Così è (anche se non vi pare)

Rasmussen, ex segretario generale Nato: “La pace è lontana, Putin vuole vincere sul campo”. L’ex numero uno dell’Alleanza atlantica: “Serve più pressione su Mosca con gli aiuti militari a Kiev”. (dal quotidiano “La Stampa”)

(…)

Intanto, sul versante politico statunitense, Donald Trump sostiene che la loro impressione sia quella di un Vladimir Putin “desideroso di porre fine alla guerra”, una lettura che contrasta con la chiusura mostrata da Mosca nei colloqui. L’Unione Europea ha reagito alle ultime minacce dello “zar” bloccando completamente l’import di gas russo, anche se resta l’incognita del veto di Viktor Orban. La Nato, che si prepara a uno scenario di mancato accordo, alza il livello di allerta: “Mosca appare sempre più sconsiderata. Si va avanti con armi e sanzioni”. (fanpage.it)

Sono un grande ammiratore di Luigi Pirandello: il suo “così è (se vi pare)” si attaglia perfettamente alla situazione pseudo-diplomatica in essere riguardo alla guerra tra Russia e Ucraina.

I diplomatici in pensione, che forse vedono le cose con maggior distacco, danno una versione drammatica della situazione vocata alla guerra senza soluzione di continuità, fino all’ultimo respiro.

Donald Trump tende invece ad incantare il mondo, basandosi “sull’ogni simile ama il suo simile” e spargendo fiducia in una Russia sotto-sotto orientata a chiudere la guerra.

L’Unione Europea, per convinzione o per convenienza, si attesta sul “si vis pacem para bellum”, continuando a fornire aiuti militari all’Ucraina, ma soprattutto rimpinguando i propri arsenali e allertando i propri eserciti.

La Nato resta fedele alla sua missione di “abbaiare”.  Papa Francesco aveva usato la metafora dell'”abbaiare della Nato” per esprimere la sua preoccupazione che l’espansione della Nato verso la Russia potesse aver contribuito a scatenare il conflitto in Ucraina. In un’intervista al Corriere della sera, aveva affermato che “forse l’ira facilitata dall’abbaiare della Nato alla porta della Russia ha indotto Putin a reagire male”. Non aveva giustificato l’aggressione russa, ma aveva cercato di interpretare il conflitto in una chiave storica e geopolitica, parlando di “imperialismi in conflitto”. Questa interpretazione ha un fondo di verità anche oggi!?

E la Cina? L’oggetto misterioso nel quale mi riduco a sperare (sperànsa di mälvestì ca fâga un bón invèron). I cinesi forse interpretano attualmente la realpolitik nel modo più razionale ed attendibile.

La guerra in Ucraina fa felice la Cina: perché ora Mosca dipende da Pechino. Ruoli ribaltati rispetto al passato: ora è Mosca a dipendere da Pechino e ad acquistare armi e mezzi militari. (dal quotidiano “La Stampa)

Non è più da escludere che nel dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin si inserisca anche la Cina. Rimandate le tariffe, i rapporti con Washington sono più distesi, e “l’amicizia senza limiti” con la Russia rende Pechino un interlocutore privilegiato nel difficile raggiungimento di una tregua con l’Ucraina. (da “Il Fatto Quotidiano)

Fare sintesi è un problema improbo: ognuno ha una sua verità e la pace se ne va. Paradossalmente le residue speranze sarebbero affidate alle reciproche fanfaronate di Trump e Putin. L’unica entità in grado di elaborare una strategia di pace dovrebbe essere l’Europa, che invece oscilla tra l’appiattimento sulla schizofrenia trumpiana, le strizzate d’occhio all’invadenza putiniana e lo sfruttamento delle convenienze economiche che la guerra propone. Non resta che guardare col fiato sospeso alle empatiche intenzioni di Xí Jìnpíng…

La guerra russo-ucraina, come del resto tutte le guerre, dimostra la propria insensatezza etica, ma tende ad autoalimentarsi per forza d’inerzia diplomatica e politica: una guerra che poteva essere prevenuta e scongiurata per tempo e che via via è diventata imprescindibile e infinita.

L’ex-segretario di Stato statunitense Kissinger, pur nella sua lucida e perfida realpolitik, dimostrava che si poteva evitare questo conflitto; l’ex segretario generale della Nato Rasmussen sostiene che, una volta iniziata, questa guerra chi l’ha iniziata la vuole consumare fino in fondo.

La diplomazia rischia di essere la sistematica elaborazione dell’ovvio politico; la politica rischia di perpetuare il sistematico mantenimento degli assetti di potere; le genti rischiano di essere sacrificate sugli altari politico-diplomatici. Io, nonostante tutto, rischio di logorarmi nel mio testardo e irrinunciabile pacifismo.

Per rimanere laicamente con Luigi Pirandello, indosso il berretto a sonagli e resto fedele alla frase chiave: “Io me la voglio portare sana, libera – sgombra”. Questo si riferisce all’ intenzione di preservare la mia reputazione e il mio onore di fronte alle conseguenze di una strisciante guerra mondiale.

Volendo guardare in alto e facendomi forza col pensiero di Giorgio La Pira, non mi resta che togliermi il berretto di cui sopra e, a capo scoperto, pregare. La politica è la più grande espressione di carità cristiana. La preghiera è il più forte baluardo contro la violenza umana.

 

Papocchio 3.0 L’impertinente speranza nell’antipapa Leone

Durante la visita di papa Leone XIV al Quirinale mi sono molto commosso ripensando alla sobrietà cerimoniale osservata da papa Francesco in simili occasioni: tutto cambiato, tutto riportato alla tradizionale stucchevole pompa. Qualcuno mi critica perché continuo ad insistere su questa discontinuità tra i due papi. Sì, lo faccio perché mi sento defraudato di un patrimonio di semplicità e povertà di stile, acquisito durante il papato bergogliano: sono un figlio che ha l’impressione di assistere allo scialacquamento dell’eredità paterna. Il mio cuore batte così anche se il cervello mi consiglia di aspettare con pazienza i contenuti dottrinali che si prospettano molto interessanti e quelli pastorali ancora tutti da scoprire, non fermandomi ai gesti ed agli atteggiamenti iniziali.

Ho provato quindi in questi giorni a mettere da parte il bicchiere mezzo vuoto della mia verve ipercritica rispetto al papato di Leone XIV per guardare al bicchiere mezzo pieno di un pontificato che potrebbe segnare, nel bene e nel male, l’inizio della fine del papismo.

È indubbio come da Giovanni Paolo II in poi l’identità cattolica si sia espressa quasi esclusivamente nell’azione pastorale del papa: chi dice Chiesa dice papa e viceversa.

Io, ad esempio tanto per rendere l’idea, ho una originale opinione riguardo all’atteggiamento dei papi verso la Curia e gli intrighi vaticani: Paolo VI soffriva, si macerava e poi si arrendeva all’impossibilità del cambiamento; Giovanni Paolo I somatizzò il dramma al punto da morirne in pochi giorni; Giovanni Paolo II se ne fregò altamente, andò per la sua strada, si illuse di cavare anche un po’ di sangue dalle rape; Benedetto XVI ci rimase dentro alla grande e gettò opportunamente la spugna; papa Francesco ha scelto coraggiosamente di brandire e usare, oserei dire esclusivamente, l’arma evangelica facendo scoppiare le contraddizione nelle coscienze.

Quando constato come tanti papi siano diventati o stiano diventando Santi, mi viene qualche dubbio. Pur con tutto il rispetto, temo che nell’aldilà troveremo parecchie novità, riguardo alla nostra vita e a quella della Chiesa.

La mia consolatoria e un tantino maliziosa speranza è che il papato di Leone XIV sia talmente poco carismatico e profetico, ma così umile e disponibile, da innescare un meccanismo di relativizzazione papale a vantaggio di una forte attenzione e di un concreto coinvolgimento di tutte le esperienze comunitarie in atto, talvolta assai nascostamente, nella Chiesa.

In questa nuova logica, finalmente conciliare e sinodale, ci troveremmo a fare i conti con una rischiosa ma benefica vivacità di idee e proposte incarnate in diverse esperienze di vita cristiana, che si allargherebbero oltre la sempre più ristretta cerchia clericale.

E, per dirla tutta, nemmeno molti uomini di Chiesa riescono a far brillare la bellezza di Dio. Più che testimoni, spesso sembrano burocrati del sacro, funzionari di un’agenzia extraterrestre che promette viaggi premio in un altro mondo. (da una recente omelia di don Umberto Cocconi)

Forse verrebbe superata la ormai sterile parrocchialità a favore del fecondo impegno nel sociale; forse cadrebbe il dramma della crisi delle vocazioni religiose per puntare sul rimescolamento delle vocazioni e delle ordinazioni; forse il ruolo della donna verrebbe veramente riconosciuto e valorizzato; forse il sesso entrerebbe positivamente nella condizione esistenziale di tutti i cattolici; forse diventerebbe normalità quanto testimoniato dal cardinal Martini così come ricordato nel terzo anniversario della sua morte.

«Tre anni or sono moriva il card. Carlo Maria Martini, grande studioso della Bibbia, pastore e profeta. Sulle orme di Gesù, partendo dalla giustizia quale conseguenza della fede, era aperto alle persone, non facendosi mai imprigionare dagli e negli schemi,  con una grande attenzione ai non credenti, ai poveri, ai malati, agli indigenti, agli stranieri, agli omosessuali, alle coppie di fatto, ai divorziati risposati, ai detenuti, financo ai terroristi; affrontava serenamente il dialogo con le altre religioni, si poneva, a cuore aperto, davanti alle problematiche sessuali, alla bioetica, all’eutanasia, all’aborto, all’accanimento terapeutico, all’uso del preservativo, al sacerdozio femminile, al celibato sacerdotale. Sempre pronto all’incontro con gli “altri”, con tutti» (Luciano Scaccaglia ricorda il Cardinale Carlo Maria Martini)

Finirebbe una buona volta il clericalismo di preti e laici: ricordiamoci che Gesù non era un prete…

Mi illudo (?) cioè che possa terminare la visione unilaterale e verticistica del “papacentrismo”: la Chiesa Cattolica è una comunità ed al suo interno esistono carismi (servizi) fra i quali c’è anche quello del Vescovo di Roma. A tutti i livelli, la Chiesa deve esprimere, all’interno e all’esterno, la piena e totale adesione allo stile evangelico, liberato dalle incrostazioni della tradizione e dai lacci dell’esercizio del potere. Quindi la procedura delle scelte deve essere rivista sostanzialmente e formalmente in un bagno di partecipazione e condivisione coinvolgente: bisognerebbe partire dall’assoluto primato della dimensione  pastorale rispetto a quella istituzionale; al centro dello stile ecclesiale si dovrebbe porre la collegialità episcopale; la vita dell’istituzione e la stessa pastorale andrebbero sclericalizzate, liberate dall’affarismo, ridotte all’essenziale in senso economico ed organizzativo e subordinate alle esigenze evangeliche; occorrerebbe puntare al forte coinvolgimento del laicato ed alla imprescindibile valorizzazione della presenza femminile.

Al di là dei limiti legati alla persona del papa sottratto alla (s)comoda infallibilità, bisogna prendere coscienza della fragilità cronica di una Chiesa incapace di leggere i segni dei tempi e di andare incontro ai problemi dell’uomo, della donna, della società, del mondo. Il fatto strano non è l’autocoscienza della fatica di un papa, ma il vero dramma è una Chiesa capace solo di succhiare il latte dalle mammelle più o meno floride del successore di Pietro, che aspetta sempre il “la papale” per suonare e cantare qualsiasi motivo musicale,  che si piange addosso, che si guarda l’ombelico, che arranca rispetto alle sfide del mondo contemporaneo, che si rifugia nello sterile dogmatismo e nel penoso rigorismo, che si limita a rammaricarsi della scarsità degli operai nella vigna e della propria appassita capacità all’impegno evangelico, che vive spesso di campanilismo ecclesiale o di retrograda contrapposizione alla modernità, che non rispetta la laicità dello Stato, che si compromette col potere, che difende ipocritamente la vita con i principi irrinunciabili senza condividere i drammi delle persone.

Occorre finalmente un colpo di reni evangelico raccogliendo le provocazioni del Concilio Vaticano II e sviluppando la debole ma vitale testimonianza di papa Francesco e magari approfittando degli spazi concessi da un discreto e delicato papa Leone: la collegialità vissuta come partecipazione di tutti, la centralità del Popolo di Dio, l’apertura al ruolo della donna nella pastorale e nei sacramenti, una visione nuova e gioiosa della sessualità nel rispetto delle tendenze personali e intime e, soprattutto, una Chiesa povera, trasparente a livello economico, esperta in comprensione, quella di Gesù, e non in condanne e anatemi.

La forte presa di coscienza ed il coraggio del dialogo interno ed esterno in stile comunitario saranno il miglior viatico per promuovere un rinnovamento di metodo e di merito. La Chiesa ha bisogno di cambiare. Non basta pregare e tacere. Credere e obbedire al papa. Ogni cristiano ed ogni comunità deve portare il proprio contributo critico alla vita della Chiesa. All’attesa si devono accompagnare la riflessione, la provocazione, la protesta, la proposta, l’impegno, la testimonianza, la condivisione.

 

 

 

 

Papocchio 2.0 = Prevost-Meloni

Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera): Sono ore di grande tensione tra la Nato e la Russia, si parla di guerra ibrida, prospettive di cyber attacchi e cose del genere. Lei vede il rischio di una escalation, di un conflitto portato avanti con nuovi mezzi come denunciato dai vertici Nato? E, in questo clima, ci può essere una trattativa per una pace giusta senza l’Europa che è stata in questi mesi sistematicamente esclusa dalla presidenza americana?

Papa Leone XIV: Questo è un tema evidentemente importante per la pace nel mondo, però la Santa Sede non ha una partecipazione diretta perché non siamo membri della Nato e di tutti i dialoghi finora. Anche se tante volte abbiamo chiesto il cessate il fuoco, dialogo e non guerra. E una guerra con tanti aspetti adesso, anche con l’aumento delle armi, tutta la produzione che c’è, cyber attacchi, l’energia. Ora che arriva l’inverno c’è un problema serio lì. È evidente che, da una parte, il presidente degli Stati Uniti pensa di poter promuovere un piano di pace che vorrebbe fare e che, almeno in un primo momento, è senza Europa. Però la presenza dell’Europa importante e quella prima proposta è stata modificata anche per quello che l’Europa stava dicendo. Specificamente penso che il ruolo dell’Italia potrebbe essere molto importante. Culturalmente e storicamente, la capacità che ha l’Italia di essere intermediaria in mezzo a un conflitto che esiste fra diverse parti. Anche Ucraina, Russia, Stati Uniti… In questo senso io potrei suggerire che la Santa Sede possa incoraggiare questo tipo di mediazione e si cerchi e cerchiamo insieme una soluzione che veramente potrebbe offrire pace, una giusta pace, in questo caso in Ucraina. (dalla conferenza stampa di Papa Leone XIV durante il volo di ritorno dal Libano verso Roma)

Dopo la sviolinata a Erdogan, ecco l’assist al governo italiano. Mi chiedo: non si è accorto il Papa che l’Italia a livello internazionale è molto fumo e poco arrosto, che non ha né il coraggio, né la capacità, né la credibilità per intromettersi seriamente nelle trattative di pace?

Sarò prevenuto e sospettoso (chiedo scusa per la mia sgarbata impertinenza e per la scarsa deferenza), ma continuo a intravedere mosse diplomatiche piuttosto avventate e alquanto discutibili di Papa Leone XIV. Questa volta gli consiglierei, prima di parlare, di confrontarsi riservatamente con Sergio Mattarella. È lui l’unico interlocutore serio ed attendibile a livello italiano e, oserei dire, anche a livello europeo.

Non sono sicuro di avere capito bene. Se ho capito male, chiedo umilmente scusa: resta comunque in me la sensazione di pericolosa improvvisazione. Il Papa pensa che la Santa Sede e l’Italia possano cercare insieme soluzioni di pace per l’Ucraina? Santità, guardi che la politica è come la musica: bisogna capirla! E con chi vorrebbe concordarla questa azione? Col ministro Tajani? Ma mi faccia il piacere… Con la premier Meloni? È in tutt’altre tattiche impegnata, vale a dire a leccare i piedi a Trump (mi sono contenuto…)!

Ripeto: prima di parlare a vanvera ascolti i consigli del nostro Presidente della Repubblica e poi magari conti fino a dieci. Il consiglio vale a maggior ragione se intendeva ipotizzare un’azione concordata tra Santa Sede ed Europa. Sempre più difficile, come dicono in ambienti circensi.

E il suo Segretario di Stato cosa ne dice? Forse ne capisce un po’ di più. Se non ha fiducia in lui, lo sostituisca, ma tenga fede al buon proposito di agire con un gioco di squadra, almeno con i cardinali, che l’hanno eletta o che comunque hanno le mani in pasta. Faccia quattro chiacchiere magari con il cardinale Zuppi, che sta dimostrando di avere, oltre una importante esperienza acquisita sul campo, una notevole preparazione diplomatica e idee chiare e concrete sul ruolo umanitario e non politico della Santa Sede.

 

 

Il papocchio Prevost-Erdogan

Seyda Canepa, della televisione turca: “Santità, con il presidente Erdogan, al di là delle dichiarazioni ufficiali, avete parlato della situazione a Gaza visto che il Vaticano e la Turchia ha la stessa veduta sulla soluzione dei due popoli, due Stati? E poi sull’Ucraina, il Vaticano più di una volta ha sottolineato il ruolo della Turchia a cominciare dall’apertura del corridoio del grano all’inizio del conflitto. Quindi, vede le speranze per una tregua in Ucraina e per un processo di pace più veloce a Gaza in questo momento? Grazie mille”.

Papa Leone XIV: “Grazie! Certamente abbiamo parlato di tutte e due le situazioni. La Santa Sede già da diversi anni pubblicamente appoggia la proposta di una soluzione dei due Stati. Sappiamo tutti che in questo momento ancora Israele non accetta questa soluzione, ma la vediamo come unica soluzione che potrebbe offrire – diciamo – una soluzione al conflitto che continuamente vivono. Noi siamo anche amici di Israele e cerchiamo con le due parti di essere una voce mediatrice che possa aiutare ad avvicinarci a una soluzione con giustizia per tutti. Abbiamo parlato di questo con il presidente Erdogan, lui certamente è d’accordo con questa proposta. La Turchia ha un ruolo importante che potrebbe giocare in questo. Lo stesso con l’Ucraina. Già qualche mese fa con la possibilità di dialogo tra le parti Ucraina e Russia, il presidente ha aiutato molto a convocare le due parti. Ancora non abbiamo visto purtroppo una soluzione, però oggi di nuovo ci sono proposte concrete per la pace. E speriamo che il presidente Erdogan con il suo rapporto con il presidente di Ucraina, della Russia e degli Stati Uniti, possa aiutare in questo senso a promuovere il dialogo, il cessate il fuoco e vedere come risolvere questo conflitto, questa guerra in Ucraina. Grazie”. (Conferenza stampa di Papa Leone XIV nel volo da Istanbul a Beirut)

 L’allora presidente del consiglio Mario Draghi nel 2001 si espresse in questi termini sul presidente turco Erdogan, scatenando una dura reazione: «Con questi dittatori, chiamiamoli per quello che sono, di cui però si ha bisogno per collaborare, uno deve essere franco nell’esprimere la propria diversità di vedute e di visioni della società e anche pronto a cooperare per assicurare gli interessi del proprio Paese, bisogna trovare l’equilibrio giusto».

E qual è il giusto equilibrio? Papa Leone sembra averlo trovato nel considerare Erdogan una sorta di interlocutore privilegiato del Vaticano per affrontare le gravi crisi belliche in Palestina e in Ucraina. Mi sembra un tantino azzardato. Capisco il bon ton diplomatico, apprezzo la volontà di dialogo, ma tutto ha un limite…

In una recente intervista, rilasciata a Corrado Augias nell’ambito della trasmissione “Torre di Babele” su La7, il cardinale Zuppi ha fatto riferimento all’azione del Vaticano per la pace in Ucraina: un impegno umanitario volto allo scambio dei prigionieri, in primis i bambini. Non sarebbe meglio limitarsi all’ambito umanitario e lasciar perdere la politica internazionale, laddove gli interlocutori sono uno peggio dell’altro. Sarebbe un po’ come se Gesù, anziché predicare le Beatitudini, si fosse messo ad auspicare la mediazione fra gli Israeliani e i Romani facendosi sponda su Erode.

La Santa Sede faccia il suo mestiere usando il linguaggio evangelico del sì-sì no-no, perché il di più viene dal maligno, peraltro incarnato dai loschi personaggi che dominano la scena mondiale.

Se proprio papa Prevost intende imbarcarsi nelle avventure diplomatiche, gli consiglierei un corso accelerato in materia, scegliendo come maestri tre suoi predecessori: papa Roncalli, che costruiva autentici capolavori nell’umanizzazione della diplomazia; papa Montini, che conosceva la politica meglio dei politici a cui era in grado di tenere testa; papa Bergoglio, che non risparmiava dissensi e provocazioni ai potenti della terra. Facendo magari una capatina nella storica eredità di Giorgio La Pira, che sapeva dialogare con tutti ma tenendoli sulla corda evangelica.

 

 

Le pietre dei contestatori e i peccati dei massacratori

La «ferma condanna» di Sergio Mattarella non spegne la polemica sull’assalto pro-pal alla redazione della Stampa, che deflagra definitivamente dopo il commento di Francesca Albanese, relatrice Onu per la Palestina. Mentre proseguono le manifestazioni contro il provvedimento di espulsione ai danni dell’imam di Torino, Mohamed Shahin, parte delle “ragioni” addotte dai responsabili per l’irruzione negli uffici del quotidiano. Albanese, in realtà, ha condannato con decisione la violenza ai danni del giornale torinese («occorre giustizia per quello che è successo»). Ma ha anche auspicato che quanto avvenuto venga preso come un monito dai giornalisti che «non fanno il proprio lavoro» e riportano notizie «senza un minimo di analisi e contestualizzazione». «Perché non avete coperto quello che è successo a Genova e in altre città italiane? Sono in tantissimi a essere scesi in piazza – ha incalzato a margine di un evento del Global movement to Gaza per la Giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese –. Il genocidio continua anche grazie a questo silenziamento della verità. Non è normale che la stampa non stia raccontando cosa succede in Palestina dal giorno del cessate il fuoco». (da “Avvenire” – Matteo Marcelli)

Alla notizia dell’assalto alla redazione de “La Stampa”, nel mio piccolo, ho reagito facendo lo stesso ragionamento di Francesca Albanese. È inutile nasconderlo: sul massacro israeliano ai danni del popolo palestinese siamo succubi di una narrazione molto parziale e faziosa, quella che fa risalire tutte le responsabilità all’attacco di Hamas. I media, chi più chi meno, ci forniscono una versione sostanzialmente di parte e subdolamente filo-israeliana.

Non scandalizziamoci più di tanto quindi se qualcuno reagisce scompostamente, sbagliando magari il bersaglio, lanciando sbrigativamente pietre contro chi non è tuttavia senza peccato e rischiando di cadere nella protesta indistinta e violenta.

Basti pensare ai vergognosi distinguo fra genocidio e massacro, basti guardare a come Benjamin Netanyahu continui imperterrito a pontificare e a bombardare, basti fare riferimento a tutti i se e i ma occidentali di fronte alla carneficina nella striscia di Gaza, basti prendere atto delle scarsissime iniziative europee contro questa folle, cinica e, per certi versi, persino masochista vendetta israeliana.

I contestatori non vanno per il sottile, sparano nel mucchio mediatico e forse sbagliano il bersaglio, ma la loro reazione è comprensibile anche se giustificabile solo dal punto di vista emotivo. Di fronte al massacro dei palestinesi è certamente esagerato assaltare la sede di un giornale, ma è altrettanto inaccettabile il (quasi) silenzio dei governanti occidentali e italiani così come la versione a dir poco faziosa di certi media (non tutti, ma molti).

Non accetto quindi la strumentale criminalizzazione della contestazione, speculando sulla violenza di alcuni gruppi: non sono mai stato e non sarò mai un violento, credo che alla violenza si dovrebbe reagire con la forza della ragione, anche se, come dichiara Francesca Albanese, il silenziamento della verità è pure violenza a cui alcuni reagiscono con la violenza.

D’altra parte i rapporti tra israeliani e palestinesi sono da sempre improntati alla violenza: dopo quello che sta succedendo come si potrà mai invertire questa tendenza, come si potrà chiedere ai giovani palestinesi di soprassedere alla vendetta, come si potrà arrivare ai “due popoli – due Stati”.

Nel 2006, durante gli attacchi Hezbollah a Israele, in una seduta del Senato Italiano il senatore a vita Giulio Andreotti disse: “Ognuno di noi se fosse nato in un campo di concentramento e da 50 anni fosse lì e non avesse alcuna prospettiva di poter dare ai propri figli un avvenire sarebbe un terrorista”.

È facile condannare la violenza senza chiedersi le sue motivazioni. Il discorso vale anche oggi in riferimento ai seguaci di Hamas: cosa dovrebbero fare i palestinesi maltrattati sistematicamente dagli israeliani e penosamente governati dai propri dirigenti corrotti e incapaci?

Mi permetto di allargare il discorso ben consapevole dei rischi culturali che corro: cosa dovrebbero fare i contestatori pro-pal che intendono reagire ad una opprimente ed asfissiante valanga di falsità politiche e mediatiche tendenti all’omertà o all’indifferenza di fronte all’eccidio di un popolo?

Ognuno dia la sua risposta, che però non può essere quella del mero perseguimento giudiziario e della comminazione delle pene conseguenti per i trasgressivi contestatori. Non è giusto esigere la non violenza solo dai contestatori. Sì, il bastone per chi contesta con violenza e la carota per chi massacra i palestinesi.

 

Un ministro della guerra e…un papà della pace

“Reintrodurre in Italia un nuovo servizio militare, come in Francia e in Germania? Se lo deciderà il Parlamento sì”. Parola del ministro della Difesa Guido Crosetto secondo il quale “va fatta una riflessione sul numero delle forze armate, sulla riserva che potremmo mettere in campo in caso di situazioni di crisi”. Crosetto pertanto vuole tornare a discutere di servizio militare con una proposta con la reintroduzione della leva su base volontaria e non obbligatoria, specifica. Mentre la Francia annuncia il ripristino di 10 mesi di leva e la Germania mette in campo una serie di novità per potenziare l’esercito (con l’obiettivo di diventare “il più forte in Europa entro il 20229”), in Italia è il ministro della Difesa a “scaldare le truppe” provocando le critiche dei partiti di opposizione.

Da Parigi – dove ieri ha incontrato la sua omologa francese, Catherine Vautrin – Crosetto spiega che “se la visione che noi abbiamo del futuro è una visione nella quale c’è minore sicurezza, una riflessione sul numero delle forze armate va fatta”. Per questo annuncia che proporrà, prima in Consiglio dei ministri e poi in Parlamento, “una bozza di disegno di legge da discutere che garantisca la difesa del Paese nei prossimi anni e che non parlerà soltanto di numero di militari ma proprio di organizzazione e di regole”. Per Crosetto anche l’Italia deve muoversi a causa di un futuro che definisce “meno sicuro”: “Tutte le nazioni europee, mettono in discussione quei modelli che avevamo costruito 10-15 anni fa e tutti stanno pensando di aumentare il numero delle forze armate”. In passato, osserva, “abbiamo costruito negli anni scorsi modelli che riducevano il numero dei militari”. “Anche noi in Italia – ribadisce il ministro – dovremmo porci il tema di una riflessione che in qualche modo archivi le scelte fatte di riduzione dello strumento militare e in qualche modo porti a un suo aumento”.

“Ognuno ha un suo approccio diverso, alcuni hanno addirittura ripristinato la leva”, spiega Crosetto. Per il ministro le scelte andranno prese in Parlamento: “Le regole nel settore della difesa – dice – devono essere il più condivise possibile e nascere proprio nel luogo di rappresentazione del popolo”. Per questa ragione “più che un decreto legge, penso a una traccia che il ministero della Difesa porterà in Parlamento perché venga discussa, aumentata e integrata e in qualche modo costruisca uno strumento di difesa per il futuro”. Anche il governo italiano, pertanto, intende potenziare il suo esercito. (da “Il Fatto Quotidiano”)

Leggendo questa notizia sono rimasto letteralmente sbigottito. Il demenziale “si vis pacem para bellum” non ha limiti. L’Europa, forse per darsi una parvenza di importanza, forse per fare affari, forse per raggiunti limiti di ragionevolezza, gioca a sentirsi sotto attacco e a reagire col riarmo e con il potenziamento degli eserciti nazionali.

Per riprendermi dallo smarrimento cedo la parola a mio padre, riportando uno stralcio del libro che gli ho dedicato.

“Per chiudere con gli …. ismi poche battute sul militarismo. Mio padre aveva fatto il servizio militare con spirito molto utilitaristico ed un po’ goliardico (per mangiare perché a casa sua si faceva fatica), cercando di evitare il più possibile tutto ciò che aveva a che fare con le armi (esercitazioni, guardie, tiri, eccetera) a costo di scegliere la “carriera” da attendente, valorizzando i rapporti umani con i commilitoni e con i superiori, mettendo a frutto le sue doti di comicità e simpatia, rispettando e pretendendo rispetto aldilà del signorsì  o del signornò.

Raccontava molti succosi aneddoti soprattutto relativamente ai rapporti con il tenente cui prestava servizio.

Aveva vissuto quel periodo come una parentesi nella sua vita e come tale l’aveva accettato, seppure con una certa fatica.

Mio padre era estraneo alla mentalità militare, ne rifiutava la rigida disciplina, era allergico a tutte le divise, non sopportava le sfilate, le parate etc., era visceralmente contrario ai conflitti armati.  Quando capitava di ascoltare qualche notizia riguardante provocazioni fra nazioni, incidenti diplomatici, contrasti internazionali era solito commentare: “S’ag fis Mussolini, al faris n’a guera subita. Al cominciaris subit a bombardar”. 

Era una lezione di politica estera (sempre molto valida, più che mai in clima di unilateralismo, di guerra preventiva, etc.) e di antifascismo (bollando il regime per quello che era e non revisionandolo strumentalmente).

Ogni volta che sentiva notizie sullo scoppio di qualche focolaio di guerra reagiva auspicando una obiezione di coscienza totalizzante.

Mo s’ pól där ch’a gh’sia ancòrra quälchidón ch’a pärla äd fär dil guèri?

E con questo interrogativo molto più profondo di quanto possa sembrare avrei terminato il capitolo relativamente agli insegnamenti ed alle testimonianze paterne in materia politica”.

È detto tutto. Era l’altro ieri e sembra oggi, magari addirittura domani!

 

 

Il coraggio di gridare la propria indignazione

La frase “ogni società ha i governanti che merita” suggerisce che il governo di una nazione è il risultato delle caratteristiche e delle azioni dei suoi cittadini. Questo concetto implica che la popolazione, con le sue scelte e la sua passività, finisce per determinare il tipo di leadership che riceve. È un’espressione usata per criticare sia il popolo che l’élite dirigente.

Mai forse come nella situazione attuale società e politica si influenzano negativamente avvitandosi e movendosi verso il basso. Non resta che sperare nei rigurgiti di vitalità di una certa base sociale messa in rivolta da qualche evento socio-economico capace di smuovere le sensibilità residue (non ne mancano, sono persino troppi e non si sa da dove cominciare).

La deriva distruttiva riguarda tutta la società a livello mondiale e ci vuole veramente un cannocchiale potente per intravedere segni di speranza. Papa Francesco parlava di globalizzazione dell’indifferenza; papa Leone parla di globalizzazione dell’impotenza.

Ecco perché insisto nel difendere a spada tratta i coraggiosi protestatari, soprattutto i giovani: pur nella loro farraginosità e talora persino nelle degenerazioni violente, rappresentano l’unica speranza nel futuro. Dai vertici non può venire niente di buono, anzi da destra viene soltanto la demonizzazione della protesta stessa e la sua pregiudiziale e pretestuosa squalifica, da sinistra la sterile ed opportunistica strumentalizzazione.

In occasione dei cori fascisti intonati a Parma da un gruppo di ragazzi appartenenti a Gioventù nazionale, la deputata locale di FdI, Gaetana Russo, ha dichiarato: «Non accettiamo lezioni di moralità da quella sinistra che quando parliamo di ragazzi considera normale che assaltino le forze dell’ordine, che impediscano il regolare svolgimento delle lezioni all’Università, che impediscano di parlare a chi la pensa diversamente da loro». Così viene impacchettata e neutralizzata la protesta, facendo di ogni erba un fascio (sic!). Ecco perché sarebbe opportuno aggiungere alla pur sacrosanta risposta alle sbracate e vomitevoli manifestazioni di neofascismo da trivio l’utile confluenza nelle proteste di base verso il neofascismo fattuale dei governanti.

Sintomatico ed estremamente interessante lo scontro verbale tra Brunella Bolloli (giornalista di “Libero”) e Tomaso Montanari (rettore dell’Università per stranieri di Siena).

Bolloli dissente da Montanari: “Ha tirato fuori la parola ‘odio’ dicendo che questo governo, questo centrodestra alimenta l’odio. Io sinceramente non credo che sia il centrodestra ad alimentare l’odio”. “Blocchi navali, deportazioni… veda lei”, osserva Montanari. La cronista di Libero rilancia: “Basti guardare certe piazze, quelle della sinistra, che sono quelle più numerose e anche dove ci sono frange di violenti che sicuramente non sono di centrodestra e che hanno slogan, che hanno cartelli, che fanno anche azioni, diciamo, non proprio carine”.

“Ma gli ultrà neofascisti li ha visti? – ribatte Montanari – La violenza vera è una violenza di destra in questo Paese”. “Quelli non sono da accostare al governo Meloni – replica Bolloli – perché non fanno parte di questa maggioranza e sono fuori dalla politica. È proprio una famiglia separata da Fratelli d’Italia, la Meloni ne ha preso le distanze ampiamente”. “Ma non è vero”, commenta lo storico dell’arte. “L’estrema sinistra delle piazze invece ha molto dell’opposizione in Parlamento”, insiste Bolloli.

La replica di Montanari è ferma: “Oggi il Procuratore nazionale antimafia, Gianni Melillo, che è una persona molto cauta, ha detto che i tifosi, non solo del calcio, ma di tanti altri sport, sono sequestrati da una militarizzazione in nome di valori di suprematismo ariano per la razza bianca. Ora, che ci sia una sostituzione etnica e che sia in pericolo la razza bianca, l’ha detto il presidente della Regione Lombardia con queste precise parole. Nel libro intervista a Sallusti – continua – Giorgia Meloni ha detto che siamo diversi fisicamente, in quanto razza. Non sa la presidente del Consiglio che le razze non esistono? Allora, non c’è tutta questa separazione. La cultura, purtroppo, è quella”.

E conclude: “Ed è una cultura da cui la presa di distanza non è avvenuta, il che è dimostrato in infinite cose: Meloni continua a parlare di nazione invece che di Repubblica. Meloni ha detto che la nazione è una comunità di destino e una società naturale, cioè per via di sangue. Allora, in questo paese la violenza non sta nelle manifestazioni delle famiglie contro il genocidio di Gaza. Sta storicamente, nelle stragi, nell’assalto alla Cgil, per fare un esempio più vicino a noi, e anche negli ultrà estremisti di destra neofascisti. Il presidente del Senato rivendica di avere in casa il busto di Mussolini. Io tutta sta distanza non la vedo, francamente”. (Da “il Fatto Quotidiano”)

Da una parte si accetta, come un male necessario, la nostalgia fascista, basandosi sull’oblio strategico di un passato impresentabile e irrevocabile, dall’altra parte si respinge sdegnosamente al mittente la protesta nel suo significato forse addirittura più anti-sistema che anti-governo, dimenticando che, se non c’è sacrosanta indignazione, non c’è etica (vedi Dacia Maraini… per non morire d’ignoranza…).

Non condivido affatto la critica politica rivolta ai giovani di essere confusionari e inconcludenti: mi sembra di rientrare nel famoso proverbio del bue che dal del cornuto all’asino.

Ben vengano quindi le proteste dando per scontata una certa quale genericità di denuncia (sono tali e tante le materie su cui protestare…) e una notevole carenza di proposta (forse si pretende troppo…). Dovrebbero essere le forze intermedie a interpretarle, rappresentarle e a dare loro uno stringente e preciso contenuto.

Tanto per cominciare però ben vengano le proteste: a me non fanno paura, mi danno speranza…

 

 

 

 

Una stalla da ripulire e non da chiudere

Blocco (?) all’ingresso nei siti porno per i minori, pena dell’ergastolo per i femminicidi, consenso libero e attuale per vincere una sorta di presunzione di stupro, aggiungiamoci pure anche il divieto dei telefoni cellulari a scuola: mi rendo conto di mettere parecchie erbe in un unico fascio, ma lo faccio non per contrarietà a questi provvedimenti, peraltro quasi sacrosanti, ma per esprimere parecchio scetticismo sulla loro efficacia.

Parto dai siti porno e ritorno a Monsignor Riboldi, vescovo di Acerra, il quale durante un convegno confessò di avere scandalizzato un gruppo di monache, affermando paradossalmente di preferire la pornografia pura a certe pubblicità e spettacoli televisivi ammantati di perbenismo.

Mi capita in questi giorni, in mezzo all’autentica valanga pubblicitaria da cui si viene investiti durante qualsiasi trasmissione televisiva su tutte le reti (comprese quelle di ispirazione cattolica), di osservare uno spot che presenta un insegnante e un padre che indagano bonariamente sui comportamenti degli adolescenti in gita scolastica o in giro per la città e che si accontentano delle risposte ironicamente evasive dei ragazzi che negano bellamente le loro trasgressioni. Il tutto riportato a gag salvo concludere sarcasticamente che a volte in queste scorribande giovanili ci scappa poi il morto su cui vengono sparsi fiumi di amare lacrime. Qual è infatti la morale di questa pubblicità: trasgredite pure, prendete pure in giro i vostri educatori, divertitevi, mangiate i biscotti “Ringo” e vedrete che tutto andrà bene…

Vengo alle norme repressive e punitive. Mio padre credeva fermamente alle regole ed alla necessità di rispettarle al punto da illudersi ingenuamente di risolvere il problema dell’evasione carceraria apponendo un cartello “chi scappa sarà ucciso”. «An scapa pu nisón» aggiungeva tra il serio e il faceto.

Mia madre così come era rigorosa ed implacabile con se stessa era portata a giustificare chi si macchiava di delitti, commentando laconicamente: “Jén dil tésti mati”. Qui mio padre, in un simpatico gioco delle parti, ricopriva il ruolo di intransigente accusatore: “J én miga mat, parchè primma äd där ‘na cortläda i guärdon se ‘l cortél al taja.  Sät chi è mat? Col che l’ätor di l’à magnè dez scatli äd lustor. Col l’é mat!”. Avevano entrambi non poche ragioni per i loro convincimenti.

Vengo ai telefoni cellulari. Tutti i politici, quando vengono fotografati o ripresi dalle telecamere hanno uno smartphone in mano o vicino all’orecchio. Mi sono chiesto più volte cosa avranno sempre da comunicare, con chi parleranno, magari è tutta una messa in scena per dimostrare di essere molto impegnati. Come quell’impiegato di un importante e complesso ente, il quale si vantava di trascorrere intere giornate lavorativa girovagando da un ufficio all’altro con un foglio di carta in mano.

E poi il ministro dell’Istruzione vuole impedire l’uso dei cellulari agli scolari…ma fatemi il piacere…

Quanto agli stupri non abbiamo forse esempi molto altolocati di sfruttamento sessuale delle donne? Fate come dico e non come faccio? È comodo! Per quei signori c’è sempre il consenso libero e attuale?!

Termino con due episodi di educazione incivile.

Tanto tempo fa ero alla fermata di un autobus ed attendevo con la solita impazienza l’arrivo del mezzo pubblico; accanto a me stavano un giovane padre assieme a suo figlio bambino, ma non troppo. Sfogliavano un giornale sportivo e leggevano i titoloni: il più eclatante diceva della pesante squalifica comminata a Maradona per uso di sostanze stupefacenti. Si, il grande Maradona (Mardona lo chiamava mio padre…. ed era tutto un programma) beccato con le dita nella marmellata. Il bambino ovviamente reagì sottolineando la gravità della sanzione ed espresse, seppure un po’ nascostamente, il suo rincrescimento per l’accaduto. Qui viene il pezzo forte, la reazione del padre che vomitò (non so usare un verbo migliore): “Capirai quanto interesserà a Maradona con tutti i soldi che ha!!!” Il bambino non replicò e l’argomento purtroppo si chiuse così.

Non so ancora darmi ragione del mio silenzio, ma forse fu dovuto al fatto che una bestialità simile non me la sarei mai aspettata da un padre: ci fosse stato “mio padre” non avrebbe taciuto. In poche parole quel signore aveva lanciato un messaggio negativo, diseducativo all’ennesima potenza. Era come dire al proprio figlio: “Ragazzo mio, nella vita conta solo il denaro, delle regole te ne puoi fare un baffo, della correttezza fregatene altamente”.

Arrivò finalmente l’autobus, il tutto finì lì, ma ringraziai mio padre perché non ragionava così.

Passo al secondo episodio commentato.

Gli insegnanti sono uomini come gli altri, soggetti a sbagliare, con i loro difetti che, a volte, possono anche portarli a commettere gravi ingiustizie. Un tempo avevano sempre e comunque ragione, il loro giudizio non si discuteva e i genitori ne prendevano atto. Oggi si è capovolto il discorso: gli insegnanti hanno sempre torto e i genitori si schierano pregiudizialmente dalla parte degli alunni, creando un cortocircuito pericolosissimo a livello educativo. I giovani infatti, già portati a non accettare i rimproveri dei loro insegnanti, si sentono spalleggiati e quindi ancor più refrattari rispetto alla disciplina scolastica.

Ricordo di aver involontariamente ascoltato, su un bus che portava a scuola alcune ragazzine, il concitato dialogo fra due di esse: parlavano di una loro insegnante, a loro dire piuttosto bisbetica, e una delle due riportava quanto detto al riguardo dalla propria madre: «Sai perché la tua insegnante ti sta addosso con i suoi continui rimproveri? Perché lei è brutta e tu sei molto carina! Tutto è frutto dell’invidia…». Risatine compiaciute.

Può darsi benissimo che l’insegnante fosse bruttina. La ragazza sinceramente non la ricordo. Il personaggio veramente “brutto” era però la scandalosa genitrice: mi chiedo cosa avesse nel proprio cervello per arrivare a simili insinuazioni. Siamo alla pura follia. Anche ammettendo che il comportamento della professoressa fosse veramente improntato all’invidia e alla rivalsa, mai e poi mai una madre dovrebbe sputtanare in tal modo un’insegnante di fronte alla propria figlia. Semmai chieda un incontro, apra un dialogo, anche serrato, ma dire scemenze del genere…

Ebbene, di fronte all’enorme problema della violenza sulle donne e al corrispondente maschilismo degli uomini, la politica non sa che reprimere legalmente e balbettare “diseducativamente”. Tanto rigore punitivo e poco intento didattico. Mi riferisco ai bigottismi sessuofobici della pseudo-religione e alla vuota e  faziosa rivendicazione del ruolo genitoriale in merito all’educazione sessuale nelle scuole.

I provvedimenti in discussione, spacciati per panacea dei mali, sembrano quindi più una difesa d’ufficio dei governanti che una seria spinta all’impegno dell’intera società, danno più l’idea di una chiusura della stalla a buoi scappati che di un impegno a ripulire la stalla in presenza dei buoi.

 

 

 

Il vaso di coccio europeo

L’attuale apertura statunitense a rivedere il piano potrebbe essere infatti essa stessa parte di un meccanismo ben calcolato. Perché, se – come è del tutto prevedibile – Putin rifiuterà la versione emendata del piano, Trump potrà presentare il fallimento come colpa dell’Europa e dell’Ucraina: “Io avevo un piano che Putin avrebbe accettato, siete voi ad averlo sabotato”. È un tranello politico perfetto, costruito per ribaltare la responsabilità e per legittimare retroattivamente la proposta iniziale filorussa.

Ed è un tranello tanto più plausibile se lo si legge alla luce di un sospetto fondato: che tra Putin e Trump sia in corso uno scambio politico silenzioso, legato non solo all’Ucraina ma a diversi altri fronti, fra cui il Medio Oriente. È improbabile che sia solo un caso che il piano Putin-Trump sia trapelato pochi giorni dopo che la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu su Gaza è passata grazie all’astensione di Cina e Russia, che avrebbero potuto affossarla con un veto e non l’hanno fatto. È legittimo sospettare che Mosca abbia concordato una sorta di scambio con la Casa Bianca: “Io non ti creo problemi in Medio Oriente, e tu mi lasci vincere – anzi stravincere – in Ucraina”. Se questo è il patto non scritto, è illusorio immaginare che Trump eserciterà pressioni reali su Putin affinché scenda a compromessi.

Ma lasciare che Putin vinca non avrà conseguenze solo sull’Ucraina. Se Putin vince, perde il diritto internazionale. Se Putin vince, si afferma un ordine mondiale in cui la forza militare diventa la moneta legittima per riscrivere i confini e annientare la sovranità degli Stati. Se Putin vince, perdiamo tutti e ci avviamo a vivere una stagione in cui pace, democrazia e libertà non saranno diritti garantiti ma concessioni elargite dal più forte. (MicroMega – Cinzia Sciuto)

Nello scacchiere internazionale probabilmente Trump sta usando l’Europa e l’Ucraina come copertura tattica  alla vera spartizione strategica del mondo tra Usa e Russia. Se è così e ci sono molti elementi che lo lasciano intendere, viene da chiedersi cosa aspetti l’Europa a puntare ad un asse preferenziale con la Cina, che sembrerebbe la grande esclusa. Certo esiste il rischio che anche la Cina si faccia forza con l’Europa per poi mollarla e andare a trattare con Usa e Russia.

In buona sostanza l’Europa sta facendo la parte del manzoniano “vaso di coccio tra vasi di ferro”. E l’Ucraina? Il vaso di super-coccio! E pensare che come europei avremmo un patrimonio culturale, sociale, economico da fare paura, una storia alle spalle da fare invidia, una cultura da sbalordire i nostri interlocutori. Ma siamo presuntuosamente incapaci e cordialmente divisi. Anziché valorizzare queste potenzialità andiamo a cercare il freddo per il letto col riarmo.

L’Europa insomma è come Parma. Dopo che Pietro Vignali e la sua giunta furono costretti a fare fagotto portandosi dietro un ingombrante bagaglio di disastri, opera soprattutto di chi li aveva preceduti e sponsorizzati, ci fu un periodo di commissariamento governato dal dr. Mario Ciclosi, col quale ebbi occasione di incontrarmi per sottoporgli i gravi problemi di una iniziativa sociale in cui ero inserito. Al di là dell’oggetto specifico di quell’incontro il dr. Ciclosi, peraltro da me conosciuto in precedenza per motivi professionali, che vantava una notevole conoscenza della nostra realtà cittadina essendo stato vice-prefetto vicario di Parma, mi snocciolò una sintetica analisi della città: considerate le sue dimensioni territoriali e di popolazione, è unica in tutto il mondo per economia,  storia, cultura e arte, ma non riesce a valorizzare questo suo patrimonio ed a sfruttare queste sue straordinarie potenzialità. Andiamo invece a cercare il freddo per il letto con l’esercito dei vigili urbani…

L’uccisione premeditata della politica

Oggi, a grandi linee, la legge elettorale – nota come Rosatellum dal suo relatore Ettore Rosato – prevede che il 37% dei seggi in Parlamento siano assegnati con sistema maggioritario, mentre il restante 61% con il proporzionale. La soglia di sbarramento per essere eletti è fissata al 3% per le singole liste, ma sale al 10% per le coalizioni. L’idea su cui si sta confrontando il centrodestra è di eliminare i collegi uninominali eletti con il maggioritario e mantenere un proporzionale con premio di maggioranza alla coalizione vincente che supera una certa soglia. Un altro tema in discussione inoltre, è l’indicazione del nome del candidato premier nella scheda, in una sorta di “anticipo” del premierato, la riforma fortemente voluta da Fratelli d’Italia e ancora in cantiere. (fanpage.it)

È tipico dei bambini, quando si accorgono di rischiare di perdere al gioco, cambiare in fretta e furia le regole per mettersi al coperto. Mi sembra che ciò stia succedendo al centro-destra che, dopo la sconfitta alle elezioni regionali di Campania e Puglia, ha il timore di rischiare grosso alle prossime elezioni politiche del 2027. E allora, tra premierato e riforma della legge elettorale, si starebbero preparando le contromisure atte a imbambolare ulteriormente l’elettorato sempre più ristretto e disattento ed a scongiurare gli effetti di un’alleanza di centro-sinistra allargata e finalmente coesa.

Siamo solo agli inizi, ma, come ha recentemente affermato il Presidente della Repubblica, potrebbero iniziare le manovre per rispondere in negativo all’astensionismo, spoliticizzando il confronto elettorale con l’introduzione del premierato e riportandolo ad una certa qual bagarre proporzionalista in cui il centro-sinistra potrebbe disperdersi nel solito “tutti contro tutti”.

Giorgia Meloni, se capisco le sue intenzioni, concederebbe in questo modo agli alleati l’illusione di contare qualcosa e toglierebbe agli avversari l’arma dell’unione che fa la forza. Riformare la politica partendo dalla legge elettorale è cosa provocatoriamente insulsa.

Dopo avere affossato incredibilmente l’esperimento Mattarella-Draghi nel 2022, ci si sta attrezzando per ostacolare un confronto politicamente serio nel 2027. La politica fa paura a chi non crede nella democrazia, mentre il populismo fa bene a chi lo vende e a chi lo beve senza battere ciglio. Stiamo vivendo un periodo in cui le elezioni non sono l’atto finale della politica, ma la sua devitalizzazione preventiva. Roba da matti!

E se una buona volta gli elettori si stancassero di essere presi per i fondelli e, anziché fare gli schizzinosi, andassero a votare in massa al di là degli stucchevoli meccanismi elettorali? Il referendum sulla riforma costituzionale potrebbe essere la prova generale. Ricordiamoci che i cittadini a volte sanno essere capaci di sani e imprevedibili rigurgiti di orgoglio democratico. La democrazia in fin dei conti sarebbe anche e soprattutto questo: quando uno si accorge che gli vogliono portare via qualcosa che magari stava sottovalutando, potrebbe rientrare in se stesso e reagire difendendo con le unghie e con i denti l’oggetto del tentato scippo.