Il bilancio in rosso…di vergogna

«Quest’aula ha dedicato più tempo a organizzare il concerto di Baglioni che non a dibattere della legge di Bilancio. E la colpa non è del Parlamento, la responsabilità è del Governo». Lo ha detto Matteo Renzi in Senato.

Mi sembra una battuta molto azzeccata che fotografa lo strapotere inconcludente dell’esecutivo e la conseguente inerzia del Parlamento: su quella che è annualmente la legge più importante nessun reale dibattito, ma soltanto una insopportabile passerella governativa.

Per quel poco che sono riuscito a comprendere mi sembra un coacervo di norme senza capo né coda, il nulla motivato dalla prudenza: sarebbe come se un automobilista per essere prudente rinunciasse ad usare la macchina tenendola ferma in garage o, meglio, limitandosi ad un giretto in centro città violando i divieti e causando incidenti a non finire.

Il governo Meloni non ha una linea politica, dà un colpo al cerchio e uno alla botte: punta a non disturbare nessuno e finisce col disturbare tutti, o, meglio, colpendo solo i deboli e facendo il solletico ai forti. L’opinione pubblica è distratta, è impossibilitata a farsi un’idea e quindi beve tutto senza battere ciglio.

Un bilancio è la sintesi degli atti gestionali del passato ed al contempo l’indicazione di quelli futuri: non è l’asettica sommatoria di dati, ma semmai un insieme di opinioni su cui imbastire un progetto di gestione.

Non comprendo il senso dell’operare di questo governo e sfido chiunque in buona fede a riuscirci. Far finta di governare è il miglior metodo per difendere gli interessi consolidati illudendo quanti hanno i propri fortemente dimenticati o compromessi. Non parlo di valori, sarebbe forse pretendere troppo, ma mi limito agli interessi. Che pena! La politica ridotta all’istituzionalizzazione del nulla, alle chiacchiere di una manica di incompetenti funzionali allo spirare di un vento di estrema destra che rischia di distruggere la nostra democrazia.

Sto esagerando? Può darsi. Ma più il tempo di questo governo passa e più mi convinco che i suoi bilanci, anche se formalmente a pareggio, non possono che essere in profondo rosso, non certo il rosso di una politica di sinistra, ma quello della vergogna di una pseudo-politica di estrema destra anti-democratica.

 

 

Il Papa è in voga finché non parla di pace

Spero che non vi sarete persi i grandi servizi di giornaloni e tg sul Papa che viene eletto da Vogue come uno dei “personaggi meglio vestiti del 2025” (per il dress code originale e innovativo), che visita a sorpresa il Senato per la mostra sulla Bibbia di Borso d’Este accolto da La Russa,  mentre se ne stanno in silenzio di fronte all’invettiva di Papa Leone XIV contro le classi dirigenti europee, vale a dire una dura critica recente (dicembre 2025) focalizzata sul riarmo bellico, l’uso della paura per manipolare le decisioni politiche e la blasfemia di giustificare la guerra con la fede, in un richiamo alla Pace nella Terra e alla necessità di visione strategica, criticando indirettamente leader come Ursula von der Leyen e sottolineando che l’Europa sta perdendo la sua anima morale e spirituale, preferendo la logica del conflitto. (Marco Travaglio – “Il Fatto Quotidiano”)

Mi ero perso il clamore mediatico sulla stupida scelta di Vogue: niente male, anzi meglio così. Mi ero invece perso i contenuti dell’invettiva di Papa Leone. Do atto a Marco Travaglio della sua incalzante obiettività e di avermi spinto a prendere in considerazione l’invettiva (se la vogliamo chiamare così) di Prevost.

Accolgo con immenso piacere le incisive parole del Papa e constato con crescente amarezza come i governanti facciano orecchie da mercante. Purtroppo anche a livello di pubblica opinione la guerra viene sempre più considerata come un male necessario, le coscienze non hanno la forza di ribellarsi, chi ha il coraggio di denunciare questo folle clima bellico viene considerato un sognatore.

Quando trattiamo la pace come un ideale lontano, finiamo per non considerare scandaloso che la si possa negare e che persino si faccia la guerra per raggiungere la pace. Sembrano mancare le idee giuste, le frasi soppesate, la capacità di dire che la pace è vicina. Se la pace non è una realtà sperimentata e da custodire e da coltivare, l’aggressività si diffonde nella vita domestica e in quella pubblica. Nel rapporto fra cittadini e governanti si arriva a considerare una colpa il fatto che non ci si prepari abbastanza alla guerra, a reagire agli attacchi, a rispondere alle violenze. Molto al di là del principio di legittima difesa, sul piano politico tale logica contrappositiva è il dato più attuale in una destabilizzazione planetaria che va assumendo ogni giorno maggiore drammaticità e imprevedibilità. Non a caso, i ripetuti appelli a incrementare le spese militari e le scelte che ne conseguono sono presentati da molti governanti con la giustificazione della pericolosità altrui. Infatti, la forza dissuasiva della potenza, e, in particolare, la deterrenza nucleare, incarnano l’irrazionalità di un rapporto tra popoli basato non sul diritto, sulla giustizia e sulla fiducia, ma sulla paura e sul dominio della forza.  «In conseguenza – come già scriveva dei suoi tempi San Giovanni XXIII – gli esseri umani vivono sotto l’incubo di un uragano che potrebbe scatenarsi ad ogni istante con una travolgenza inimmaginabile. Giacché le armi ci sono; e se è difficile persuadersi che vi siano persone capaci di assumersi la responsabilità delle distruzioni e dei dolori che una guerra causerebbe, non è escluso che un fatto imprevedibile ed incontrollabile possa far scoccare la scintilla che metta in moto l’apparato bellico». 

Ebbene, nel corso del 2024 le spese militari a livello mondiale sono aumentate del 9,4% rispetto all’anno precedente, confermando la tendenza ininterrotta da dieci anni e raggiungendo la cifra di 2.718 miliardi di dollari, ovvero il 2,5% del PIL mondiale.  Per di più, oggi alle nuove sfide pare si voglia rispondere, oltre che con l’enorme sforzo economico per il riarmo, con un riallineamento delle politiche educative: invece di una cultura della memoria, che custodisca le consapevolezze maturate nel Novecento e non ne dimentichi i milioni di vittime, si promuovono campagne di comunicazione e programmi educativi, in scuole e università, così come nei media, che diffondono la percezione di minacce e trasmettono una nozione meramente armata di difesa e di sicurezza. (Messaggio di Papa Leone XIV per la LIX giornata mondiale della pace)

Andiamo pure incontro alla catastrofe incartando le armi con la patinata e prestigiosa rivista “Vogue” e scambiandoci ipocritamente e scandalosamente “il segno della guerra”.

 

Vieni, c’è una casa nel bosco

I bambini della casa nel bosco di Palmoli non torneranno a casa per Natale. Ma non saranno gli unici minori a trascorrere la festa più bella dell’anno lontano da casa. Nella loro stessa situazione ci sono nel nostro Paese altri ventimila bambini e ragazzi di cui però nessuno parla. A cui non vengono dedicati servizi e talk show, che non suscitano il minimo interesse da parte della politica. Una contraddizione che la dice lunga sulla sensibilità a circuito variabile verso il dramma dei minori fuori famiglia e dei loro genitori. Tanto clamore per un caso, certamente importante e certamente singolare. Silenzio assoluto per gli altri ventimila, altrettanto importanti e altrettanto singolari. Ora, come sappiamo, la Corte d’appello dell’Aquila ha respinto il ricorso presentato dagli avvocati della famiglia anglo-australiana. La palla torna quindi al Tribunale per i minorenni che dovrà valutare i progressi, soprattutto per quanto riguarda la socializzazione, compiuti dai tre bambini ospiti dal 20 novembre scorso di una casa famiglia a Vasto. E da qui nuove domande, nuove valutazioni, nuove analisi del caso da parte di opinionisti e tuttologi che affollano i salotti televisivi dove, quasi quotidianamente, si passa al setaccio la vicenda, si analizzano le relazioni dei servizi sociali, tra cui l’ultima in cui si spiega che i bambini non sanno leggere, che si stupiscono di fronte alla doccia, che mostrano di non aver mai usato il sapone, che fanno fatica a spiegarsi con gli altri bambini perché quasi non parlano in italiano. Questioni non decisive, d’accordo, che forse avrebbero potuto essere risolte spiegando alla famiglia la necessità di mostrarsi più collaborativa. Proprio come sta avvenendo in questi giorni, con i genitori che hanno annunciato la loro disponibilità a trasferirsi in una villetta dotata di tutti i servizi – acqua, luce, gas, servizi igienici – mancanti nel casolare abitato fino a poche settimane fa. (“Avvenire” – Luciano Moia)

Mi vengono spontanee alcune domande/ riflessioni, peraltro collegate fra di loro, che la dicono lunga sulla nostra penosa società.

Non si poteva affrontare per tempo questa situazione famigliare al giusto livello psico-sociale senza bisogno di creare un corto circuito legale, mediatico e politico sbattendo in prima pagina i mostri o i santi a seconda dei punti di vista?

I servizi sociali del comune competente non potevano intervenire a babbo vivo in modo più umano e meno burocratico?

Non si poteva dialogare con questi genitori con pazienza sociale e umiltà giuridica?

Perché si aspetta sempre che i problemi deflagrino per poi affrontarli a gamba tesa, facendo del male a tutti più che del bene ai bambini?

Il tribunale competente non poteva aspettare un po’ prima di adottare drastiche misure: l’istruttoria attuale non poteva essere fatta prima di giungere alla rottura. Ci si doveva almeno tentare! Adesso è tardi e comunque chi ha rotto non pagherà e i cocci saranno di quei bambini.

Non è ora di smetterla con la Tv spazzatura che affronta i problemi umani con il garbo di un elefante nel negozio di cristalleria?

Questi casi così pietisticamente analizzati e così strumentalmente branditi altro non rappresentano che il goffo tentativo di tacitare le coscienze pubbliche e private riguardo alla vastità e profondità dei mali della società.

La casa nel bosco è diventata la casamatta in cui scaricare tutte le emarginazioni infantili davanti alle quali restiamo indifferenti, salvo svegliarci di soprassalto quando scoppia qualche clamorosa e lacerante contraddizione.

È questo ormai lo stile partecipativo di una società egoisticamente chiusa in se stessa, che galleggia sui propri mali, scaricando su Tizio (magistratura), Caio (politica) e Sempronio (psicologia e sociologia) la propria carenza etica e la propria indifferenza umana su cui stendere l’impietoso ed ispido velo mediatico.

 

Giovani alla disperata ricerca di statisti

L’effetto delle nuove norme lo spiega oggi Il Sole 24 Ore: l’uscita dal lavoro si sposterà infatti di tre mesi per i pensionamenti “anticipati”, quelli che oggi si ottengono con 42 anni e 10 mesi di anzianità (un anno in meno per le donne). Mentre il collocamento effettivo a riposo potrà spostarsi addirittura di due anni e mezzo per chi riscatta il periodo di studi universitari. La parte positiva (per il governo) è che le due misure avranno effetti dal 2031-32, mentre al voto si va nel 2027. La finestra mobile è il tempo di attesa tra la maturazione dei requisiti e l’uscita dal lavoro. Oggi si devono aspettare 3 mesi. Dal 2032 bisognerà attenderne 4 e così via. Ci si attende un contributo ai conti pubblici di 1,4 miliardi nel 2035.

La sterilizzazione dei riscatti degli anni di laurea agisce sui requisiti previdenziali ma non sull’assegno. Il quotidiano spiega che dal 2031 il periodo riscattato sarà tagliato di sei mesi, dal 2032 perderà un anno, dal 2033 verranno meno 18 mesi, 24 mesi dal 2034 e 30 mesi a partire dal 2035. La norma a regime porterà il titolo di studio triennale a offrire 6 mesi ai requisiti. Per il titolo magistrale varranno 2 anni e mezzo. Il costo del riscatto naturalmente non cambia. Entrambe le regole escluderanno i lavoratori con contratto di solidarietà. (open.online)

In questa affannosa e irrazionale ricerca di risparmio nei conti pubblici finalizzata al rientro nei parametri virtuosi (?) fissati dalla Ue è racchiusa la fiera delle contraddizioni dell’attuale governo: si era presentato con un programma di allentamento della stretta pensionistica e addirittura la sta accentuando; si pavoneggia come governo di lunga durata e poi vara misure di corta visuale (andiamo indenni al 2027 e poi chi vivrà vedrà…); proprio all’indomani della celebrazione di Atreju, la manifestazione politica promossa dall’organizzazione giovanile del partito di destra su cui si basa l’attuale maggioranza, viene varata una disposizione punitiva nei confronti dei giovani laureati o laureandi.

Un po’ come nelle opere liriche in cui dopo le melodiose arie vengono spesso le cabalette o strette, che portano al finale energico della romanza o addirittura dell’opera: dopo essere stati illusi dalle promesse elettorali arrivano, in men che non si dica, le concrete batoste.

In una società che registra una bassa presenza di laureati, dove i giovani dopo aver ottenuto la laurea non trovano lavoro e se lo trovano è mal remunerato, dove i giovani scappano all’estero per ottenere riconoscimenti e trattamenti adeguati alla loro preparazione professionale, risulta a dir poco demenziale una penalizzazione pensionistica a livello di riscatto degli anni di laurea.

E poi questi stessi giovani, se osano protestare, vengono dipinti come i soliti sfaccendati comunisti: così la ministra Bernini proprio ad Atreju. Mi fa venire alla mente la faziosità di un parroco che negava aiuto a una povera donna perché andava a bere un bicchiere di vino al circolo comunista del quartiere. Pier Luigi Bersani ha commentato con la sua solita verve polemica: a questi giovani non rimarrà altro da fare che affidarsi al primo (vetero) comunista che passa.

Penalizzare la vita studentesca e professionale dei giovani è la più clamorosa delle dimostrazioni in negativo di quanto sosteneva Alcide De Gasperi: “Un politico pensa alle elezioni, ma uno Statista pensa alle prossime generazioni!”.

Purtroppo paradossalmente con le elezioni vissute come un totem, vale a dire come ciò che viene esaltato, adorato, elevato alla massima evidenza, si può arrivare a distruggere la democrazia considerandola un tabù, vale a dire ciò che deve essere occultato nella massima oscurità.

Il capo dello Stato ha recentemente posto attenzione sulle ragioni che portano i giovani a disertare le urne. “Spesso non si tratta di un generico rifiuto della politica. Al contrario, una parte significativa del mondo giovanile mostra ampia, preziosa propensione all’impegno civile, alla mobilitazione sui grandi temi del nostro tempo, dalla pace all’ambiente, al volontariato, alla vita associativa. Ma tanti decidono di non votare”.

A buon intenditor poche parole…

P.S. Sembra che il governo ci abbia ripensato e abbia ritirato in fretta e furia le assurde misure sulla previdenza, non per resipiscenza, ma per contrasti fra i partiti di maggioranza e per calcoli elettoralistici. Il ministro Giorgetti (fa più tenerezza che pena) è rimasto col cerino acceso in mano, ma a scottarsi sono i cittadini sgovernati. Vale tutto quanto sopra a maggior ragione. Brancolano nel buio!

 

 

 

L’Ucraina tra la famiglia dei forti e l’orfanatrofio europeo

“Tanto tuonò che non piovve” diranno Putin e soci. “Ha prevalso il buon senso” ha detto Giorgia Meloni. “L’Europa è la patria degli ‘zbrägavérzi’ dico io.

Prima e subito dopo l’aggressione russa all’Ucraina era il tempo del dialogo e della diplomazia, invece silenzio e risposte in armi; ora che sarebbe purtroppo il tempo della dimostrazione di forza invece ecco spuntare la prudenza per non dire la paura, che va ben oltre le rimostranze giuridiche putiniane per allargarsi agli scheletri negli armadi europei e ai potenziali ricatti per un passato molto ingombrante e imbarazzante e per un incombente futuro rischio atomico da affrontare sotto l’ombrello della Nato che fa acqua da tutte le parti.

I partner europei, sparpagliati come non mai, non riescono a tenere una linea di politica estera comune e finiscono col dare ragione a Donald Trump che li sta snobbando e ridicolizzando (senza gli Usa si sentono orfani e trasformano la Ue in orfanatrofio). Era il momento di puntare i piedi, di battere i pugni sul tavolo, di toccare nel vivo la Russia, ma tutti tengono famiglia nazionale ed elettorale, tutti parlano bene bellico e razzolano male diplomatico, tutti promettono di aiutare l’Ucraina ma senza esagerare (non si sa mai…).

Non so chi vincerà la guerra russo-ucraina (forse lo deciderà Trump che l’ha trasformata da aggressione unilaterale in guerra bilaterale…); una cosa so, vale a dire che questa guerra la sta perdendo l’Europa, che esce malissimo, vittima del proprio tira e molla vergognoso.

Almeno non potevano, prima di imbarcarsi nell’attacco agli asset russi, valutare bene e riservatamente le conseguenze e le divergenze di una simile iniziativa. Sono partiti in quarta e poi hanno fatto marcia indietro. Che figura!

Baci e abbracci con Zelensky. Ogni promessa è debito? No, ogni promessa si risolve in armi (affari d’oro per l’economia di guerra occidentale) e in prestito (da restituire chissà come e chissà quando).

Alla fine probabilmente il tutto, dal punto di vista finanziario, sarà più pericoloso rispetto all’utilizzo degli asset russi.

Gli ucraini ringraziano (a caval donato non si guarda in bocca…), ma forse soprattutto ringrazia Putin (che l’ha scampata bella…). Trump a sua volta incassa e porta a casa il ridimensionamento del potenziale rompiscatole europeo nel suo disegno riveduto e scorretto di spartizione del mondo.

Chiedo scusa per l’eccessivo uso delle parentesi, ma non è colpa mai se il mondo non prevede un testo base a livello narrativo e interpretativo, ma soltanto delle opinioni più o meno plausibili e/o instabili. Conclusione: non ci si capisce un cavolo! E dove nessuno capisce vince il più forte anche se ha torto marcio.

Una Milano da sputare

Si sono rifugiati dalle suore delle Discepole del Vangelo, in via Quarti le famiglie durante lo sgombero di martedì nei casermoni Aler. A raccontarlo scrivendo direttamente al prefetto di Milano Claudio Sgaraglia è stato don Giuseppe Nichetti, parroco della Comunità Pastorale S. Apollinare e sant’Anselmo da Baggio. «Quando sono arrivato a casa loro (delle suore, ndr.) questa sera, dopo cena, ho notato che solo pochissime finestre del loro palazzo erano illuminate e ho trovato la loro casa invasa da mamme con bambini, venute a chiedere una tazza di tè caldo per i loro figli». «L’intervento infatti – scrive ancora don Giuseppe – ha lasciato al buio tantissime famiglie; alcune sono state private anche del gas. Per non parlare dello spavento che tanti anziani hanno provato, questa mattina, quando hanno sentito suonare il campanello e si sono trovati davanti agenti in divisa, che chiedevano di controllare i documenti. Un ragazzo con autismo, che abita al nono piano del civico 31, che è completamente al buio, urlava e piangeva per la paura; così come piangevano per la paura del buio i numerosi bambini che ho trovato nell’appartamento delle suore». (da “Avvenire” – Simone Marcer, Milano)

Mi auguro che nessuno osi compiacersi di questa autentica porcheria milanese che grida vendetta al cospetto di Dio. Non mi si dica che occorre ripristinare la legalità, che l’ordine deve essere difeso, che la sicurezza richiede questi interventi. Questa non è legalità questa è tortura dei poveri; questo non è ordine questo è disordine; questa non è sicurezza ma totale indifferenza per chi soffre e vive in situazioni a dir poco problematiche.

Non so di chi sia la responsabilità: dai prefetti non mi aspetto niente di più che un asettico atteggiamento burocratico, le forze dell’ordine fanno il loro mestiere, è dagli amministratori comunali che esigo operosa e coraggiosa attenzione e interventi a monte e a valle. Il sindaco Sala si dia una svegliata. Dov’è la sua maggioranza di centro-sinistra?

Mia sorella Lucia, quando era in consiglio comunale, non andava per il sottile e di fronte all’inerzia di assessori e sindaco in materia sociale, li invitava caldamente e provocatoriamente ad andare a lezione dal suo parroco (don Sergio Sacchi). La storia è vecchia e si ripete: tante parole e pochi fatti! La sinistra purtroppo non si distingue più di tanto: se non si lascia interrogare da queste situazioni di povertà che sinistra è? Alle assistenti sociali, con tutto il rispetto, si chieda di chiudere le loro stucchevoli agende e di farsi su le maniche alla Mario Tommasini. Non ci si poteva fare niente? Ma fatemi il piacere!

Sono letteralmente schifato da questo vergognoso episodio milanese: un tempo si parlava enfaticamente di una Milano da bere, oggi rettificherei la definizione e parlerei di una Milano da sputare. Non mi interessa lo scaricabarile, non ci può essere giustificazione alcuna a tanta agghiacciante cattiveria amministrativa.

Il mio caro e indimenticabile amico don Scaccaglia non avrebbe esitato ad ospitare nella sua chiesa gli sgomberati. Meno male che un convento di suore ha aperto le sue porte.

«È stata un’operazione che non ha considerato le conseguenze sulla vita delle persone, a partire da quelle più fragili», ha detto sorella Michela Cusinato della comunità “Discepole del Vangelo”. «Così il lavoro fatto per conquistare la fiducia delle persone del quartiere rischia di essere distrutto», gli fa eco Giovanni Valle, della parrocchia di Sant’Anselmo da Baggio, elencando tutti gli interventi che vengono fatti dalla rete di coordinamento di associazioni: accoglienza e ascolto settimanale con i volontari, sostegno scolastico, con la Comunità progetto, aggregazione giovanile con il Gruppo Vincenziano, solo per citarne alcuni.

Il compiacimento per la sensibilità caritatevole di suore, preti e laici non mi esime dal denunciare come cittadino e come cristiano l’assenza della politica dai problemi della povera gente. Vergogna!

 

La fontana malata e la sorgente armoniosa

Un Lorenzo Fontana quasi a briglie sciolte sulla situazione internazionale. Si professa «un po’ più fiducioso» sulle prospettive di pace per l’Ucraina, perché entrambe le parti «stanno capendo che uno sforzo così prolungato non sia giustificato» alla luce dei risultati ottenuti. Soprattutto per la Russia di Putin questo conflitto «è un fallimento totale, un boomerang», al di là della propaganda. E poi «non credo che gli Usa si ritireranno dall’Europa»; e per quest’ultima, in ogni caso, progredire sull’integrazione non sarà facile, è «troppo complicato, se non impossibile» fare una «un esercito comune», perché «ci sono interessi molto differenti» e poi la storia «ha un suo peso, con le guerre del passato» fra vari stati europei. (“Avvenire” – Eugenio Fatigante)

Mi è venuto spontaneo un confronto fra le dichiarazioni della terza carica dello Stato, cioè del presidente della Camera, e quelle della prima carica, vale a dire del presidente della Repubblica: una differenza abissale, umana, culturale e politica.

Con Lorenzo Fontana siamo all’osteria della Giarrettiera laddove alloggiava sir John Falstaff, il quale ricevette appunto un tale signor Fontana, che sotto falso nome voleva ingannarlo smascherandone l’ingenua ma ostinata supponenza. Gli italiani si fanno ingannare da questo signor nessuno, che propina loro argomentazioni oscillanti tra il subdolo qualunquismo e l’ignorante pragmatismo: la pace ridotta a mera presa d’atto delle macerie post-belliche; gli Usa inchiodati ad una sorta di filo-europeismo di maniera; l’Europa bloccata dalle difficoltà del presente e dai retaggi del passato. Della serie rassegniamoci e partite.

E questi sarebbero gli auguri di fine anno indirizzati alla stampa parlamentare dal presidente della Camera. Molto meglio che simili scoraggianti auguri li tenesse per sé… L’unico barlume di luce nelle tenebre consiste per gli ottimisti nella relativa buongustaia presa di distanza di Fontana dalle porcherie salviniane: chi si contenta gode…

Ma passiamo in un altro emisfero, alziamoci per uscire dall’osteria e andare ad ascoltare il Presidente Mattarella di cui riporto di seguito un passaggio dell’intervento in occasione della XVIII Conferenza delle Ambasciatrici e degli Ambasciatori d’Italia.

La nostra Repubblica, fin dalle sue origini, ha manifestato acuta consapevolezza del valore del dialogo internazionale come via privilegiata per affermare il suo ruolo nel mondo.

Questa scelta non discese soltanto da un’ispirazione riflessa nella nostra Costituzione, ma risponde, oggi come allora, a un ragionamento puntuale circa il modo migliore di tutelare i nostri interessi nazionali.

Prese forma nel corso del tempo, progressivamente, a partire dall’azione di un ministro degli Esteri come Alcide De Gasperi e, poi, di Carlo Sforza – che con lui collaborò, a sua volta da Ministro – quella Costituzione materiale che ha guidato, senza discontinuità, il nostro Paese nello scenario internazionale, basandosi su pace, dialogo, multilateralismo, europeismo, legame atlantico.

Quegli orientamenti continuano a rappresentare, ancora oggi, un patrimonio prezioso che ci può guidare nelle nuove forme con cui si presentano i conflitti.

Di fronte alla nuova complessità, avviene anche che la diplomazia appaia in ripiego o che si ritenga che si trovi a gestire la mera certificazione notarile di situazioni regolate con la forza.

Non è così!

Alcuni dei risultati raggiunti nel dopoguerra dalla diplomazia, tanto quella multilaterale quanto quella bilaterale, sono stati straordinari.

Oggi, forse ancor più che nel recente passato, è indispensabile disporre di una diplomazia, competente e ben formata, capace di comprendere e gestire questa complessità, muovendosi con equilibrio.

Una diplomazia che sia in grado di sviluppare iniziative che colmino il preoccupante deficit di fiducia reciproca tra gli Stati che si va accumulando in seno alla Comunità internazionale; che sappia rivolgersi a tutti gli attori di una crisi, affermando i principi irrinunciabili della legalità internazionale.

Dopo la sbrigativa celebrazione del funerale della diplomazia ecco la fiducia nella risurrezione della diplomazia stessa. Dopo l’apnea indotta dal presidente della Camera una boccata d’ossigeno fornita dal presidente della Repubblica. Oggi più che mai valga la locuzione “ubi maior minor cessat”.

 

 

Mattarella, pensaci tu e prendici in braccio

Penso sia vero che Sergio Mattarella gode della stima e dell’affetto di tantissimi connazionali, e sembra quasi superfluo ripetere perché ciò accada. Un modo di fare politica attento al bene comune, espressione di valori umanistici laici e cristiani, declinati con pacatezza ma senza cedimenti, un riferimento anche a livello internazionale per capacità di cogliere le reali urgenze da affrontare con determinazione in tempo di guerre tragiche e odiose e di minacce alla convivenza, provenienti dall’interno e dall’esterno del Paese. Non è un caso che il Capo dello Stato continui a subire intimidazioni esplicite da Mosca e attacchi obliqui da alcuni segmenti dei media, dei partiti e degli interessi organizzati italiani. Evidentemente dà fastidio la sua limpida testimonianza di democrazia, rispetto della legalità ed equilibrio, argini a sopraffazioni, nazionalismi autoritari, ingiustizie e attentati alla dignità di ciascuno.

Un sistema vitale che vedesse l’attivo coinvolgimento della maggioranza dei suoi cittadini sulla scia dei migliori esempi istituzionali non avrebbe difficoltà a presentare persone adeguate a ricoprire le cariche più importanti con “disciplina e onore”, secondo l’articolo 54 della nostra Costituzione. Se, tuttavia, non fermiamo l’emorragia di fiducia nei processi liberal-democratici e non alimentiamo di convincimenti forti il terreno in cui si radica la pianta del bene comune, saremo condannati a rimpiangere gli statisti del presente come del passato e a pentirci della nostra accidia civile. (da “Avvenire” – Andrea Lavazza in risposta ad un lettore)

A livello internazionale è sotto gli occhi di tutti come il presidente Mattarella, in assenza di una seria linea del governo italiano e/o in presenza di una linea oscillante ed ambigua, stia elegantemente e coerentemente colmando le enormi buche nel terreno governativo e raccogliendo letteralmente le cacche sparse nel mondo da una premier inadeguata prima e più che sbalestrata.

A volte mi chiedo se, considerata la grande stima e considerazione di cui gode da parte dei cittadini italiani nonché a livello internazionale, il presidente Mattarella non potrebbe fare qualcosa di più pur rimanendo rigorosamente nell’ambito dei suoi poteri istituzionali, aggiungendo ai suoi interventi appropriati ma felpati, un quid di provocatoria, esplicita e concreta incisività. È sempre così: quando si trova un interlocutore disponibile si tende ad approfittarne. Gli chiedo scusa anche se il mio è un eccesso di stima e di considerazione.

Forse è proprio la sua misura che conquista fiducia e credibilità, tuttavia un po’ più di grinta non guasterebbe: di fronte a certe situazioni socio-politiche potrebbe tranquillamente denunciare ingiustizie clamorose e censurare comportamenti indecenti. I cittadini starebbero dalla sua parte.

Capisco e apprezzo la sua prudenza, ma quando la casa brucia bisogna gettare immediatamente secchiate d’acqua e non accontentarsi di chiamare i pompieri. E che la casa stia bruciando non c’è alcun dubbio. Faccio qualche piccolo esempio.

Davanti alla conclamata ingiustizia di retribuzioni da fame per molti lavoratori dipendenti e alla titubanza per non dire contrarietà governativa verso l’introduzione dell’obbligo di un salario minimo e ancor più alla inerzia parlamentare riguardo ad un sacrosanto provvedimento che restituisca dignità ai lavoratori, un appello chiaro e deciso del Capo dello Stato sarebbe perfettamente in linea con la Carta costituzionale (L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro – La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.) e con le funzioni e i poteri presidenziali (Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale – Il Presidente della Repubblica, prima di assumere le sue funzioni, presta giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione dinanzi al Parlamento in seduta comune).

E se il Parlamento perseverasse nella sua sordità potrebbe essere minacciato di scioglimento: forse i parlamentari di fronte al rischio di essere mandati a casa si impegnerebbero finalmente nell’affrontare questo problema.

Analogo discorso si potrebbe porre per la sanità pubblica (La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti).

Qualcuno potrebbe obiettare che si finirebbe con lo scivolare in una repubblica presidenziale: ad estremi mali estremi rimedi, sempre meglio salvare la partita della democrazia con interventi a gamba tesa del presidente della repubblica piuttosto che sospendere di fatto la partita per impraticabilità del campo; sempre meglio un presidente “invadente” che un presidente “comparsa” come prevede la penosa riforma in discussione.

Chiudo con un esempio di carattere internazionale: il noto e gravissimo caso Almasri, tuttora presente come un ingombrante macigno nei nostri rapporti internazionali. Il Capo dello Stato poteva intervenire anche come presidente del Consiglio Superiore della Magistratura per evitare un vergognoso vulnus perpetrato contro il diritto internazionale.

“La repubblica ripudia la guerra” è la celebre frase dell’Articolo 11 della Costituzione italiana, che stabilisce che l’Italia rifiuta la guerra come strumento di offesa e come mezzo per risolvere controversie internazionali. Questo principio è un punto fondamentale dell’ordinamento repubblicano e antifascista, mirando a promuovere la pace attraverso la collaborazione internazionale. E non è collaborazione internazionale l’osservanza dei provvedimenti adottati dalla Corte Penale dell’Aia?

Lungi da me formulare giudizi e indirizzare consigli verso il Presidente Mattarella. Mi permetto soltanto di attaccarmi alla sua gonna come fanno i bambini nei momenti di paura: «mama tôm in spala!». Io ho paura di perdere la democrazia e come cittadino italiano non mi resta che piangere e gridare chiedendo il suo aiuto.

 

 

 

 

Pluralismo informativo a furor di mercato

L’indipendenza e il pluralismo dell’informazione sono altrettanti pilastri essenziali per una democrazia autentica. Per questo, la preoccupazione non può essere soltanto quella di salvaguardare i posti di lavoro. Diceva giusto un anno fa il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: «È necessario sostenere il pluralismo, nelle articolazioni sociali come nell’informazione, non affidando soltanto alle logiche di mercato quel che è prezioso per la qualità della convivenza e per una piena cittadinanza». (“Avvenire” – Gerolamo Fazzini)

È lacrimevolmente coccodrillesca la discussione intorno alla vendita delle attività del gruppo Gedi, di cui fanno parte Stampa e Repubblica, a Kyriakou, un imprenditore greco – in Italia quasi sconosciuto, mentre in Grecia è una figura di primo piano – erede di una storica famiglia di armatori, che guida oggi un vasto conglomerato attivo nei media, televisioni, radio, editoria, musica, con interessi anche in Polonia, Romania, Regno Unito e Stati Uniti.

Il discorso di fondo riguarda il ruolo del mercato in una società democratica: ci siamo rassegnati o addirittura genuflessi ai meccanismi mercatali e poi ci preoccupiamo degli effetti. Come può una politica sempre più succube dell’impero mediatico, a cui si affida per essere letteralmente inventata e ottenere consensi e appoggi, portare avanti un’azione positiva nel campo dell’informazione? Come può la mano pubblica difendere la società dagli abusi di un camaleontico capitalismo sempre più avvolgente e condizionante? Come può un Parlamento legiferare e un Governo amministrare in modo da evitare gli effetti distorsivi di un sistema che intacca i diritti dei cittadini fra cui il sacrosanto diritto ad un’informazione corretta?

Questa dovrebbe essere la sfida portata avanti dal riformismo della sinistra. Questa è la filosofia della nostra Costituzione. Questa è la problematica fondamentale per una società democratica.

I conservatori si rassegnano alle contraddizioni, i reazionari ci guazzano dentro, i rivoluzionari si illudono di risolverle in nome di una democrazia sostanziale che rinuncia alla democrazia formale, i riformisti dovrebbero eliminarle costruendo una società basata sulle più profonde aspirazioni del cuore umano: la pace, la giustizia, l’uguaglianza fra le persone e fra i popoli.

Senonché molti parlano di pace e preparano la guerra; firmano trattati e già pensano a ingannarsi; sprecano paroloni in favore degli affamati e bruciano incenso al consumismo; predicano la giustizia e non sanno pronunciare una parola di perdono; cantano inni al pluralismo e al multilateralismo e si piegano sistematicamente alla legge del più forte.

Un giornale esprime una comunità; rappresenta un pezzo di storia del Paese; svolge un ruolo insostituibile nel dibattito pubblico, al di là del suo orientamento ideale e politico; costruisce relazioni solide con il suo pubblico e con il territorio di riferimento. Insomma: un giornale è un ineliminabile presidio sociale e culturale. Ecco perché – per una volta – governo e opposizione su questa vicenda sembrano esprimere preoccupazioni bipartisan. (ancora “Avvenire” – Gerolamo Fazzini)

Mia sorella Lucia, tra le bonarie critiche che mi rivolgeva, inseriva, in modo caricaturale, la mia tendenza all’ansia: mi definiva simpaticamente “l’eterno preoccupato”.  Con il progredire dell’età questa mia caratteristica si sta accentuando e rischia di passare da sofferto stimolo al miglioramento a pericolosa spinta alla rassegnazione.

Ecco perché non mi fido delle preoccupazioni del poi. Ancor più se sono bipartisan.  Preferisco gli impegni del prima, meglio se divisivi, quando forse è ancora possibile evitare il disastro o almeno prevenire l’impatto dei meccanismi del mercato.

Esigo che la politica punti ad una solidarietà rivoluzionaria e a costruire un modello di società in cui la persona è al centro: l’uomo, la donna, il cittadino siano i sovrani, e non il mercato. Oggi siamo diventati schiavi del mercato e sudditi di un’informazione stravolgente e fuorviante. I regimi autoritari di destra e di sinistra puntano a controllare rigorosamente i media, mentre i sistemi democratici accettano di farsi guidare dai media.

Pensiamo al berlusconismo che è stato ed è tuttora emblematico di questa stortura sistemica. Pensiamo alla città di Parma dove vige il monopolio dell’informazione in mani saldamente confindustriali.

Pensiamo alla televisione perché mantiene una solida leadership tra le fonti di news cui si abbeverano gli italiani. Pensiamo alla televisione italiana pubblica che scimmiotta quella privata e si limita a fare da cassa di risonanza ai governanti di turno. Non esiste pluralismo delle fonti di informazione, esiste soltanto il pluralismo delle spazzature televisive.

La carta stampata o informatizzata concede un po’ di respiro critico al lettore e quindi che due quotidiani importanti del nostro Paese finiscano in mani oscure sparge ulteriore pioggia sul bagnato.

Ricordo che mio padre, per sintetizzarmi in poche parole l’aria che tirava durante il fascismo, per delineare con estrema semplicità, ma con altrettanta incisività, il quadro che regnava a livello informativo, mi diceva: se si accendeva la radio “Benito Mussolini ha detto che…”, se si andava al cinema con i filmati luce “il Capo del governo ha inaugurato…”, se si leggeva il giornale “il Duce ha dichiarato che…”. Tutto più o meno così ed è così, in forme e modi più moderni, ma forse ancor più imponenti, sofisticati e subdoli, anche oggi.

Guarda caso ad essere nel mirino delle spregiudicate operazioni di mercato sono proprio due quotidiani non allineati agli indirizzi attuali della politica italiana. Ecco perché mi fanno sorridere le preoccupazioni bipartisan. Tuttavia non c’è via di scampo se non nel segno di un vero riformismo a monte. Non dimentichiamo infatti che il capitalismo ha i secoli contati.

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Conte del Grillo

Sono da sempre del parere che il movimento cinque stelle sia stato un fenomeno legato al carisma affabulatorio di Beppe Grillo e nulla più: dietro Grillo niente. Questa creatura è sfuggita quasi subito di mano al creatore, andando al governo tramite l’ignobile connubio con Salvini, inventando di sana pianta un personaggio/burattino da piazzare a palazzo Chigi, quel Giuseppe Conte che è abilmente sopravvissuto alla debacle del governo giallo-verde, riciclandosi alla grande in un premierato “ribaltonesco”, andando a presiedere un governo giallo-rosso e arrivando persino a sfilare il portafoglio M5S al suo legittimo ed attonito proprietario.

Questa in estrema sintesi è la storia politica di Giuseppe Conte fu Grillo: un furbo voltagabbana accettato obtorto collo dai sempre più striminziti grillini, indaffarato nel rubare il mestiere alla sinistra, un doroteo riveduto e scorretto che sta nella sinistra come gli autentici dorotei stavano nella democrazia cristiana.

Quale azzeccagarbugli del centro-sinistra sposa strumentalmente certe cause (il no alle armi, la provocazione a livello europeo, la demagogia sociale, etc. etc.) e gioca a fare la spina nel fianco del Partito democratico, mirando più a disturbarlo e dividerlo che a coltivare con esso una sana alleanza.

Gli ex grillini lo sopportano, gli elettori lo snobbano sempre più, il Pd lo considera un male necessario. Fino a quando? La destra ha tutto l’interesse a legittimarlo come suo contraltare senza ideologia, senza storia, senza cultura e senza presa elettorale.

Ai tempi in cui partecipavo attivamente alla politica avrebbe sì e no ricoperto la carica di consigliere comunale, oggi pontifica e ricatta. Tutto ormai è possibile, il casino è tale per cui Giuseppe Conte merita attenzione e considerazione. Tutti si chiedono dove andrà e cosa farà.

Lo cercan qui, lo cercan là, dove si trovi nessun lo sa. Che mandare al diavolo mai non si possa quella furbastra primula giallo-rossa?

Il partito democratico deve liberarsi di tutte le scorie della sua storia recente, riscoprendo il materiale pregiato proveniente dal suo glorioso passato: da una parte Conte che gli vuol rubare populisticamente il cuore popolare, dall’altra parte Renzi che gli vuol togliere l’abito riformista per sostituirlo con quello “moderatista”, in mezzo la gente che vorrebbe dalla sinistra risposte ai problemi partendo una buona volta da quelli della povera gente.

Azzardo una paradossale, scandalosa e masochistica regola per la sinistra italiana: è meglio perdere le elezioni con dignità e coerenza (nel campo stretto) che perdere la faccia (nel campo largo) andando dietro a Conte e Renzi. E chi ha detto che i cittadini, aiutati magari da una riforma elettorale proporzionalista, non tornino alle urne a premiare l’orgoglio del Partito democratico riveduto e corretto in salsa “catto-comunista”, riprendendo la politica italiana da dove si era interrotta, vale a dire da Moro-Berlinguer?