La protesta è il sale della democrazia

Gli studenti di tutta Italia ieri mattina si sono fermati. I motivi dello sciopero – a sentire le loro voci e a leggere i manifesti delle sigle che hanno proclamato lo sciopero (Unione degli studenti e Fridays for future) – erano molti e distanti tra loro: «Investimenti nell’istruzione pubblica», «riforma della scuola-lavoro per la sicurezza degli studenti», «blocco del riarmo europeo», «riconoscimento italiano della Palestina» e «maggiore attenzione della politica alla crisi climatica». Il filo rosso che ha unito le cinquanta piazze animate da cortei in tutto il Paese, secondo lo slogan che ha infiammato anche le mobilitazioni online, è l’opposizione al Governo: #Nomeloniday è l’hashtag rimbalzato in rete. E non sono mancate, per questo, tensioni tra le forze dell’ordine e i gruppi più ostili all’Esecutivo: a Bologna la Polizia ha bloccato con cariche un corteo che tentava di cambiare percorso per contestare alcuni membri del Governo presenti in città, mentre a Torino altri manifestanti hanno ferito otto agenti scagliando un tombino contro il cordone che tentava di impedire il blocco dei binari nella stazione di Porta Nuova. Ad ascoltare i circa 20mila studenti in piazza, invece, le rivendicazioni erano tutte connesse e prioritarie per la cosiddetta Generazione Z (i nativi digitali, nati tra il 1997 e il 2012): «Crediamo nell’intersezionalità – commenta Micol, 17 anni, scesa in piazza a Milano –. Significa che in ogni manifestazione dobbiamo parlare di tutti questi argomenti per noi importanti: dalla Palestina ai crimini ecologici. Anche perché a scuola non lo facciamo». Al suo fianco Ginevra Torti, 20 anni, riassume tutto con un cartello scritto in inglese: «La Generazione Z lotta per il proprio futuro». (da “Avvenire” – Andrea Ceredani)

Così come la Chiesa comunità non si identifica e non si esaurisce nelle figure del papa, dei cardinale, dei vescovi, e nelle strutture vaticane e periferiche, la comunità politica non si risolve nella vita delle istituzioni democratiche: in democrazia esiste l’humus della società civile, è lì che risiede la forza d’urto popolare, è lì che la democrazia trova il suo nutrimento in funzione di dar vita alle istituzioni rappresentative.

Mai forse come in questo momento storico si è vissuta questa mancanza di collegamento tra politica e società civile. La crisi dei partiti politici e finanche dei sindacati, l’astensionismo elettorale sempre più marcato, la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni sono tutti precisi, gravi e concordanti indizi che fanno la prova dei rischi che sta correndo la democrazia.

Di fronte a questa inquietante situazione il ceto politico governante tende squallidamente a dribblare nella migliore delle ipotesi, se non a criminalizzare nella peggiore delle ipotesi, ogni e qualsiasi anelito di protesta proveniente dalla società civile, si chiami sciopero generale, si chiami occupazione delle università, si chiami manifestazione contro il governo, si chiami insofferenza verso la falsa narrazione mediatica.

Il tutto deve essere ricondotto in una sorta di deriva plebiscitaria pro o contro il governo. I media aggiungono un pizzico di insana verifica politica: ogni volta che si assiste ad una forte protesta popolare immediatamente vengono diramati i dati dei test che segnano l’aumento del consenso al premier, al governo e ai partiti di maggioranza. Come a dire: è perfettamente inutile protestare… Piazze piene e urne sempre più vuote…

Così si devitalizza la vita civile di un Paese, riducendola a mera e sbrigativa espressione di giudizio verso i governanti. Non solo, ma si punta addirittura a istituzionalizzare questa deriva plebiscitaria trasfondendola in presidenzialismo o premierato.

Ormai si è insinuata nella mentalità popolare la convinzione che discutere, protestare, manifestare siano cose inutili: prendere o lasciare, caso mai se ne riparlerà alla prossima scadenza elettorale con percentuali di votanti ridotte al lumicino.

Il discorso vale a livello nazionale, ma anche internazionale. Protestare contro i crimini di guerra è tempo perso, tanto vale alzare le spalle e cercare di vivacchiare politicamente alla meno peggio.

Purtroppo, se aspettiamo che la pace la costruiscano i facitori di guerre, ci candidiamo a vivere in un modo dominato dagli egoismi e dalle ingiustizie.

Arrivo ad esagerare, ma sempre meglio qualche vetrina spaccata ad opera dei soliti marginali violenti, che l’assordante generale silenzio. Meglio la pace dei sepolcri o qualche scaramuccia a latere delle proteste?

La vivacità civile può avere il prezzo degli sfoghi violenti, ma non per questo bisogna silenziare tutto e tutti nell’ordine costituito, spacciandolo magari come difesa del quieto vivere per i deboli.

Stiamo bene attenti: se la pubblicità è l’anima del commercio, la protesta, forse prima, dopo e più del voto, è il sale della democrazia.

Ogni manifestazione di protesta viene immancabilmente inquinata dai soliti cretini che creano l’alibi per squalificare tutto: non è giusto ed è una comoda semplificazione da rifiutare categoricamente. Però se uno esprime simili idee viene immediatamente considerato un seminatore di zizzania, un fomentatore di odio, un terrorista.

Ormai i governanti di turno non tentano nemmeno più di cavalcare la protesta, la criminalizzano o la consegnano all’ipotetica strumentalizzazione da parte delle opposizioni: due piccioni con una fava, la neutralizzazione delle piazze e la decantazione delle minoranze di ogni genere.

Questo è purtroppo il circolo vizioso in cui stiamo stringendo la vita democratica: stringi oggi, stringi domani, la democrazia rischia di diventare insipida, di morire asfissiata o di trasformarsi in autocrazia, il che se non è zuppa e pan bagnato.

 

Il dolore sociale nelle cantine dell’odio

A quasi cinquant’anni dall’abolizione delle classi differenziali (prevista dalla legge 517 del 1977), circa un insegnante su tre (il 27% per l’esattezza) è favorevole alla riapertura delle scuole e delle classi speciali. E questa percentuale è in aumento di 10 punti rispetto soltanto a due anni fa.

(…)

Attualmente, ricorda Erickson, gli studenti con disabilità certificata nella scuola italiana sono circa 325mila, pari al 4% del totale, ma soltanto poco più di un insegnante di sostegno (il 36%) è di ruolo e appena il 41% delle scuole ha a disposizione ausili tecnologici che permettono la partecipazione attiva degli alunni con disabilità. Un quadro per nulla confortante, a cui si aggiunge, ora, una percentuale consistente di insegnanti che, almeno a parole, dimostra di aver perso la speranza circa un’effettiva inclusione scolastica, preferendo il Modello a tre vie: scuole solo per alunni con disabilità (casi di disabilità grave), classi per alunni con disabilità nelle scuole normali (casi di disabilità media), inclusione piena in classe (casi di disabilità lieve).

(…)

Nella scuola italiana, insomma, cresce la disponibilità a considerare soluzioni differenziate. «In termini di clima culturale generale – si legge nella ricerca – ciò indica un minore consenso all’inclusione piena e una maggiore accettazione di modelli che possono assumere caratteristiche separative. In assenza di test inferenziali e di intervalli di confidenza, la lettura resta descrittiva, ma il segnale è rilevante». (“Avvenire” – Paolo Ferrario)

 

 

Ci sono urla nel silenzio, che nessuno ascolta più. C’è un diffuso «dolore sociale» che stiamo sottovalutando, nella stagione dell’odio. Luigi Manconi si misura da una vita con l’idea di una società disumanizzata e, se possibile, adesso vuole dare ancora più voce a chi non ha voce. Con parole nette, calibrate. Nell’ufficio di Roma dell’associazione “A buon diritto”, dove ci riceve, non ha paura a chiamare le cose con il loro nome. «Mi chiede del carcere? Penso che si debba parlare di fallimento, tutto il sistema penitenziario italiano dovrebbe portare i libri in tribunale» dice il sociologo, che tratteggia il volto di «comunità friabili e allentate», di una società che ha smarrito se stessa. Occorre mettersi in guardia, dice, dalla «regressione anche linguistica in corso nel Paese», difendendo e rilanciando le poche, buone pratiche che ancora ci sono.

(…)

Lo sviluppo di un linguaggio discriminatorio e criminalizzante è fattore di tensione sociale, di incattivimento delle relazioni tra i gruppi. Il fatto stesso di porre come priorità la difesa del proprio territorio e della propria identità diventa un elemento di ostilità verso chi sta fuori dal proprio perimetro. (“Avvenire” – Diego Motta)

 

L’aria che tira è purtroppo questa: la società si sta ripiegando su se stessa a costo di discriminare e isolare i diversi. Il discorso vale per i carcerati, per gli immigrati, per i malati di mente e per i disabili.

Al di là delle analisi più o meno sofisticate che vale per me è l’osservazione spicciola alla base della (in)cultura popolare: si sente sempre più parlare di carceri-spazzatura (se non di pena di morte), di respingimento a priori degli immigrati, di riapertura dei manicomi, adesso anche di ripristino delle classi differenziate per i disabili.

Attenzione perché, giorno dopo giorno, ci stiamo mettendo sotto i piedi la Costituzione, stiamo imboccando pericolose strade di regresso, stiamo costruendo una società sazia e disperata.

Mi chiedo se venga prima l’uovo dell’egoismo sociale o la gallina della reazione politica. L’egoismo sociale è un atteggiamento individuale o collettivo di preoccupazione esclusiva per il proprio interesse e benessere, che si traduce politicamente nell’orientare le politiche verso la difesa e l’ampliamento del potere e dei beni dei singoli o dei gruppi al potere, spesso a discapito degli interessi collettivi o dei gruppi più deboli. In politica, questo può manifestarsi attraverso politiche di esclusione, individualismo estremo e una competizione per le risorse, anziché la cooperazione.

Ho vissuta la mia esperienza professionale all’interno del movimento della cooperazione: una sfida paradossale a difendere i propri interessi economici e sociali in collaborazione con gli altri in un clima che potremmo definire di competizione solidale. Anche questo mondo si sta arrendendo ai meccanismi di mercato, subendoli passivamente e non combattendoli solidalmente.

La matassa sociale non è ingarbugliata per la presenza di soggetti fuori dagli schemi, ma perché gli schemi tendono a restringersi e ad espellere drammaticamente tali soggetti.

Ricordo un episodio emblematico di parecchi anni fa. Un mio carissimo amico stava vivendo una grossa difficoltà famigliare dovuta ad un grave handicap di cui soffriva suo figlio. All’impegno genitoriale aggiunse la speranza di poterlo inserire nel normale percorso scolastico e di questa speranza parlò con una persona che istituzionalmente avrebbe dovuto incoraggiare tale percorso di recupero. Invece purtroppo si sentì gelare il sangue davanti alle sue a dir poco sbrigative e sarcastiche parole, che tento di riportare all’attualità: “Si capisce, adesso i bambini handicappati vanno a scuola assieme ai bambini normali, i matti girano per le strade, i criminali godono di permessi premio, gli immigrati rubano casa e lavoro agli italiani…”.

Alzi la mano chi non sente in giro ragionamenti del genere, che trovano risposte nel clima sociale che si va impostando e nei discorsi politici di maggiore successo. Stiamo tornando indietro, pensando di difendere la libertà e la democrazia, riducendola a mera difesa dell’ordine pubblico e della identità nazionale a costo di provocare emarginazione, conflittualità e disordine sociale.

 

 

 

 

La globalizzazione della presa per il culo

Fa tremare il governo, e arriva molto vicino a Volodymnyr Zelensky, l’indagine per corruzione sulla società statale per l’energia nucleare Energoatom annunciata ieri dall’Ufficio nazionale anticorruzione (Nabu) e dalla procura anticorruzione (Sapo). Le aziende appaltatrici di Energoatom sarebbero state costretta a pagare generose tangenti, il 10-15%, per mantenere i contratti, per un giro da almeno 100 milioni di dollari. (agi.it)

Nuovi dettagli sul caso di Jeffrey Epstein e del suo rapporto con Donald Trump scuotono gli Usa. Secondo alcune e-mail pubblicate dai democratici della Commissione di vigilanza della Camera, l’attuale presidente statunitense “trascorse ore” a casa dell’imprenditore, condannato per abusi sessuali e traffico internazionale di minori (e poi morto in carcere), insieme a una donna “vittima del suo traffico sessuale”. E, dalle corrispondenze private, emergerebbe che anche Trump “sapeva delle ragazze”. Epstein avrebbe fatto il nome di Trump “più volte” in uno scambio di messaggi con l’allora fidanzata e storica collaboratrice Ghislaine Maxwell, condannata per traffico sessuale, e lo scrittore Michael Wolff. Dopo le rivelazioni, i dem sono subito andati all’attacco. Ed è stato stabilito che la Camera americana voterà, la settimana prossima, sulla pubblicazione integrale dei documenti su Jeffrey Epstein in possesso del dipartimento di Giustizia, come ha detto lo speaker Mike Johnson. (Sky tg 24)

“Vi invito con la presente a perdonare pienamente Benjamin Netanyahu, che è stato un Primo Ministro formidabile e decisivo in tempo di guerra e che ora sta guidando Israele verso un periodo di pace, che include il mio continuo lavoro con i principali leader del Medio Oriente, per aggiungere molti altri paesi agli Accordi di Abramo che stanno cambiando il mondo”. Così il presidente americano Donald Trump ha chiesto la grazia per il primo ministro israeliano, inviando una lettera al presidente Herzog. Il capo della Casa Bianca sottolinea: “Rispetto assolutamente l’indipendenza del sistema giudiziario israeliano” ma allo stesso tempo ritiene che le accuse di corruzione contro Netanyahu costituiscano “un procedimento politico ingiustificato”.

Il premier israeliano è imputato di corruzione e frode e un reato che in Israele viene indicato come “violazione della fiducia pubblica” (caso 1.000, caso 2.000 e caso 4.000); a Bibi viene contestato di aver concesso favori a magnati dei media in cambio di una copertura positiva e di aver ricevuto regali per migliaia di dollari da un produttore miliardario di Hollywood, in cambio di assistenza per interessi personali e commerciali. Il processo è in corso in un bunker di Tel Aviv per motivi di sicurezza, e si protrae da quattro anni a causa di diversi rinvii, prima per la pandemia e poi per la strage del 7 ottobre 2023 firmata da Hamas, a cui il governo ha risposto con la guerra nella Striscia. (“Il Fatto Quotidiano”)

Il governo ucraino trema, gli Usa sono scossi, gli Israeliani contestano, io mi permetto di avere i brividi. Gli scandali che coinvolgono i responsabili delle nazioni sono gravissimi, ma diventano oltre modo inaccettabili per nazioni che sono coinvolte in guerre da esse definite giuste.

Le guerre non sono mai giuste, ma lo sono ancor meno se considerate tali da governanti corrotti, che pigliano letteralmente per il culo i loro popoli in esse tragicamente coinvolti.

Siamo inseriti in una colossale e globale presa per il culo: Zelensky prende in giro il suo popolo e tutto l’Occidente che lo sta appoggiando; Netanyahu prende in giro gli Israeliani e tutti coloro che credono alla fandonia narrativa corrente che concentra tutte le colpe in capo ad Hamas; Trump, tanto per non fare differenze, prende in giro tutto il mondo.

In questo contesto cosa volete che sia quanto fattomi giustamente osservare dal mio carissimo amico Pino: i russi prendono per il culo gli americani; mentre stanno massacrando gli ucraini sono pronti con Lavrov a incontrare Rubio…

E in tale clima ancor più irrilevante appare la presa per il culo del governo Meloni a carico dei cittadini italiani: a livello di amicizia opera la sommatoria di tutti i peggiori ingannatori di cui sopra. All’appello manca Putin: a quello ci ha pensato da tempo Salvini… Alla fine l’unica chiave interpretativa geopolitica adottabile sembra essere quella della presa per i fondelli.

Mio padre aveva il sano terrore di essere preso in giro e allora a volte si immunizzava preventivamente prendendo in giro chi gli capitava a tiro. Una volta si piegò alle insistenze di mia madre e portò a casa una damigiana di vino da imbottigliare. Lo aiutai maldestramente nelle operazioni. Ogni tanto capitava di avere a che fare con una bottiglia che non ne voleva sapere di essere tappata o meglio con un tappo che non voleva entrare nel collo di bottiglia e opponeva resistenza, costringendoci ad un supplemento di sforzo per riuscire nell’intento. Fui sorpreso dalla battuta con cui accompagnava lo sforzo stesso: «Maledètt ti e chi a t’ cavrà», diceva tra i denti rivolto al tappo in questione.  Mi stupii, perché non era solito imprecare a vanvera e gli chiesi il perché di questo sfogo. Mi spiegò che aveva imparato da suo padre a premunirsi dalla maledizione di chi avrebbe stappato la bottiglia e che presumibilmente avrebbe esclamato: «Maledètt ti e chi a t’ gh’à miss».

 

 

 

 

 

L’ipocrisia che copre il razzismo

«Venite in Italia, c’è lavoro in una fabbrica di cipolle, 9 euro l’ora, 1.200 euro al mese, affitto a 100 euro». Così avevano promesso ad alcune donne bulgare. All’arrivo in Calabria, però, la realtà si è rivelata un incubo: non c’era alcuna fabbrica, nessuna paga oraria, nessun alloggio decente. Dormivano in una struttura turistica abbandonata, senza elettricità, tra pavimenti sporchi e coperte logore. Ogni giorno venivano caricate su furgoni e portate nei campi. In due mesi di lavoro estenuante avevano ricevuto appena 90 euro. Nessun contratto. Solo minacce. Quando una di loro ha chiesto di essere pagata il mediatore che l’aveva portata in Calabria le ha suggerito di “concedersi” sessualmente al caporale per ricevere il salario pattuito. Si è rifiutata. Ed è fuggita. Alcuni conoscenti hanno consigliato di contattare l’anti-tratta che l’ha allontanata immediatamente dalla zona. L’intervento tempestivo ha permesso di rassicurarla e convincerla a denunciare.

Una storia che riassume le condizioni delle donne che lavorano in agricoltura, italiane e immigrate, 300mila quelle con contratto, il doppio quelle “in nero”, tutte comunque sfruttate, pagate quasi il 20% in meno dei braccianti maschi e vittime di ricatti sessuali. Una condizione di “plurisfruttamento” denunciata in “(Dis)uguali”, il nuovo Quaderno dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil. (“Avvenire” – Antonio Maria Mira)

Mettiamo questa vergognosa realtà a confronto con l’ipocrisia programmatica di chi teorizza l’accoglienza solo agli immigrati che hanno voglia di lavorare e l’espulsione per chi non lavora e vive di espedienti.

Ma dove vivono questi benpensanti del cavolo? L’immigrazione clandestina va benissimo per chi intende sfruttare questi disperati, trattandoli da cani a livello retributivo, senza protezioni sociali, senza diritti, senza servizi etc. etc.

Di quale nazionalità sono questi sfruttatori? Sono i connazionali dei benpensanti di cui sopra, che si scandalizzano quando arrivano i barconi e non fanno una piega quando muore sul lavoro un immigrato magari scaricato in un fosso come una bestia.

La condizione femminile aggiunge un ulteriore pizzico di orrore alla vita delle nostre campagne. Cosa pensano di questo fenomeno che vive e prospera a latere dell’immigrazione il cialtronesco Matteo Salvini, il fascistone riciclato Roberto Vannacci, il coccodrillone Luca Zaia, il pilatesco Antonio Tajani e soprattutto la perpetua comiziante Giorgia Meloni.

Per la verità non brilla nessuno, politicamente parlando, per sensibilità verso il problema dello sfruttamento dell’immigrazione: in buona sostanza da una parte si pontifica sulla rigorosa programmazione del fenomeno, dall’altra si tollera la violenza verso gli immigrati; da una parte si criminalizzano indistintamente tutti i clandestini, dall’altra se ne fa un autentico mercato a monte e a valle; da una parte si auspica l’inserimento lavorativo degli immigrati, dall’altra parte lo si attua senza regole e senza alcuna rete protettiva.

Dulcis in fundo si ammette che la nostra società ha bisogno degli immigrati per rispondere ad esigenze lavorative alquanto scoperte, per colmare le lacune di una drammatica situazione demografica e compensare i buchi del sistema pensionistico. Contemporaneamente gli immigrati quando non vengono sfruttati, danno fastidio perché si immischiano nella nostra cultura e nei nostri schemi socio-economici.

Mio zio Mario, che viveva e lavorava da molto tempo a Genova, quando tornava a Parma e incontrava gli amici di un tempo si ricreava immediatamente il rapporto cameratesco condito dai ricordi. Al termine di questi fitti dialoghi sparava quasi sempre una simpatica battuta. Al momento dei saluti rivolto all’amico di turno, dopo avergli dato una pacca sulla spalla e/o avergli stretto calorosamente la mano, diceva: «Veh, arcòrdot bén, quand at me vól gnir a catär…sta a ca tòvva».

Noi facciamo così, né più né meno, con gli immigrati aggiungendoci un po’ tanto razzismo e parecchia ipocrisia.

 

 

Un anti-evangelico connubio mercatale

La questione fiscale – tornata di attualità grazie alla manovra di bilancio 2026 varata dal governo e in discussione al parlamento – investe molti aspetti della vita: la politica, la socialità, il senso civico, l’etica e la religione.

I problemi delle casse erariali devono interrogare la nostra coscienza dal punto di vista civico, ma anche da quello religioso (Vangelo alla mano).

Nei giorni scorsi la liturgia cattolica ha celebrato la festa della dedicazione della Basilica Lateranense: occasione propizia per riflettere su cosa combiniamo nel tempio. Gesù vedeva in esso un mercato e buttò all’aria tutto quanto. Noi siamo diventati molto più sofisticati: non ci limitiamo a portare il mercato nel tempio, ma addirittura portiamo il tempio nel mercato. A buon intenditor… D’altra parte Gesù era più intransigente verso i sacerdoti del tempio che verso gli esattori delle imposte…

La logica del profitto ha guastato anche la morale cattolica: l’importante è non commettere atti impuri, non pagare le tasse è un peccato veniale se non addirittura una santa evasione allorquando serva, direttamente o indirettamente, a dirottare fondi verso il “tesoro del tempio”.

E cosa è l’otto per mille se non un modo elegante per dirottare fondi pubblici verso la Chiesa cattolica? Il meccanismo dell’otto per mille, che dovrebbe andare alle opere di carità, finisce prevalentemente col garantire lo stipendio dei preti. Per non parlare del fatto che alla Chiesa Cattolica viene concessa una sorta di “vuoto per pieno” rispetto alle opzioni dei contribuenti in sede di dichiarazione dei redditi.

Se la comunità cristiana volesse essere una cosa seria dovrebbe essere in grado di autofinanziarsi. Se una parrocchia vuole avere un sacerdote a tempo pieno a sua disposizione, dovrebbe toccare i parrocchiani nel portafoglio, invitandoli all’autotassazione religiosa senza fare ricorso agli aiuti di Stato.

Se la cattolicità vuole avere strumenti mediatici a propria disposizione e veramente autonomi da influenze profane, non deve finanziarli facendo ricorso, peraltro in modo sbracato, al mercato pubblicitario: le televisioni di ispirazione cattolica non si fanno scrupolo di lanciare interminabili spot pubblicitari prima e alla fine della trasmissione di messe, rosari, riti e dibattiti religiosi, etc. etc.; i giornali di emanazione cattolica sono zeppi di pubblicità nelle loro pagine e nei loro siti. Non è anche questo un modo di portare il tempio nel mercato?

La tanto discussa esenzione dall’Ici degli enti cattolici non è stata in gran parte un furto legalizzato, una sorta di evasione fiscale camuffata da intenti benefici?

È l’impostazione della Chiesa Istituzione a dare i brividi: troppe le commistioni col potere, troppi i privilegi, troppe le concessioni, troppi i vantaggi impropri. A Parma, quando si parla di queste cose, vengono in mente le erogazioni benefiche della Parmalat alla diocesi e agli enti ad essa collegati o collegabili. Don Scaccaglia ebbe, a suo tempo, il coraggio di denunciare questi rapporti “anomali”. Ebbe quale risposta scritta un’autentica supposta di alta acrobazia intellettuale, ma di scarso cuore, di cui riporto il passaggio più significativo.

“Del resto, se dovessimo badare preventivamente alle fonti inquinate, dovremmo, per essere coerenti, rifiutare il nostro stipendio che, per i ¾ proviene da tasse pagate sino all’anno scorso da Tanzi, ma insieme con lui da migliaia di contribuenti inquinati o fortemente sospetti…”

Come dicono i veneti, “Xe pèso el tacòn del buso”: significa letteralmente “la pezza è peggio del buco”. Questo proverbio viene usato per descrivere una situazione in cui si cerca di risolvere un problema in modo grossolano, ma si finisce per peggiorarla ulteriormente.

Ad una seria ed evangelica contestazione si risponde con una esercitazione intellettuale in stile curiale e in linea con finezze diplomatiche, che, come le balle, stanno in poco posto, alle quali è giunta l’ora di reagire con una certa decisione (si badi bene, non cattiveria). Intransigenti coi poveri e comprensivi coi ricchi, rigorosi in materia sessuale, ma permissivi nelle ingiustizie sociali. Basta! Signor Papa, Signori Cardinali, Signori Vescovi e Signori Preti o cambiate musica o cambiate religione.

 

 

 

Sana demagogia fiscale

Sabato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha scritto su X che con la destra al governo non ci sarà mai una tassa patrimoniale. Meloni è intervenuta per replicare alla proposta del segretario della CGIL Maurizio Landini di introdurre un “contributo di solidarietà” dell’1,3 per cento sui patrimoni netti superiori a 2 milioni di euro, di fatto una tassa patrimoniale. Non è una proposta nuova, anzi negli ultimi decenni la patrimoniale è stata al centro di dibattiti ricorrenti, con buona parte del centrosinistra piuttosto favorevole e tutto il centrodestra molto contrario. (Il post)

Una prima considerazione etico-politica: perché la destra al governo esclude pregiudizialmente una tassa patrimoniale? La lapidaria affermazione di Giorgia Meloni sembrerebbe contenere una rassicurazione assoluta per i cittadini assai benestanti. Della serie “con me i ricchi non piangeranno mai”. Chi governa un Paese non dovrebbe adottare questi schemi faziosi, ma puntare a ben altra equità.

Una seconda considerazione riguarda il merito della eventuale introduzione di un’imposta patrimoniale. Ritengo che chi detiene patrimoni piuttosto consistente debba contribuire a rimpolpare adeguatamente le casse dello Stato. Tuttavia prima di varare nuove imposte sarebbe più che opportuno riequilibrare il sistema fiscale vigente nettamente penalizzante per certi tipi di reddito e soprattutto combattere l’evasione fiscale.

Mio padre non era un economista, non era un sociologo, non era un uomo erudito e colto. Politicamente parlando aderiva al partito del buon senso, rifuggiva da ogni e qualsiasi faziosità, amava ragionare con la propria testa, sapeva ascoltare ma non rinunciava alle proprie profonde convinzioni mentre rispettava quelle altrui. Volete una estrema sintesi di tutto ciò? Eccola! Rifletteva ad alta voce di fronte alle furbizie varie contro le casse pubbliche: «Se tutti i paghison e i fisson col ch’l’è giust, as podriss där d’al polastor aj gat…».

Perché nel mio ragionamento parto dall’evasione fiscale? Perché è un male tremendo della nostra società, che attaccherebbe anche l’eventuale imposta patrimoniale: i furbi troverebbero il modo di non pagarla e alla peggio porterebbero i loro patrimoni all’estero. Perché se tutti pagassero equamente le imposte sul reddito non ci sarebbe bisogno di ricorrere al supplemento dell’imposta sui redditi accantonati patrimonialmente. Perché se non si introducono sensati meccanismi di controllo, continuerebbero a pagare le imposte, anche l’imposta patrimoniale, solo i soliti cittadini sfigati, impossibilitati, volenti o nolenti, ad evadere.

“Dovremmo avere il coraggio di dire che le tasse sono una cosa bellissima, è un modo civilissimo di contribuire insieme al pagamento di beni indispensabili come la sicurezza, come la tutela dell’ambiente, l’insegnamento, la salute e le stesse pensioni, in parte”. Queste parole del Ministro alle Finanze del secondo governo Prodi, Tommaso Padoa Schioppa, pronunciate nel corso di una intervista con la giornalista Lucia Annunziata, vennero intese da molti come una provocazione e non come un invito a riflettere sul senso dell’esistenza delle tasse, che sono il presupposto della stessa esistenza dello Stato di diritto. Infatti, senza Stato non ci possono essere tasse, così come senza tasse non ci può essere Stato. In questa situazione i cittadini non potrebbero godere di alcun diritto e sarebbero assoggettati alla prepotenza dei più forti, senza diritti e protezione alcuna. (ARDeP – Anna Paschero)

Ero e sono perfettamente d’accordo con Padoa Schioppa: peccato che gli attuali nostri governanti facciano nominalmente a gara per esorcizzare le tasse e le imposte, lasciando però che le paghino i più deboli a vantaggio dei più forti, i quali, legalmente o illegalmente, non le pagano, conseguentemente rinunciando ad ogni ridistribuzione di reddito e ad ogni misura che protegga i deboli. Demagogia? Alla infetta demagogia meloniana preferisco la sana demagogia schioppana!

 

 

La società senza società

Penso che la precipitazione verso l’oscurità della disperazione e della alienazione sia tutt’ora in corso e che abbia anzi subito un’accelerazione. Sembra che nulla possa arrestarla. Si può arrivare a dire che si sono create delle condizioni strutturali che contribuiscono all’acutizzazione di questi sentimenti. Penso alla crescente debolezza dei corpi intermedi, ad esempio. Oggi siamo in presenza di una “società senza società” che rende ancora più violenta l’affermazione di Margareth Thatcher: «Non esiste una cosa chiamata società, esistono uomini e donne». È venuta meno l’idea di comunità, di un’aggregazione tra persone diverse unite dal legame sociale. (intervista al sociologo Luigi Manconi pubblicata da “Avvenire”)

I regimi autoritari si distinguono per l’assenza di quella libertà dei sottosistemi, sia formale sia effettiva, che è tipica della democrazia: l’autonomia dei gruppi politicamente rilevanti distrutta o tollerata finché non disturba la posizione dell’élite governante”. Fin qui la teoria. In pratica l’attuale indirizzo del governo Meloni tende quantomeno a intromettersi nelle cosiddette forze intermedie (si pensi ai tentativi di dividere tra di loro i sindacati dei lavoratori, un dialogo sempre giocato sul filo dell’equivoco e con atteggiamento assai poco riguardoso) ed a interfacciarsi con i partiti considerandoli come mali necessari (tutti, anche quelli di maggioranza, usati come banderuole al vento delle convenienze politiche del momento).

La Cgil ha proclamato uno sciopero generale per protestare contro la legge di bilancio 2026. Si terrà il 12 dicembre. Pochi minuti dopo l’annuncio sono partiti gli attacchi della destra, guidati direttamente dalla presidente del Consiglio Meloni: “In quale giorno della settimana cadrà il 12 dicembre?”, ha scritto la premier, aggiungendo anche l’emoji che si sfrega il mento pensosa. È più unica che rara, un’emoji sul profilo Twitter di Meloni, solitamente piuttosto istituzionale: evidentemente ci teneva che la battuta facesse ridere.

Di solito quello meno istituzionale è il suo vicepremier, Matteo Salvini, che in questo caso ha rinunciato alle emoji ma ha comunque seguito la stessa linea comica (“E chissà come mai, proprio di venerdì”), per poi invitare il segretario della Cgil Landini a “rinunciare al weekend lungo e organizzare lo sciopero in un altro giorno della settimana”.

Inutile dire che altri esponenti dei due partiti hanno seguito a ruota i leader, attaccando sullo stesso punto: scioperare di venerdì è ridicolo, perché significa che invece di scendere in piazza per le tue idee stai solo approfittando della protesta per farti una vacanza di tre giorni. Questa, però, è la convinzione di chi non capisce qual è il senso di uno sciopero. O, più probabilmente, fa finta di non capirlo. (fanpage.it)

Non c’è solo in discussione la legge di bilancio 2026, ma il significato dello sciopero e più in generale il riconoscimento della funzione del sindacato dei lavoratori. Da una parte l’astensionismo dilagante e dall’altra la ridicolizzazione della protesta stringono e schiacciano la democrazia, riducendo la società ad un’accozzaglia di egoismi.

C’è in atto una vera e propria strategia che tende a ridurre le istituzioni a mere casse di risonanza di chi governa e il conseguente voto elettorale a meccanismo di sostanziale ratifica referendaria, che punta ad un forte ridimensionamento dei sindacati che devono rappresentare, strumenti di controllo invece che di ascolto delle richieste (e delle proteste) dei lavoratori, che vuole l’asservimento al potere politico della magistratura inquirente la quale deve smetterla di chiedere conto della liceità delle scelte di chi governa e deve accettare l’idea per cui nessuno dovrebbe disturbare il manovratore.

Guardo a due fenomeni in particolare: l’impoverimento e la rinuncia alle cure sanitarie. Da un lato, occorre riconoscere che l’occupazione stabile, a tempo indeterminato e qualificata, che un tempo era stata fattore di stabilità economica e insieme elemento di identità collettiva, oggi non garantisce più dal rischio di indigenza e questo sta diventando una gigantesca insidia per la società democratica. Una volta, essere parte della classe operaia significava stabilità, aggregazione, identità. Adesso non è più così. C’è poi un secondo segnale che mi preoccupa: il dato dell’abbandono delle cure sanitarie, che certifica la crisi del Sistema sanitario nazionale, ormai incapace di garantire efficienza e universalità nel diritto all’assistenza e alla cura. Tutto questo mi fa parlare di un dolore sociale diffuso, che non si attenua, anzi si approfondisce con il passare del tempo. È un dolore che è l’esito finale di tante fatiche personali e comunitarie, di vite precarie che una volta erano garantite, di opportunità cancellate. Se poi penso ai cittadini di origine straniera che sono in Italia, vedo una fetta di popolazione che affronta gli stessi problemi con ancora minori garanzie, dal welfare alla cittadinanza. (ancora l’intervista al sociologo Luigi Manconi pubblicata da “Avvenire”)

La scrittrice Dacia Maraini sostiene che “se non c’è indignazione non c’è etica”. È vero: nell’attuale società scatta un sostanziale divieto di indignarsi a causa anche della barriera mediatica che propina una narrazione fasulla e di conseguenza viene devitalizzata sul nascere la protesta, mentre l’etica si riduce ad opzione per poche anime virtuose.

E La Cgil è sempre contro. Forse Landini può essere che abbia delle mire politiche, che voglia fare il leader della sinistra. Legittimo. Io faccio solo un’analisi politica”. (così il vice-presidente del Consiglio Antonio Tajani)

Se l’attuale dirigenza della sinistra non fa politica e non riesce a ripristinare i legami sociali a livello comunitario, ci vorrà pure chi tenta di farlo a costo di qualche forzatura sui ruoli socio-politici.

Un mio assiduo lettore mi ha consigliato la brevità: ha ragione e quindi chiudo anche se il discorso sarebbe molto lungo.

Il leccaculismo obbligatorio

Un intreccio di conflitti di interessi e rapporti amicali condiziona e rende non autonoma come dovrebbe essere l’attività dell’Ufficio del Garante per la Privacy. È quello che ha raccontato Report, condotto da Sigfrido Ranucci, in onda su Rai 3, approfondendo ancora il ruolo di Agostino Ghiglia, componente del collegio del Garante, e i legami che uniscono a più livelli chi lavora nell’ufficio a Fratelli d’Italia.

Il primo comportamento denunciato da Report riguarda proprio Ghiglia. Annuncia in Ufficio che il giorno seguente andrà a trovare Arianna Meloni per discutere del caso di Report su cui l’Ufficio, deciderà una sanzione di 150 mila euro per aver pubblicato l’audio originale dei colloqui tra Gennaro Sangiuliano, allora ministro della Cultura, e la moglie Federica Corsini sui motivi che avevano portato alla sospensione del contratto di consulenza a Maria Rosaria Boccia. La giornalista Chiara De Luca prova anche a contattare Ghiglia per chiedergli conferma, ma lui non conferma e non smentisce, non risponde.

Dopo averlo annunciato – ricostruisce Report – il giorno seguente Ghiglia si reca nella sede di Fratelli d’Italia con l’auto di servizio. Un comportamento incongruo se fosse vera la sua versione dei fatti, e cioè che era andato a via della Scrofa per parlare della presentazione del suo libro, ovvero di una questione privata. Più coerente, invece, se era andato ufficialmente per parlare con la responsabile della segreteria politica di FdI. (“La Stampa” – Flavia Amabile)

Da una parte abbiamo la degenerazione “leccaculista” della Rai (da Bruna Vespa in giù o in su) nei confronti dell’attuale governo: checché se ne dica non si era mai visto un simile allineamento giornalistico da parte del servizio pubblico radiotelevisivo nei confronti dell’esecutivo. A volte sono paradossalmente costretto a virare sulle reti mediaset per trovare un minimo di obiettività di informazione: è tutto dire!

Dall’altra parte, il governo non pone limiti al proprio appetito e vuole mangiare anche le briciole rimaste sulla tavola Rai, vale a dire “Report”, che si permette di fare qualche inchiesta imbarazzante per chi esercita i pubblici poteri.

Ebbene, ad un certo punto emerge che chi dovrebbe garantire la privacy contro l’eventuale invadenza dei mezzi d’informazione prenderebbe (il condizionale è d’obbligo) pelosi consigli dai dirigenti di Fdi e precisamente dalla chiacchierata Arianna, sorella di Giorgia Meloni.

Ma che razza di casino è questo? Un gatto che si morde la coda, un circolo vizioso all’interno del quale lo spettatore viene privato dell’informazione: se non è fascismo?!

Non è una novità, la dicono lunga i siparietti internazionali della nostra premier.

Una Giorgia Meloni “senza filtri” ha confessato al presidente degli Stati Uniti Donald Trump il suo rapporto non idilliaco con la stampa italiana. In ben due occasioni, durante la giornata alla Casa Bianca con gli altri leader europei, la premier ha fatto riferimento a una relazione “complicata” con i giornalisti. Il primo episodio è avvenuto “fuori onda”: il presidente finlandese Alexander Stubb si dice stupito di come Trump abbia aperto le porte del vertice alla stampa. Giorgia Meloni sorride e commenta: “Ma a lui piace. Gli piace sempre. Io invece non voglio mai parlare con la stampa italiana”. (today.it)

Torno a bomba, vale a dire al corto circuito tra informazione (“Report”), politica (FdI) e autorità indipendente (Garante per la privacy), riportando di seguito una autorevolissima citazione che purtroppo cadrà nel vuoto di un clima penoso e inquietante.

“C’è un’unica soluzione per una degenerazione inaccettabile dell’autorità indipendente trasformata in organo di pressione politica: si devono dimettere”. Parola di Ugo De Siervo, presidente emerito della Corte costituzionale ed ex componente del Garante per la Privacy, quando l’Autorità era ancora un presidio di libertà, non un’estensione del potere politico. (da “Il Fatto Quotidiano”)

Laboratorio per una sinistra radical pop

Mamdani ha posto la questione economica (casa, trasporti e infanzia) al centro della sua campagna. Le sue proposte sono dichiaratamente ambiziose e progettate per affrontare quella che viene chiamata la “crisi dell’accessibilità” a New York: affitti in crescita, costi elevati per allevare bambini, mezzi pubblici gravati da alte tariffe, difficoltà complessiva per le famiglie a reddito medio-basso. Su scala maggiore qualcosa di simile al dibattito che si è acceso recentemente in Italia sul “modello Milano”, i suoi costi e l’“espulsione” dai confini urbani dei meno abbienti. Tra le proposte più importanti, ora da realizzare, ci sono gli autobus gratuiti, il congelamento degli affitti con maggiore enfasi sulla responsabilità dei proprietari, soprattutto dove è forte il rischio di sfratto o si registra un’impennata dei costi di locazione nei quartieri in trasformazione. Più a lungo termine il progetto di triplicare le abitazioni a equo canone, attraverso la costruzione di alloggi in edifici realizzati da imprese che impieghino lavoratori sindacalizzati, garantendo qualità e salari dignitosi. Di forte impatto è anche la proposta di negozi alimentari gestiti direttamente dal Comune per contenere i prezzi dei generi di prima necessità. Segue l’assistenza all’infanzia universale, nella forma di servizi offerti da 6 settimane a 5 anni di età. Gli effetti benefici sulla partecipazione al lavoro, l’uguaglianza di genere e il benessere dei bambini risulterebbero notevoli, ma il costo per le casse pubbliche sarebbe altissimo. Infine, l’imposta fissa del 2% per redditi sopra 1 milione di dollari, misura pensata per finanziare le politiche descritte sopra. Chi ha redditi elevati, sostiene il sindaco eletto, deve contribuire maggiormente al sostegno della città. Donald Trump ha preso di mira Mamdani per questo programma di sinistra e poco “americano”, circostanza in parte vera vista la distanza (e la diffidenza) tra la Grande Mela e il Paese profondo. Tuttavia, il paradosso è che in modi totalmente diversi entrambi, il sindaco e il presidente, si sono rivolti nelle loro campagne elettorali ai “forgotten men”, i dimenticati, gli esclusi, i meno fortunati, contro i privilegi, gli interessi consolidati e i politici di professione. L’esito è stato favorevole sia per l’uno che per l’altro, i risultati sono ora da valutare sul campo. (“Avvenire” – Andrea Lavazza)

C’è indubbiamente nel successo elettorale di Zohran Mamdani – nuovo primo cittadino della Grande Mela, con i suoi 34 anni appena compiuti, il più giovane da fine Ottocento, nonché il primo musulmano e il primo nato in Africa, ammesso alla nazionalità americana solo dal 2018 – qualcosa di populistico e di demagogico, ma c’è anche molta speranza in una certa qual conversione progressista degli americani. Staremo a vedere…

Al momento, più che ad una repentina e piuttosto improbabile svolta anti-trumpiana, sono interessato al recupero del concetto di buona amministrazione locale pensando che possa partire da lì la riscossa politica generale.

New York è una megalopoli, è quasi uno stato nello Stato, ma favorisce tuttavia un rapporto più stretto fra cittadini ed istituzioni, atto a ripensare e ricostruire la politica nella chiave del bene comune.

Volendo operare uno sbrigativo parallelismo con la situazione italiana, potrebbe essere quello inaugurato da Mamdani uno stile di governo rispondente ai bisogni concreti della gente soprattutto dei cittadini più in difficoltà, da applicare ai nostri comuni per attaccare dal basso il verticistico potere della destra basato sul qualunquismo dei molti e sull’egoismo dei pochi.

Nel nostro Paese le elezioni amministrative sono vissute come test elettorali rispetto agli schieramenti politici nazionali: tutto comincia e finisce lì, dopo di che il sindaco vivacchia nell’anonimato e nell’ordinaria amministrazione. Non c’è partecipazione né condivisione da parte dei cittadini, non c’è protagonismo né originalità nei candidati sindaco: morale della favola, se il sindaco è di destra, tira la volata a Giorgia Meloni, se il sindaco è di sinistra, diventa un tentativo per il cosiddetto campo largo alternativo alla destra.

I problemi della gente rimangono al palo mentre a livello amministrativo, più o meno, così fan tutti i sindaci. L’esempio più emblematico riguarda Milano: un sindaco di centro-sinistra che non riesce a concretizzare alcuna terapia contro l’alcolismo della “Milano da Bere”, un’amministrazione comunale che non si distingue dalle altre di segno diverso se non per evitare certi accessi reazionari e poco più.

È pur vero che le amministrazioni locali sono dotate di scarsi poteri (schiacciate fra le due burocrazie dominanti, quella centrale e quella regionale) e di scarsi mezzi (la fiscalità non passa dai comuni), tuttavia con un po’ di fantasia e di sensibilità si potrebbero fare grandi cose, tali da far traballare i balletti politici nazionali. Invece la gara è solo quella della visibilità mediatica a suon di iniziative tanto dispendiose quanto ininfluenti sul tessuto sociale.

Un tempo gli indirizzi socio-politici italiani dipendevano dall’aria che tirava negli Usa: il berlusconismo aveva invertito la tendenza diventando fonte di ispirazione per gli assetti americani. Col governo attuale siamo tornati all’antico, prendendo a scatola chiusa il peggio proveniente dagli Usa (vedi Trump e poi muori…). Il messaggio di Mamdani potrà scombussolare i nostri miseri piani? Servirà a svegliarci dal sonno astensionista? Ci fara gustare di nuovo, pur senza illusioni, il senso della politica, proponendo una sorta di radicalismo di sinistra di base fatto di pochi e precisi obiettivi comunicati in modo coinvolgente da contrapporre al radicalismo verticista di destra fatto di molti e vaghi opportunismi comunicati in modo stravolgente?

 

Le puttanate italiane e le sputtanate libiche

Era nell’aria da mesi l’arresto del generale libico Almasri. Il governo di Tripoli sta facendo piazza pulita della milizia “Rada” e della “Polizia giudiziaria”, i gruppi armati originariamente affiliati alle istituzioni centrali ma che nella logica delle faide tripoline sono caduti in disgrazia. Gruppi che hanno intrattenuto rapporti privilegiati con Paesi come l’Italia, come dimostrato dal “rimpatrio di Stato” del generale, lo scorso 21 gennaio, dopo l’arresto a Torino, nonostante un mandato di cattura della Corte penale internazionale.

Il generale è stato fermato su ordine della procura della capitale libica, con l’accusa di avere personalmente eseguito torture e abusi sui detenuti. Una decina di superstiti alla prigionia lo hanno denunciato e le indagini, secondo gli inquirenti libici, hanno dimostrato che almeno in un caso le sevizie hanno deliberatamente provocato la morte di uno dei prigionieri.

(…)

Nel comunicato delle autorità giudiziarie libiche viene spiegato che «lo scorso luglio, l’ufficio del procuratore generale aveva avviato le indagini» per indagare sui reati «relativi al mandato di arresto emesso dal Tribunale penale internazionale», e a cui l’Italia non aveva ottemperato. «La Corte penale internazionale aveva rivelato – precisa ancora la nota da Tripoli – di aver emesso un mandato di arresto il 18 gennaio, per crimini contro l’umanità e crimini di guerra». Il giorno dopo il generale venne arrestato a Torino, ma la notizia venne tenuta nascosta fino a quando, il 20 gennaio, non venne rivelata da Avvenire e confermata dal ministero della Giustizia italiano solo il 21 gennaio, quando ormai Almasri stava per essere accompagnato a Tripoli.

I nodi stanno venendo al pettine in modo inopinato: per il governo italiano è tempo di ricevere censure internazionali da chi meno ci si poteva aspettare, che dimostrano tutta la incoerenza, l’incapacità e il pressapochismo che va sciorinando il melonismo. Chi ha l’ardire di criticare viene immediatamente bollato come opportunistico e demagogico nemico. Sarà così anche per il governo libico a cui Nordio e c. (facendo una figura di merda) pensavano forse di fare un “piacerino” diplomatico rimpatriando il generale Almasri?

Pur con tutto il rispetto dovuto, è decisamente clamoroso prendere lezioni di diritto internazionale dal governo libico. Siamo veramente piombati nel tragicomico! Il divenire degli eventi parla da sé: come minimo siamo dei pasticcioni, al massimo siamo dei politicanti da quattro soldi.

Abbiamo tanto “riguardo realpolitico” per un delinquente che gira per il mondo e poi impariamo che persino il suo Stato non ne vuole sapere e lo arresta. Se non ci fossero di mezzo tante persone torturate e uccise, ci sarebbe da ridere.

Il governo italiano non ha mai detto il vero motivo del rimpatrio di Almasri, lasciando però intendere che si trattasse di un impronunciabile scambio di favori con la Libia. Adesso la Libia sta dalla parte della Corte Penale Internazionale e arresta Almasri. Probabilmente fra Italia e Libia c’è aperta una gara ad essere il più inaffidabile dei governi.

Si può essere di destra o di sinistra, ma in questo caso la questione è un’altra: siamo in mano ad una manica di cretini che giocano a fare gli statisti. Al pensiero di concedere a questo gruppetto di dilettanti allo sbaraglio il compito di riformare la Costituzione mi si gela il sangue.

Chi ci salverà dal melonismo? Gli incazzatissimi magistrati? Il giornalismo d’inchiesta a cui si vuole tappare la bocca? Il carrello della spesa sempre più misero? L’opposizione politico-parlamentare sempre più inconcludente e farraginosa? I cittadini italiani sempre più egoisticamente smarriti e sfiduciati?

Il berlusconismo cadde sotto i colpi della mannaia internazionale approntata dalla “santa congiura” di Germania (Merkel), Francia (Sarkozy), Usa (Obama) e Italia (Napolitano). Il melonismo, che ha tutti i difetti senza alcun pregio del berlusconismo, prima o poi cadrà, magari quando meno ce l’aspettiamo. Della “santa congiura” è rimasto solo il successore di Napolitano, vale a dire Sergio Mattarella, che continua imperterrito a predicare nel deserto. Da Scholz e Macron non c’è da aspettarsi niente di buono; da Trump Dio ci scampi e liberi; da Von der Leyen peggio che andar di notte.

Vuoi vedere che sarà la Corte Penale Internazionale a suonare le campane a fronte delle trombonate narcisistiche di Giorgia Meloni?

Nei mesi scorsi le autorità del Regno Unito – a quanto risulta ad Avvenire – hanno congelato diversi milioni di euro su conti di banche del Commonwealth riconducibili ad Almasri, che aveva ottenuto la cittadinanza della Dominica e circolava in Europa con documenti di identità autentici rilasciati dalla Turchia. Ma è anche dalla Germania che si attendono sviluppi. Da un momento all’altro la magistratura tedesca dovrebbe decidere sulla consegna all’Aja del braccio destro di Almasri, il comandante Al-Buti, arrestato nello scorso luglio mentre tentava di lasciare Berlino, dove si era recato per curare i suoi affari.

Ma che fa più scalpore è senza dubbio la Libia.

Nei giorni scorsi il premier libico Dbeibah aveva promesso che Almasri sarebbe stato consegnato alla Corte penale internazionale, con cui la Libia ha firmato per la prima volta una intesa per la cooperazione giudiziaria. Ma non sarà un passaggio automatico. Almasri dovrà essere processato da Tripoli, dove resterà in ostaggio di logiche imprevedibili. «Sebbene non possiamo commentare le notizie – ha spiegato ad Avvenire una fonte dell’Aja –, la Corte penale internazionale lavora costantemente per mantenere una linea di comunicazione aperta con le autorità locali e migliorare la cooperazione». In altre parole, il generale non verrà estradato nell’immediato alla giustizia internazionale.

L’Italia risponde picche.

Nei giorni scorsi Roma ha tentato di appianare le asperità annunciando una revisione delle norme che regolano la cooperazione con la Corte penale internazionale. Una mossa necessaria per evitare il deferimento dell’Italia all’assemblea degli Stati che fanno parte della Cpi o al Consiglio di sicurezza Onu. «L’esperienza maturata con il caso Almasri ha portato l’Italia – in tutte le sue articolazioni (Parlamento, governo e magistratura) – a intraprendere una revisione delle modalità con cui deve operare il sistema di cooperazione delineato dalla legge italiana», si legge nella nota del governo alla Corte dell’Aja, e questo per «ottemperare agli obblighi internazionali nei confronti di questa Corte, che l’Italia conferma di voler rispettare». Sotto i riflettori c’è la legge italiana sulla quale la stessa Corte d’Appello di Roma ha sollevato a sua volta una questione di legittimità, chiedendo alla Corte Costituzionale di esprimersi sulla necessità della richiesta di permesso al governo per arrestare un ricercato per crimini contro l’umanità. (“Avvenire” – Nello Scavo)

Nel pantano del disordine internazionale sguazzano gli unilaterali maiali fra cui si sta schierando anche l’Italia. Se il pantano cominciasse ad essere ripulito qualche suino potrebbe non avere più il suo habitat e la scena potrebbe cambiare. Non rimane quindi che sperare in una difficile ma salutare ripresa del diritto internazionale, che dovrebbe avere il suo protagonista principale nella Ue.  In mancanza dei cavalli europei chissà che non possano trottare gli asini libici, palestinesi, arabi, africani etc. etc.

Quando le cose vanno molto male si deve sperare nel colpo di reni degli ultimi della pista a livello interno e internazionale. Aspettare che le novità vengano dall’alto è tempo perso. Il pericolo è semmai che i governanti più furbi e potenti (vedi Trump, Putin, Xi Jinping) si riposizionino immediatamente a fianco dei tagliati fuori in vena di riscatto (vedi armata Brancaleone dei Paesi non allineati).