Gli studenti di tutta Italia ieri mattina si sono fermati. I motivi dello sciopero – a sentire le loro voci e a leggere i manifesti delle sigle che hanno proclamato lo sciopero (Unione degli studenti e Fridays for future) – erano molti e distanti tra loro: «Investimenti nell’istruzione pubblica», «riforma della scuola-lavoro per la sicurezza degli studenti», «blocco del riarmo europeo», «riconoscimento italiano della Palestina» e «maggiore attenzione della politica alla crisi climatica». Il filo rosso che ha unito le cinquanta piazze animate da cortei in tutto il Paese, secondo lo slogan che ha infiammato anche le mobilitazioni online, è l’opposizione al Governo: #Nomeloniday è l’hashtag rimbalzato in rete. E non sono mancate, per questo, tensioni tra le forze dell’ordine e i gruppi più ostili all’Esecutivo: a Bologna la Polizia ha bloccato con cariche un corteo che tentava di cambiare percorso per contestare alcuni membri del Governo presenti in città, mentre a Torino altri manifestanti hanno ferito otto agenti scagliando un tombino contro il cordone che tentava di impedire il blocco dei binari nella stazione di Porta Nuova. Ad ascoltare i circa 20mila studenti in piazza, invece, le rivendicazioni erano tutte connesse e prioritarie per la cosiddetta Generazione Z (i nativi digitali, nati tra il 1997 e il 2012): «Crediamo nell’intersezionalità – commenta Micol, 17 anni, scesa in piazza a Milano –. Significa che in ogni manifestazione dobbiamo parlare di tutti questi argomenti per noi importanti: dalla Palestina ai crimini ecologici. Anche perché a scuola non lo facciamo». Al suo fianco Ginevra Torti, 20 anni, riassume tutto con un cartello scritto in inglese: «La Generazione Z lotta per il proprio futuro». (da “Avvenire” – Andrea Ceredani)
Così come la Chiesa comunità non si identifica e non si esaurisce nelle figure del papa, dei cardinale, dei vescovi, e nelle strutture vaticane e periferiche, la comunità politica non si risolve nella vita delle istituzioni democratiche: in democrazia esiste l’humus della società civile, è lì che risiede la forza d’urto popolare, è lì che la democrazia trova il suo nutrimento in funzione di dar vita alle istituzioni rappresentative.
Mai forse come in questo momento storico si è vissuta questa mancanza di collegamento tra politica e società civile. La crisi dei partiti politici e finanche dei sindacati, l’astensionismo elettorale sempre più marcato, la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni sono tutti precisi, gravi e concordanti indizi che fanno la prova dei rischi che sta correndo la democrazia.
Di fronte a questa inquietante situazione il ceto politico governante tende squallidamente a dribblare nella migliore delle ipotesi, se non a criminalizzare nella peggiore delle ipotesi, ogni e qualsiasi anelito di protesta proveniente dalla società civile, si chiami sciopero generale, si chiami occupazione delle università, si chiami manifestazione contro il governo, si chiami insofferenza verso la falsa narrazione mediatica.
Il tutto deve essere ricondotto in una sorta di deriva plebiscitaria pro o contro il governo. I media aggiungono un pizzico di insana verifica politica: ogni volta che si assiste ad una forte protesta popolare immediatamente vengono diramati i dati dei test che segnano l’aumento del consenso al premier, al governo e ai partiti di maggioranza. Come a dire: è perfettamente inutile protestare… Piazze piene e urne sempre più vuote…
Così si devitalizza la vita civile di un Paese, riducendola a mera e sbrigativa espressione di giudizio verso i governanti. Non solo, ma si punta addirittura a istituzionalizzare questa deriva plebiscitaria trasfondendola in presidenzialismo o premierato.
Ormai si è insinuata nella mentalità popolare la convinzione che discutere, protestare, manifestare siano cose inutili: prendere o lasciare, caso mai se ne riparlerà alla prossima scadenza elettorale con percentuali di votanti ridotte al lumicino.
Il discorso vale a livello nazionale, ma anche internazionale. Protestare contro i crimini di guerra è tempo perso, tanto vale alzare le spalle e cercare di vivacchiare politicamente alla meno peggio.
Purtroppo, se aspettiamo che la pace la costruiscano i facitori di guerre, ci candidiamo a vivere in un modo dominato dagli egoismi e dalle ingiustizie.
Arrivo ad esagerare, ma sempre meglio qualche vetrina spaccata ad opera dei soliti marginali violenti, che l’assordante generale silenzio. Meglio la pace dei sepolcri o qualche scaramuccia a latere delle proteste?
La vivacità civile può avere il prezzo degli sfoghi violenti, ma non per questo bisogna silenziare tutto e tutti nell’ordine costituito, spacciandolo magari come difesa del quieto vivere per i deboli.
Stiamo bene attenti: se la pubblicità è l’anima del commercio, la protesta, forse prima, dopo e più del voto, è il sale della democrazia.
Ogni manifestazione di protesta viene immancabilmente inquinata dai soliti cretini che creano l’alibi per squalificare tutto: non è giusto ed è una comoda semplificazione da rifiutare categoricamente. Però se uno esprime simili idee viene immediatamente considerato un seminatore di zizzania, un fomentatore di odio, un terrorista.
Ormai i governanti di turno non tentano nemmeno più di cavalcare la protesta, la criminalizzano o la consegnano all’ipotetica strumentalizzazione da parte delle opposizioni: due piccioni con una fava, la neutralizzazione delle piazze e la decantazione delle minoranze di ogni genere.
Questo è purtroppo il circolo vizioso in cui stiamo stringendo la vita democratica: stringi oggi, stringi domani, la democrazia rischia di diventare insipida, di morire asfissiata o di trasformarsi in autocrazia, il che se non è zuppa e pan bagnato.
