le occupazioni abusive”, ha detto Meloni “sono un danno per la sicurezza, per i cittadini e per le comunità che rispettano le regole. Il Governo continuerà a far sì che la legge venga rispettata, sempre e ovunque: è la condizione essenziale per difendere i diritti di tutti”. Ma per le opposizioni si tratta di un classico problema affrontato con due pesi e due misure.

“La legalità della Meloni? Tutelare i fascisti di Casapound e liberare i libici assassini come Almasri. La presidente invoca il rispetto della legalità per giustificare lo sgombero del Leoncavallo a Milano, ma a Roma, a pochi metri da Termini, Casapound occupa abusivamente da vent’anni un palazzo pubblico senza che nessuno osi intervenire”, si legge in una nota del deputato di Avs Angelo Bonelli. “Se non fosse così paradossale e grave, ci sarebbe da ridere: la legalità a geometria variabile è la cifra di questo Governo. E stiamo parlando della stessa presidente del Consiglio che ha messo a disposizione un volo di Stato per rimpatriare un assassino come Almasri e che, dopo aver mentito agli italiani, è stata costretta ad ammettere di aver condiviso quella scelta. Il governo Meloni non difende la legalità, ma l’ipocrisia e i due pesi e due misure”, ha aggiunto il deputato.

Gli fa eco il segretario di Più Europa Riccardo Magi: “Lo sgombero del Leoncavallo è una pura operazione di facciata di Meloni, Piantedosi e Salvini che non risponde a un bisogno di sicurezza ma solo alla propaganda securitaria di questa destra: se davvero tenessero agli immobili occupati, sgombererebbero subito Casapound a Roma. E invece i loro amici sono ancora lì, protetti da questo governo complice”, ha affermato. (da “fanpage.it”)

Alla pur sacrosanta polemica delle opposizioni preferisco l’analisi politica del comportamento di un governo, che, da quando è in carica, una ne fa e cento ne pensa al fine di chiudere spazi all’espressione del dissenso. Questo è il fatto grave: paradossalmente avrei la stessa preoccupazione se fosse stato sgombrato il Casapound e lasciato in pace il Leoncavallo.

So benissimo che nei centri sociali, come in tutte le entità di impegno socio-culturale, può capitare qualche incidente di percorso a livello trasgressivo, ma credo siano rischi che una democrazia non deve temere di correre.

La deriva reazionarie del governo Meloni è sotto gli occhi di tutti, ma in pochi se ne preoccupano. Alla lunga però questi episodi di intolleranza verso il dissenso potrebbero costituire degli autogol, innescando una conflittualità sociale incontrollabile e deleteria.  Reprimi oggi, reprimi domani… Il dissenso deve dare fastidio al potere, altrimenti che dissenso è. Il governo vorrebbe il dissenso all’acqua di rose, un dissenso burocraticamente controllato dai pubblici poteri, una sorta di morbida opposizione a sua maestà.

I partiti di opposizione sono già sufficientemente auto-devitalizzati, i sindacati faticano problematicamente a coprire gli spazi lasciati liberi dai partiti, i centri sociali vengono chiusi d’imperio, gli studenti e i protestanti vengono regolarmente manganellati, le leggi riguardanti la difesa dell’ordine pubblico vengono inasprite, si punta a stravolgere l’assetto istituzionale: questa è la situazione politica dell’Italia.

Se non è neo-fascismo strisciante questo… Qualcuno sostiene che i veri problemi non sono questi. E quali sono? Se la democrazia va in cantina o in soffitta, la società si tiene i problemi o si illude di risolverli, che è poi la stessa cosa.

 

Non è proprio il caso di tazér sul taser

L’estate amplifica fragilità e conflitti: aumentano liti domestiche e femminicidi, comportamenti disordinati, episodi di escandescenza nelle strade e nei condomìni, si moltiplicano contegni disinibiti ed esasperati, come il consumo di alcol, stupefacenti. Il caldo e gli eccessi, di giorno e nelle notti della cosiddetta movida. E poi, le città si svuotano, i servizi territoriali rallentano, la solitudine sociale pesa di più su chi è già vulnerabile. In questo contesto, la risposta di sicurezza non può essere appiattita su dispositivi e conteggi statistici – quante pattuglie, quante telecamere, quanti fermi e controlli – ma deve misurarsi con la particolare complessità stagionale dei problemi di sicurezza urbana.

Il pericolo, dunque, di interventi inappropriati o sproporzionati è accresciuto dalla pretesa utilizzabilità di “dispositivi tecnologici”. A cominciare per l’appunto dal taser, che non è un’arma innocua. In un soggetto giovane e in buona salute l’effetto può essere transitorio, ma in presenza di fragilità – cardiologiche, neurologiche, psichiatriche, o di assunzione di sostanze – diventa molto rischioso. E sono proprio persone in queste condizioni ad essere frequentemente al centro degli interventi di ordine pubblico. Occorre, dunque, un codice d’uso rigoroso: su homeless, tossicodipendenti e soggetti in evidente stato di alterazione non si dovrebbe mai ricorrere al taser.

Più in profondità, va criticata la scorciatoia cognitiva per cui si attribuisce a un oggetto tecnico un potere quasi risolutivo. È una forma di feticismo: al posto di una strategia di servizio – protocolli, équipe, formazione, coordinamento con i servizi sociali e sanitari – si brandisce un alibi tecnologico. Così si rinvia il lavoro più impegnativo: migliorare competenze, affinare tattiche di de-escalation, costruire catene di aiuto interistituzionali. (da “Avvenire” – Maurizio Fiasco)

Il mio impegno politico è storicamente fatto di sfide coraggiose al limite del paradosso, regolarmente perse in casa: militavo infatti nella Democrazia cristiana aderendo all’ala progressista, per la precisione alla corrente di matrice sindacal-aclista. Una gara dura anche se, per certi versi, affascinante. Ero segretario di sezione e durante un dibattito congressuale mi permisi di sostenere l’idea del disarmo della polizia nei conflitti di lavoro: era un periodo caldo a livello di protesta e contestazione studentesca e operaia. La mia provocatoria proposta, che peraltro faceva riferimento ad un disegno di legge, presentato in Parlamento da un esponente della sinistra D.C. (se non erro l’onorevole Foschi) e mai approvato, fece andare su tutte le furie alcuni iscritti, in particolare uno che gridò: “I canón a la polisìa”. Fu la mia caporetto, da quel momento ebbi vita dura e in poco tempo mi spodestarono democraticamente (?) da segretario.

Chi osa mettere in discussione l’operato delle forze dell’ordine è destinato ad essere tacitato o addirittura deriso sulla base dell’assoluta necessità della difesa a tutti i costi dell’ordine pubblico e della sicurezza. Non si può ragionare…

Cos’è questo taser?

Il taser (acronimo dell’inglese Thomas A. Swift’s Electric Rifle, lett. “fucile elettrico di Thomas A. Swift”), chiamato anche pistola elettrica o storditore elettrico è un’arma che fa uso dell’elettricità per impedire il movimento del soggetto colpito facendone contrarre i muscoli. Il termine taser assomiglia molto a quello dialettale parmigiano di tazér (tacere): ciò che non intendo fare a costo di essere bollato come un anarchico sognatore disfattista.

In questi giorni questa arma usata dai carabinieri ha causato la morte di due soggetti piuttosto scalmanati, che, nelle intenzioni dei tutori dell’ordine, andavano immobilizzati. Non intendo colpevolizzare nessuno, ma soltanto reagire alla deriva securitaria, che caratterizza, da Donald Trump a Giorgia Meloni, la proposta e l’azione dei governi.

Usare un’arma, per non letale che teoricamente sia, non è un gioco da ragazzi. Qualcuno vorrebbe consentirne l’uso per la difesa personale, immaginiamo quanto ne sia aprioristicamente considerato sacrosanto e indiscutibile l’uso da parte delle forze dell’ordine. Non sono d’accordo!

Due morti dopo la scarica elettrica di una pistola che si vorrebbe “non letale”, anzi qualificata come “strumento imprescindibile” dal ministro dell’Interno. Sulla scena, altrettanti interventi di forze dell’ordine – il primo a Olbia e l’altro a Genova – compiuti da carabinieri per sedare due persone dal comportamento aggressivo e percepito come pericoloso dal contesto sociale dove si era manifestato. Invero, l’aggettivo “imprescindibile” andrebbe riservato alla vita umana. Una qualifica così netta – riservata a un congegno comunque di violenza – porta a concludere che non si poteva operare diversamente? (ancora da “Avvenire” – Maurizio Fiasco)

Prima viene la vita umana di tutti, compresi i violenti e i trasgressori delle regole, poi viene l’individuazione e l’uso dei mezzi atti a mantenere l’ordine. Non trasformiamo lo stato democratico in stato poliziesco, evitiamo la retorica del poliziotto che ha sempre ragione perché rischia la vita, smettiamola di lisciare il pelo ai reazionari trasformando in rivoluzionari coloro che osano dissentire.

Le forze dell’ordine vanno dotate di tutti i dispositivi funzionali al loro delicatissimo compito, ma al contempo bisogna evitare abusi ed esagerazioni. Non è facile, ma è necessario. Nei casi di Olbia e Genova era proprio necessario l’uso del taser? Probabilmente chi lo ha fatto non sapeva che a certe persone il taser può procurare la morte.

Certi inseguimenti cruenti di soggetti che non si fermano all’alt sono proprio indispensabili? Certi interventi contro i manifestanti sono volti ad evitare degenerazioni delle proteste o sono vere e proprie intimidazioni e repressioni violente? Pensiamo di rassicurare i cittadini contribuendo a creare un clima di tensione? Viene prima la repressione o la prevenzione? La difesa oltranzistica dell’operato delle forze dell’ordine non fa bene né alle forze dell’ordine né alla società. Bisogna ragionare!

Non pretendo che i poliziotti porgano l’altra guancia, ma nemmeno accetto che si lascino trasportare da una mentalità aggressiva e violenta per combattere l’aggressività e la violenza. Discorsi impopolari, scomodi, difficili e delicati con cui peraltro si dovrebbe misurare l’indice di democrazia di una società.

 

Speranza debole nella diplomazia, speranza forte in Dio

Non a caso, in Alaska Trump ha ricevuto, con un calore e un rispetto francamente eccessivo, l’autocrate Putin, responsabile di questa guerra. Sono due dei pochi leoni della giungla-mondo: possono ruggirsi contro, ma si riconoscono come tali e si rispettano, demarcando il territorio su cui regnare. L’altro leone, il presidente cinese Xi Jing-Ping, guarda sornione gli sviluppi, mostrando i denti quando Trump minaccia di imporre dazi spropositati contro la Cina. Questi ultimi sono stati imposti a tutti, anche a noi alleati europei, che li abbiamo subiti con un’umiliante passività; con Pechino, che può fare male agli Stati Uniti, ancora si tratta.
È un ritorno alla pura logica di potenza di fine Ottocento e inizio Novecento che è reso ancora più amaro dall’assenza totale di ogni ruolo giocato dalle Nazioni Unite. E anzi, non solo l’Onu è stata ignorata, ma quasi nessuno si è mosso per sottolineare questa assenza. Non è stata coinvolta prima e non sembra vi sia la volontà di coinvolgerla per gestire il bilaterale fra Putin e Zelensky, che potrebbe anche essere un trilaterale con la partecipazione diretta di Trump. Neppure gli europei sembrano aver notato quanto sia scivolosa questa strada, per quanto probabilmente inevitabile. I più “coraggiosi” – forse bisognerebbe scrivere i meno pavidi e i meno succubi – hanno espresso il desiderio che vi sia anche un quadrilaterale, con l’Europa seduta al tavolo con la stessa dignità degli altri partecipanti. Non come avvenuto a Washington, con i nostri leader interrogati uno a uno come scolaretti, fermi ad aspettare in una stanza di essere convocati. Ma nessuno sembra aver realizzato che certificare la morte cerebrale delle Nazioni Unite come strumento di risoluzione delle dispute significhi picconare decenni di sforzi, dal 1945 in poi, per rendere il sistema internazionale meno brutale nel suo darwinismo geopolitico. Quanto appare chiaro è anche che la Russia, l’aggressore, appare l’attore premiato da queste trattative, mentre è l’aggredito che deve giustificarsi per cercare di ottenere una pace non troppo umiliante. (da “Avvenire” – Riccardo Redaelli)

Purtroppo questa logica è ormai accolta, se non convintamente, rassegnatamente. Mi continuo a chiedere come si possa reagire a questo andazzo internazionale. A livello di vertici non vedo possibilità; a livello politico non vedo un pensiero alternativo che si possa fare strada; a livello delle opinioni pubbliche noto un dissenso che però non riesce a manifestarsi pubblicamente e non va oltre i mugugni popolari.

Non esiste più una cultura su cui costruire nuovi rapporti di collaborazione fra gli Stati. Ho da sempre una visione laica della politica, ma devo ammettere che l’unica via d’uscita a questa deriva la vedo in un forte richiamo all’idealità cristiana, tutta da riscoprire e da porre alla base del nostro vivere.

Nel marzo del 2022 in una puntata del programma televisivo “otto e mezzo” su La 7, è apparso un importante sacerdote russo ortodosso, padre Giovanni Guaita, coraggiosamente schierato contro la guerra di Putin (una posizione contro-corrente rispetto alle storiche compromissioni ortodosse col potere sovietico prima e russo oggi. “Brutta gente” sentenziava mia sorella…). Lilly Gruber al termine del suo intervento gli ha chiesto quali fossero le sue speranze. Lui ha risposto con la speranza “debole” che la situazione economica costringa Putin a più miti consigli a cui ha aggiunto, con ammirevole discrezione e convinzione, la speranza “forte” che Dio non ci abbandoni e ci aiuti ad uscire dal tunnel.

Anch’io mi sforzo di porre tanta fiducia in Dio. Ce lo ha insegnato il grande Giorgio La Pira, che, non dimentichiamolo mai, incontrava i leader dell’Unione Sovietica, ma si faceva accompagnare dalle impetrazioni delle monache di clausura. E lo confessava apertamente, correndo il rischio calcolato e desiderato di suscitare ironico stupore.

 

 

 

 

Armi über alles

Il bilancio del governo tedesco dopo i primi cento giorni è incerto; per il cancelliere Friedrich Merz il bicchiere è pieno per tre quarti, per la stampa tedesca vuoto a metà. Grande incertezza resta soprattutto il buco di bilancio. Con la ripresa economica che tarda a deflagrare, il settore automobilistico in crisi cerca di trarre ossigeno da commesse militari. L’esempio più pregnante è quello della Deutz AG di Colonia, forse il più antico produttore di motori con oltre 160 anni di attività dedicati soprattutto alla motorizzazione di trattori, mietitrebbia e macchine edili. L’azienda era già attiva nel settore della difesa da decenni, ma solo su piccola scala, meno del due percento del fatturato. L’amministratore delegato Sebastian Schulte ha preso però il timone della società il 13 febbraio 2022, appena undici giorni prima dell’invasione russa dell’Ucraina, e cogliendo il cambiamento punta a portare nell’arco dei prossimi anni la quota produttiva diretta alle forze armate dal cinque al dieci percento.

È una sfida non da poco passare dal progetto di un motore per una locomotiva ad uno per un obice; in ambito militare entrano in gioco standard di robustezza alle sollecitazioni ed alle variazioni di temperature molto maggiori, mentre l’alimentazione è a cherosene. Se per gli ingegneri le sfide progettuali sono stimolanti, non tutti i 5mila dipendenti dell’azienda inizialmente erano d’accordo col nuovo corso di diventare fabbri d’armi, ha spiegato Schulte alla Ard, ma il settore delle macchine edili dipende fortemente dall’economia globale, invece l’industria della difesa promette ordini a lungo termine e dà garanzie occupazionali, allargando la fascia di mercato.

(…)

Per le singole aziende il settore della difesa può però rivelarsi redditizio garantendo sicurezza nella pianificazione industriale; un contratto a lungo termine con un cliente militare – incuranti dell’anelito biblico “forgeranno le loro spade in vomeri” – assicura oggi la produzione dai prossimi tre a sette anni. (da “Il Fatto Quotidiano” – Andrea M. Jarach)

Ci chiediamo il perché dei progetti di riarmo a livello europeo? La risposta ce la dà la Germania con la delinquenziale ipotesi di risanare i bilanci delle imprese e di combattere la depressione economica producendo armi.

Mi viene spontaneo riandare alla mentalità di mio padre, che era decisamente allergico alle armi. Aveva fatto il servizio militare con spirito molto utilitaristico ed un po’ goliardico (per mangiare, perché a casa sua si faceva fatica), cercando di evitare il più possibile tutto ciò che aveva a che fare con le armi (esercitazioni, guardie, tiri etc.) a costo di scegliere la “carriera” da attendente, valorizzando i rapporti umani con i commilitoni e con i superiori, mettendo a frutto le sue doti di comicità e simpatia, rispettando e pretendendo rispetto aldilà del signorsì o del signornò.

Raccontava molti succosi aneddoti soprattutto relativamente ai rapporti con il tenente cui prestava servizio. Aveva vissuto quel periodo come una parentesi nella sua vita e come tale l’aveva accettato, seppure con una certa fatica.

Mio padre era estraneo alla mentalità militare, ne rifiutava la rigida disciplina, era allergico a tutte le divise, non sopportava le sfilate, le parate etc., era visceralmente contrario ai conflitti armati.  Quando capitava di ascoltare qualche notizia riguardante provocazioni fra nazioni, incidenti diplomatici, contrasti internazionali era solito commentare: “S’ag fis Mussolini, al faris n’a guera subita. Al cominciaris subit a bombardar”. 

Era una lezione di politica estera (sempre molto valida, più che mai in clima di unilateralismo, di guerra preventiva, etc.) e di antifascismo (bollando il regime per quello che era e non revisionandolo strumentalmente).

Ogni volta che sentiva notizie sullo scoppio di qualche focolaio di guerra reagiva auspicando una obiezione di coscienza totalizzante: “Mo s’ pól där ch’a gh’sia ancòrra quälchidón ch’a pärla äd fär dil guèri?”. Poi trovava l’unica spiegazione plausibile: “Il j ärmi bizògna pur droväriä, altrimenti é fnì al zôgh …”.  

Da mio padre al Santo Padre Francesco il passo non è poi così lungo.

«Chi parla della pace spesso non è attendibile, perché il proliferare degli armamenti conduce in senso contrario. Sarebbe un’assurda contraddizione parlare di pace, negoziare la pace e, al tempo stesso, promuovere o permettere il commercio delle armi» (Papa Francesco ai diplomatici, 15 maggio 2014).

«Perché armi mortali sono vendute a coloro che pianificano di infliggere indicibili sofferenze a individui e intere società? Purtroppo la risposta, come tutti sappiamo, è semplicemente per denaro: denaro che è intriso di sangue, spesso del sangue innocente. Davanti a questo vergognoso e colpevole silenzio, è nostro dovere affrontare il problema e fermare il commercio di armi» (Papa Francesco, discorso all’Assemblea plenaria del Congresso degli Stati Uniti d’America).

«Lancio un appello a tutti quelli che usano ingiustamente le armi di questo mondo: deponete questi strumenti di morte. Armatevi piuttosto della giustizia, dell’amore e della misericordia, autentiche garanzie di pace» (Papa Francesco, viaggio in Centrafrica).

«Il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è l’ipocrisia» (Papa Francesco, discorso del 04 febbraio 2017 ai partecipanti all’Incontro “Economia di Comunione”, promosso dal Movimento dei Focolari).

«La corsa agli armamenti non risolve né risolverà mai. Essa serve solo a cercare di ingannare coloro che reclamano maggiore sicurezza, come se oggi non sapessimo che le armi e la repressione violenta, invece di apportare soluzioni, creano nuovi e peggiori conflitti» (papa Francesco nella sua Esortazione “Evangelii Gaudium).

È perfettamente inutile e ipocrita accampare scuse di carattere geopolitico per la corsa alle armi: non le prendo nemmeno in considerazione! Mi stupisco che tanti politici, anche di sinistra (?), insistano con le menate più o meno riconducibili al “vis pacem para bellum”: mentono sapendo di mentire.

 

 

 

La più debole delle onnipotenze

”Mi piace il concetto di un cessate il fuoco perché si smetterebbe immediatamente di uccidere persone, invece che tra due settimane — ha detto Trump —. Vorrei che smettessero, ma strategicamente ciò potrebbe essere uno svantaggio per una parte”.

Come prova dell’inutilità di una pausa nei combattimenti, Trump ha citato “sei guerre che ho risolto in 6 mesi, una delle quali era un possibile disastro nucleare”. In almeno due dei casi ai quali si riferiva, India-Pakistan e Azerbaijan-Armenia, un cessate il fuoco era scattato prima del coinvolgimento americano (in Armenia da un anno e mezzo). In Congo i ribelli hanno appena abbandonato i colloqui di pace. (da “Avvenire” – Elena Molinari)

Ho parzialmente seguito la diretta televisiva – più per dovere di cittadino del mondo che per fiducia nelle buffonate diplomatiche in corso – di quel vomitevole ibrido andato in scena alla Casa Bianca, un mix di colloquio fra Trump e Zelensky e di pseudo-conferenza stampa coi giornalisti compiacenti.

Tra le tante cazzate elargite da Trump e ingoiate da Zelensky ho colto l’insistenza sul concetto in base al quale la guerra russo-ucraina non sarebbe iniziata se lui fosse stato presidente insediato alla Casa Bianca: un’affermazione totalmente gratuita, storicamente indimostrabile, l’ennesimo specchietto per le allodole interne e internazionali. L’approssimativo e confuso accenno fatto alle guerre risolte in 6 mesi dimostra la inverosimile narrazione di un megalomane.

A nessun giornalista è passato per la mente di chiedere come e cosa avrebbe fatto per evitare questo conflitto: domanda forse pericolosa per l’incolumità di chi avesse il coraggio di porla. Tutto perciò è virtualmente possibile e lasciato all’immaginazione dei fans sulla base dell’ostentata onnipotenza trumpiana.

Fuori onda di Meloni con Trump: “Io non voglio mai parlare con la stampa italiana. Meglio non prendere domande” Operazione verità di Giorgia Meloni. In due momenti della lunga giornata passata accanto a Donald Trump la premier italiana ammette il suo non facile rapporto con la stampa italiana. La prima volta quando il presidente finlandese Stubb si dice stupito di come Trump abbia aperto le porte del vertice ai giornalisti. Lei dice sorridendo: “Ma a lui piace. Gli piace sempre. Io invece non voglio mai parlare con la stampa italiana”. Alla conferenza stampa successiva la premier conferma la sua allergia alle domande. Trump le chiede: “Ragazzi volete prendere qualche domanda? (dai giornalisti, ndr). Meloni risponde sussurrando all’orecchio del presidente Usa: “Penso sia meglio di no, siamo troppi e andremmo troppo lunghi”. (Ilario Lombardo inviato a Washington de “La Stampa).

La mordacchia, con tanto di placet meloniano, viene quindi posta alle trattative in corso: Zelensky deve tacere e fidarsi, l’Europa può parlare senza esagerare e soprattutto pagando il conto, il mondo guardi e ammiri. Gli Usa diventeranno gli arbitri di un equilibrio internazionale basato sulla prepotenza e sulla totale mancanza di principi e di regole: prendere o lasciare. Anche la Russia di Putin non può che abbozzare, tanto sa che, tutto sommato, questa può essere l’unica rispettabile e conveniente via d’uscita le cui condizioni vengono dettate più da Mosca che da Washington: a Putin la sostanza, a Trump la forma, alla Ue il diritto di sbirciare dal buco della serratura.

E la chiameranno pace, dicendo che, in fin dei conti, le cose sono sempre andate più o meno così. Anche se fosse vero, e non lo è, non accetterei mai una simile verità. Una pace garantita da chi esclama: “Non son più presidente, son Dio!”.

Le castrazioni del PD

La cancellazione dello spirito originario del Pd è stata completata con l’elezione di Elly Schlein alle primarie, nonostante gli iscritti le abbiano preferito un altro candidato, e con gli apprendisti stregoni della ditta rottamati definitivamente. Ora però il Pd di Schlein è una succursale del movimento populista, e un veicolo per riportare la sinistra radicale in Parlamento.

Al suo interno resiste una componente di dirigenti politici che credono ancora nel progetto originale del Partito democratico, ma ogni giorno che passa, ogni cedimento a Giuseppe Conte, ogni balbettio sulla Russia, ogni silenzio su Milano, ogni presa di distanza dalla famiglia socialista e democratica europea, costoro si rendono conto di quanto la residuale testimonianza riformista non sia più sufficiente a rallentare l’involuzione, né a pescare nell’altro schieramento i consensi necessari a vincere le elezioni.

Che fare, quindi? Come può la componente adulta del Partito democratico provare a incidere politicamente?

Non ci sono strade alternative alla sfida diretta alla Segretaria che ha occupato il Pd, nonostante le probabilità di vincerla siano pochine. Si vedrà. Ma anche se l’ala originalista del Pd dovesse perdere contro gli occupy Pd, una volta che si sarà contata e pesata al termine di una battaglia nobile, leale e aperta, avrebbe davanti a sé l’occasione e la condizione per far nascere una nuova formazione politica di centrosinistra, saldamente legata alla famiglia politica socialista e democratica europea, capace di rivendicare lo spirito del Lingotto e di rilanciare le ragioni che portarono alla fondazione del partito oggi occupato da Schlein.

Insomma, la strada è uscire dal Pd per farne un altro. Non per riesumare la Margherita, non per inseguire Renew, non per esercitarsi in alchimie politiche. La strada è rifare il Pd. Quello originale.

(linkiesta.it – Christian Rocca)

Troppi medici impietosi fanno le piaghe del Pd sempre più puzzolenti. Troppi schemi teorici rischiano di relegare il Pd in un infinito e stucchevole laboratorio più partitico che politico.

Credo di vedere una dicotomia tra il velleitario riformismo e il radicaleggiante nuovismo. Innanzitutto occorrerebbe chiarire cosa si intende per riforme e per il conseguente ritorno al riformismo: concetti in cui rientra tutto e di più. Dall’altra parte sarebbe necessario capire cosa possa essere una sinistra populista e radicale.

Sulla prima impostazione scalpiterebbe la vetero-dirigenza in vena di rivincita; sulla seconda resisterebbe Elly Schlein forte di un mandato extra-partitico e puntato al nuovo di zecca.

In mezzo a questi due fuochi sta l’impostazione culturale originaria del partito democratico: la problematica ma affascinante fusione tra idealità cattolica e socialista. Alla prova dei fatti questa operazione non ha funzionato: non ho ancora capito se a causa di gelosie correntizie e di resistenze dirigenziali o per effettiva incompatibilità valoriale.

Bisognerebbe ricominciare tutto daccapo, perché a mio giudizio l’intuizione di fondo era e rimane valida. Se restiamo impiccati al dualismo tra riformismo alla franceschiniana e nuovismo alla schleiniana, finiamo come Coppi e Bartali al campionato del mondo.

Se è vero che le idee camminano sulle gambe degli uomini, dopo avere rispolverato il senso originario della sinistra e averlo coraggiosamente attualizzato, sarebbe indispensabile mettere il progetto riveduto e corretto in mani buone. Come ho già scritto, vedo due personaggi in grado di portare avanti una simile rifondazione del Pd tutto intero, senza sciocche scissioni e senza pulizie politiche: Gianni Cuperlo e Graziano Delrio. Avranno voglia di cimentarsi in questa impresa?

Qualcuno comincia subito col temere che non abbiano il carattere e la convinzione necessari: proviamo innanzitutto a chiederglielo e poi aiutiamoli. Qualcosa di buono comunque ne dovrebbe sortire. Da cattolico e da cittadino di sinistra a questo nuovo eventuale Pd mi iscrivo al buio. Sì, perché sono stanco di assistere alla castrazione della sinistra fatta chimicamente col moderatismo dei miei stivali e/o chirurgicamente con le forbici populiste delle mie e altrui rabbie.

Un vecchio Trumpone nella banda mondiale

Non ci sono segnali che Putin sia disposto ad accettare un summit con Trump e Zelensky. Dopo settimane di contatti telefonici e minacce di ritorsioni se Putin non si fosse piegato a una tregua o a un vertice trilaterale, Trump ha dunque ufficialmente messo da parte la richiesta di cessate il fuoco nella guerra in Ucraina e si è allineato alla posizione di Putin. La chiusura dell’incontro di Anchorage in assenza di passi avanti concreti per la pace non ha portato con sé le «durissime conseguenze economiche» che il presidente americano aveva promesso contro la Russia. Mosca dunque può continuare a combattere, ad attaccare civili (il loro rispetto era stata un’altra linea rossa tracciata da Trump per Putin e poi abbandonata) e a strappare terre mentre si svolgono i colloqui per una soluzione finale al conflitto. Il leader del Cremlino ancora una volta è riuscito a guadagnare tempo ed evitare sanzioni punitive, mentre la calorosa accoglienza di Trump l’ha sdoganato dall’angolo in cui era stato spinto da tutti i leader occidentali.

Un esito, fa notare il New York Times, che ricorda il risultato dell’incontro di Trump con Kim Jong-un, durante il primo mandato del tycoon «caratterizzato da abbracci, strette di mano e lettere di ammirazione» mentre il leader nord coreano continuava a far crescere il suo arsenale nucleare. Mosca ha infatti intravisto nell’applauso e nell’assenso di Trump a Putin di venerdì un’opportunità di allontanare ulteriormente l’America dai suoi tradizionali alleati: «Una nuova architettura di sicurezza internazionale è all’ordine del giorno e l’Europa deve accettarla», ha detto Andreij Klishas, un senatore russo, dopo il vertice. (da “Avvenire” – Elena Molinari)

Niente cessate il fuoco, niente sanzioni, niente summit con la partecipazione di Zelensky: Trump esce a mani apparentemente vuote dall’incontro con Putin al di là delle reciproche carinerie e dello scaricamento delle responsabilità del barile belliche addosso a Biden.

Se è tutta qui l’abile potenza trumpiana, c’è sinceramente da ridere (meglio dire da piangere) e da deridere gli americani che l’hanno votato (meglio dire che gli americani sono dei perfetti imbecilli).

Temo però che ci sia di peggio: una sporca intesa per la quale Putin ottiene un allontanamento degli Usa dall’Europa e un addomesticamento della Nato, concedendo soltanto l’abbassamento della propria cresta imperialistica. Il tutto condito da segrete intese economiche: altro che sanzioni…

Cosa aveva promesso Trump in campagna elettorale? La fine dei due conflitti in corso: Ucraina e striscia di Gaza. Se andiamo avanti così, a Gaza faranno un resort turistico di lusso dove gli europei andranno a svernare e scaricare le tensioni diplomatiche e in Ucraina una dependance russa in cui tra l’altro portare in visita le scolaresche per spiegare loro che il comunismo si evolve ma non muore mai.

 

 

 

 

Le torte in faccia agli uomini di sicure speranze

Dopo giorni di anticipazioni e tre ore di colloqui, Donald Trump e Vladimir Putin non si sono intesi su alcun passo avanti concreto verso la fine della guerra in Ucraina.

Alla fine del vertice in Alaska — il primo faccia a faccia fra i due dal 2018 — i presidenti americano e russo hanno menzionato vagamente «molti punti concordati», ma non hanno annunciato nessun accordo, tanto meno il cessate il fuoco che il capo della Casa Bianca insegue da mesi e Putin rifiuta.

Parlando a fianco dell’omologo russo dalla base Usa Elmendorf-Richardson di Anchorage, Trump ha assicurato che progressi sono stati fatti: «Molti elementi sono stati concordati, e ne restano solo pochissimi», ha detto, ma non ha spiegato quali. Poi ha concluso: «Non c’è accordo finché non c’è un accordo».

Poco prima, Putin aveva riaffermato le sue richieste per mettere fine alle ostilità. «Siamo convinti che per rendere un accordo duraturo, dobbiamo eliminare tutte le cause principali del conflitto», ha detto: una frase che dall’inizio dell’invasione usa per riassumere le sue pretese sull’Ucraina. Vale a dire, che Kiev ceda a Mosca il territorio che la Russia controlla, anche in parte, si disarmi, rinunci all’adesione alla Nato e alla Ue e cambi il suo governo. «Ci aspettiamo che Kiev e le capitali europee non ostacolino i lavori» ha concluso il capo del Cremlino.

Il leader russo ha poi concesso a Trump un punto che ripete dal 2022: «Il presidente ha affermato che se fosse stato presidente allora non ci sarebbe stata la guerra, e sono abbastanza sicuro che sarebbe effettivamente così — ha detto Putin —. Posso confermarlo».

Nessuno dei due ha risposto alle domande delle centinaia di giornalisti presenti, ma si sono salutati calorosamente, promettendosi di rivedersi molto presto. «A Mosca», ha detto Putin in inglese. «Questo è interessante — ha risposto Trump —. Mi farò criticare, ma può succedere».

Più tardi, in un’intervista a Fox News, Trump è sembrato volersi defilare dal suo ruolo di mediatore, dicendo che sta a Volodymyr Zelensky e Putin organizzare un incontro per raggiungere un cessate il fuoco. «Ora spetta davvero al presidente Zelenskiy farlo», ha detto. (da “Avvenire” – Elena Molinari)

C’è un detto scurrile ma significativo in dialetto parmigiano che dice: “Co’ vôt pretendor da un cul ‘na romanza?”. Lo potremmo aggiornare in “Co’ vôt pretendor da du cul un duètt?”. Questa in estrema sintesi la conclusione del tanto sbandierato incontro al vertice fra Trump e Putin.

Si fa grande fatica a raggiungere seri accordi quando si parte da rette intenzioni e corrette premesse, figuriamoci quando tutto è lasciato a trattative basate sulla ricerca di equilibri di puro potere.

Probabilmente i due avranno raggiunto inconfessabili accordi sottobanco, nel senso che ognuno possa continuare a fare “i cazzi suoi”, vale a dire l’esatto contrario di pace, ma persino questa sorta di brutale spartizione di torte lascia il tempo che trova, in quanto prescinde dalla presenza di un pasticciere molto forte sul mercato, vale a dire la Cina.

Sento in giro speranzose espressioni sul clima di dialogo, ma quale dialogo? Quello fra Trump e Putin non è e non può essere un dialogo, ma soltanto una strizzata d’occhi fra patentati e delinquenziali bugiardi. Il resto è commedia mediatica, che copre i più sporchi giochi di potere.

Come ha recentemente affermato Massimo D’Alema la politica anche a livello internazionale prescinde ormai completamente dai valori ma anche dai pur legittimi interessi di parte: come appare quotidianamente dalle dichiarazioni contraddittorie dei capi di governo, la navigazione si svolge senza bussola, i potenti (?) non sanno quel che vogliono e brancolano nel buio totale in cui la guerra non può che farla da padrona.

E allora? Nonostante tutto bisogna sperare. “Spes contra spem” è una locuzione latina, nonché un motto di san Paolo, che significa letteralmente “speranza contro speranza”. In pratica, si riferisce alla capacità di sperare anche quando non ci sono ragioni apparenti per farlo, o quando le circostanze sembrano indicare il contrario. È un’espressione che indica una speranza che persiste nonostante le difficoltà, spesso legata alla fede e alla determinazione.

Nonostante il fragore delle armi che risuona a Gaza come a Kyiv, e non solo, oggi «la speranza c’è: dobbiamo cercarla anche attraversando l’oscurità, le difficoltà, i problemi». È quanto ha assicurato il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana. «La speranza non è qualcosa che si afferma immediatamente, richiede di attraversare i problemi che possono e debbono essere risolti», ha spiegato il porporato ai giovani partecipanti.

Quando a livello internazionale, a proposito della guerra in Ucraina, è stato annunciato un incontro in Alaska tra il presidente statunitense Donald Trump e quello russo Vladimir Putin, Zuppi ha auspicato che «il dialogo prevalga e un incontro così importante possa dare i frutti desiderati». «La comunità internazionale si è molto preoccupata di garantire la difesa dell’aggredito»: al contempo, ha riflettuto, è necessario «favorire un dialogo» che «onestamente c’è stato molto poco». Guardando ai conflitti di oggi, ha ricordato, Papa Leone XIV «chiede di fare quanto prima un vero cessate-il-fuoco»: «Non lasciamolo da solo, diamo forza all’appello» del Pontefice, è stata la sollecitazione del porporato. Di qui un invito a fare proprio l’appello di Papa Prevost – che, ha evidenziato, «si è coinvolto» in prima persona per fare «della Sede Apostolica un luogo di vera ricerca della pace» – a «combattere ogni inimicizia con l’amicizia. (da Vatican News)

Papa Francesco parlava spesso della speranza, sottolineando che è una virtù fondamentale per i cristiani e per il mondo intero, specialmente in tempi difficili. Egli la descriveva come una forza che non delude, basata sulla fede nella risurrezione di Cristo e capace di illuminare anche i cuori più oscuri. La speranza, per Papa Francesco, non era un’illusione passiva, ma una virtù combattiva e paziente che ci spinge ad agire, a seminare il bene e a cercare il cambiamento.

Il cardinal Carlo Maria Martini, in un discorso tenuto a Vallombrosa nel 1984, sosteneva in termini provocatoriamente critici come la prassi cristiana non riesca a trovare il giusto rapporto tra la speranza escatologico-messianica e le speranze, le aspettative degli individui e delle comunità, in relazione alla giustizia, ai diritti umani e così via.

In conclusione dobbiamo cimentarci nella sfida della speranza a prescindere dalle pantomime dei potenti della terra, come appunto il recente incontro svoltosi in Alaska tra due galli, che ci vogliono far passare tutti da galline.