Super-astensione per i super-governatori

L’affluenza alle urne in occasione delle elezioni regionali in Veneto, Campania e Puglia ha fatto registrare un ulteriore significativo aumento dell’astensione (in media circa un 14% in meno nei votanti rispetto alle precedenti elezioni): si sta verificando un’autentica valanga di non voti. Questo fenomeno non ha ormai niente di fisiologico, ma tutto di patologico (1,32 elettori su 3 sono andati al voto).

Di fronte a questi dati disastrosi sull’affluenza fanno sinceramente sorridere i dibattiti nei salotti televisivi, condotti da insopportabili pavoni come Enrico Mentana, sulle prospettive politiche italiane e sugli equilibri fra i partiti ormai riservati alle scelte di una ristrettissima e insignificante minoranza di cittadini elettori.

Le forze politiche ne parlano di sfuggita e si ha l’impressione che, tutto sommato ad esse non dispiaccia più di tanto questo generalizzato disinteresse dei cittadini alla politica. I partiti di maggioranza pensano di consolidare il qualunquismo su cui basano il loro consenso, i partiti di opposizione sperano di lucrare percentualmente consensi per il fatto che tradizionalmente l’elettorato di sinistra fino ad ora si era dimostrato più propenso al voto. Tutte meschine scuse per non affrontare un problema enorme per la vita democratica.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha lanciato un allarme al riguardo affermando che la disaffezione degli italiani al voto preoccupa e non ci si può accontentare di una democrazia a bassa intensità. Ha aggiunto che è inutile risolvere il problema con pannicelli caldi, che potrebbero addirittura peggiorare la salute del malato, facendo riferimento a ventilate alchimie legislative con la riserva mentale della rassegnazione alle urne sempre più vuote.

Un tempo si diceva “piazze piene e urne vuote”, oggi sono purtroppo vuote le une e le altre e probabilmente questo fatto dimostra che i cittadini stanno progressivamente rinunciando a partecipare alla vita politica.

Si parla di una modifica della legge elettorale nazionale, mentre al Senato c’è un disegno di legge della maggioranza che prevede l’abolizione dei ballottaggi nei comuni sopra i 15.000 abitanti se uno dei candidati ha raggiunto il 40% dei voti, con l’abolizione in gran parte dei casi del doppio turno. Mattarella ha ripetuto che «la riduzione dell’affluenza alle urne è una sfida per chi crede nel valore della partecipazione democratica dei cittadini».

“Molti nemici molto onore” si diceva durante il fascismo, non vorrei che il postfascismo portasse a pensare “pochi elettori molto consenso”. Credo si tratti in realtà di una peraltro motivata e generale perdita di credibilità da parte della classe politica, di una sempre più percepita inerzia delle istituzioni democratiche e di una immotivata sfiducia nei meccanismi della democrazia rappresentativa.

La riforma costituzionale varata, che dovrà passare al vaglio referendario, rischia di contribuire in modo clamoroso alla deresponsabilizzazione dei cittadini, concentrando i poteri nelle mani di un premier plenipotenziario, che, pur avendo un consenso limitato, risponda ai pochi suoi elettori e governi il Paese nelle more di un Parlamento imbelle, senza contrappesi significativi e senza controlli istituzionali.

Stiamo attenti a non cadere in trappola: il tutti uguali, tutti incompetenti, tutti fannulloni, magari persino tutti ladri, finisce col premiare il governo di uno/a solo/a al comando.

La tentazione dell’astensionismo ammetto che possa costituire (anche per il sottoscritto) una sorta di alibi, che possa nascondere una silenziosa forma di protesta peraltro molto simile a quella di quel marito che, convinto di fare un dispetto alla moglie, decide di evirarsi. Forse è tempo di darsi una svegliata e di tornare a votare a costo di optare minimalisticamente e “montanellianamente” per il meno peggio.

Pensando ai cosiddetti super-governatori regionali (già la definizione mi mette in ansia democratica), che usciranno dalle urne in Veneto, Campania e Puglia, mi auguro che in fin dei conti non tirino la conclusione che, nonostante tutto, l’importante è vincere anche senza la partecipazione dei cittadini. Chi non vota ha sempre torto! E se, per caso, avesse qualche ragione?

 

 

Bigottismo, nazionalismo e familismo

Alcuni miei conoscenti, in assoluta buona fede, ascrivono a Giorgia Meloni il merito di rispettare certi valori derivanti dalla nostra tradizione. Ma quali valori?

“Dio, Patria e famiglia non è uno slogan politico ma il più bel manifesto d’amore che attraversa i secoli. Affonda le sue radici nel ‘pro Aris et Focis’ di Cicerone: ‘l’altare e il focolare’ che da sempre fondano la civiltà occidentale”. Così la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni parlando al Corriere della Sera. Per Meloni, “conservatori significa innanzitutto sentirsi eredi. Avere cioè la consapevolezza storica di ereditare una tradizione, una cultura, un’identità e un’appartenenza. Un conservatore – precisa Meloni – non è contrario ai cambiamenti in sé. È contrario alla visione della sinistra secondo la quale progredire vuol dire cancellare tutto ciò da cui proveniamo”. (Huffpost del 2022)

Lasciamo stare la storia che ci riporta purtroppo a Benito Mussolini e al fascismo: toh, chi si rivede?!Entriamo brevemente nel merito.

Non stiracchiamo Dio in politica se non per ribadire quanto sosteneva don Andrea Gallo: «Non mi curo di certe sottigliezze dogmatiche perché mi importa solo una cosa: che Dio sia antifascista!». Il resto mi sembra bigottismo.

Quanto alla Patria Giorgia Meloni ce la sta portando fuori dall’Europa, mettendola al seguito dell’americano delinquente patentato suo amico di internazionali merende. Quindi nazionalismo!

Infine più che di Famiglia parlerei di “familismo meloniano”: è un termine usato da alcuni critici per descrivere la percezione di nepotismo all’interno del partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, in riferimento alla presunta tendenza a favorire i legami familiari e stretti nelle nomine e nei ruoli di potere. Le allodole ci vedono una politica che celebra i valori familiari tradizionali e i legami di parentela, mentre lo specchietto presenta l’assenza di una distinzione tra politica e famiglia.

Consiglio gli ingenui ammiratori di Giorgia Meloni di uscire dagli equivoci della retorica e di guardare con disincanto alla realtà politica. Resteranno sconvolti…

 

 

 

I ministri reazionari

Le dichiarazioni dei ministri Carlo Nordio e Eugenia Roccella, rilasciate durante la Conferenza internazionale contro il femminicidio a Roma, hanno scatenato un’ondata di reazioni critiche da parte delle opposizioni. Il dibattito si concentra sulla tesi del Guardasigilli secondo cui la prevaricazione maschile secolare ha a che fare con “codice genetico del maschio che resiste all’uguaglianza”, e sulla posizione della ministra Roccella, convinta che “non c’è una correlazione fra l’educazione sessuale nella scuola e una diminuzione delle violenze contro le donne”. (da “Il Fatto Quotidiano)

In politica, il termine “reazionario” si riferisce a chi si oppone attivamente a ogni spinta o tendenza innovatrice o progressista. È spesso usato in senso polemico per indicare un forte conservatorismo, un’avversione per il progresso.

Non so se gli attuali ministri della Giustizia, della Famiglia e dell’Istruzione, siano reazionari o conservatori: se non è zuppa, è pan bagnato. Hanno una mentalità decisamente chiusa al nuovo, cercano pretesti storici e pragmatici per bloccare sul nascere ogni barlume di novità.

Cosa significa che il maschio è geneticamente portato alla prevaricazione? Lasciamo perdere la genetica e puntiamo alla cultura, vale a dire al come porsi in modo positivo e costruttivo di fronte alla realtà per farla evolvere in senso positivo.

Cosa vuol dire che l’educazione sessuale nelle scuole non è il toccasana per combattere la violenza sulle donne? Non aspettiamoci miracoli, ma comunque impegniamoci a fare tutto il possibile senza imprigionarci in schemi conflittuali tra scuola e famiglia.

Da un ministro o da una ministra mi aspetto qualcosa di più che non una mera constatazione della realtà, ammesso e non concesso che siano capaci di analizzarla seriamente senza crearsi alibi per il puro mantenimento dello status quo.

L’etimologia di “educare” deriva dal latino educere, composto da “ex-” (fuori) e “ducere” (condurre, guidare), con il significato di “trarre fuori” o “condurre fuori”. Questo concetto sottolinea che educare consiste nell’aiutare una persona a far emergere le proprie potenzialità interiori, piuttosto che semplicemente riempirla di nozioni.

Perché quindi tanto scetticismo per non dire tanta paura per l’educazione sessuale? Perché tanta preoccupazione per lo scavalcamento della famiglia ad opera della scuola: sono due istituzioni che, se vogliono svolgere bene il compito loro affidato, devono collaborare senza pretendere primati e/o veti incrociati.

Perché tanta rassegnazione di fronte al maschilismo?  Non mi interessa più di tanto se esso derivi dalla natura (ho seri dubbi al riguardo), ma so che è un fenomeno negativo da combattere a tutti i costi e ben vengano le iniziative in tal senso. Ci vorrà tempo? Certamente, ma non gettiamo la spugna imbevuta di pregiudizi.

E poi, cari signori ministri e care signore ministre, prima di parlare provate a riflettere, non sparate cazzate alla viva il parroco. Non si pretende l’unanimità dei pareri, ma almeno la loro obiettività accompagnata dalla disponibilità a dialogare e progredire.

 

I fondi europei sul tavolo di pace

I tira e molla del governo sugli aiuti in armi all’Ucraina non fanno certo onore all’Italia e quindi bene fa l’opposizione a chiedere polemicamente di uscire dagli equivoci propagandistici e dalle scaramucce elettorali per capire quale sia la linea di politica estera portata avanti dal governo Meloni.

Non serve a molto far esplodere i contrasti fra Salvini e Crosetto, fra Meloni e Tajani (i ladri di Pisa): sono dilettanti allo sbaraglio, che rincorrono voti italiani facendosi scudo con la pelle degli ucraini. Tutto ciò è arcinoto e fermarsi a questa scopertura degli altari già spogli è obiettivo di ben scarso rilievo e livello.

Credo quindi che per la sinistra questo affondo polemico faccia soltanto gioco tattico, perché non ritengo nel modo più assoluto che sia una posizione idealmente e politicamente valida quella di armare all’infinito l’Ucraina (la paccaterapia).

Bisogna che la sinistra faccia una sorta di mossa del cavallo per spostare il discorso dal sostegno alla guerra a quello alla pace. Innanzitutto sarebbe oltre modo necessario perseguire, quale conditio sine qua non, una posizione unitaria a livello europeo: aiutare Zelensky in ordine sparso non serva all’Ucraina e non serve all’Europa. La gara a chi è più zelenskyano non è seria a prescindere dalla (scarsa) credibilità e coerenza del governo ucraino.

In secondo luogo occorre dare un respiro pacificatore agli aiuti. Come? Non si tratta di alzare bandiera bianca o di porgere l’altra guancia, ma di individuare e perseguire linee di intervento atte a sbloccare una situazione alla quale non servono né gli aiuti ante litteram dell’Europa né le furbizie trumpiane. Se è vero come è vero che dietro i conflitti bellici ci stanno sempre ragioni economiche, l’Europa abbia il coraggio di porsi al centro della scena con proposte economiche valide per entrambi i contendenti. Nessuno deve farsi scrupolo di dialogare con Putin: gli europei lo hanno fatto in modo scriteriato ed opportunistico in passato, quindi… Dall’altra parte bisogna far capire all’Ucraina che non si può continuare questa deriva bellica a tutti i costi: le rinunce territoriali, che appaiono come lo sbocco inevitabile del conflitto, possono trovare qualche garanzia politica di autonomia dalla parte russa e qualche contropartita economica dalla parte europea (non necessariamente l’ingresso nella Ue).

I fondi destinati alle armi vengano messi sul tavolo di una trattativa seria di pace. Discorso che si sarebbe dovuto fare fin dagli inizi se non addirittura prima che avvenisse l’invasione russa, ma per il quale non è mai troppo tardi.

Non credo che gli ucraini trovino molto sollievo dagli aiuti militari, così come i russi non piangano più di tanto per le sanzioni: gli uni e gli altri restano comunque carne da cannoni in una guerra che tende a incallirsi e a diventare sempre più difficile e cruenta per tutti.

Se la discussione in Parlamento avvenisse in questi termini sarebbe utile e costruttiva, diversamente serve solo a fare un po’ di tattica alle spalle dell’Ucraina. Il popolo italiano attende in stragrande maggioranza che il nostro Paese giochi un ruolo positivo e non di mero sostegno bellico.

Mi pare invece che si giochi a fare gli amici di Zelensky, lasciando a Trump il compito di trattare con Putin una via d’uscita, sperando che Putin si indebolisca e venga a miti consigli. Una tattica senza strategia che porta a galleggiare diplomaticamente e a massacrare concretamente. Ne risponderemo tutti davanti a Dio (per chi ci crede) e davanti alla storia (per chi sopravviverà).

I fioristi di destra vendono anche Garofani rubati

Garofani dipinge un quadro chiaro. Se il contesto politico restasse quello attuale, Giorgia Meloni sarebbe destinata al Quirinale. Lo dice quasi sorridendo, sì, ma come chi sta dicendo una cosa che lo preoccupa parecchio. E soprattutto aggiunge un dettaglio non irrilevante: «In quell’area non c’è nessuno adeguato». Tradotto: Meloni è l’unica. E questa unicità, secondo il consigliere del Colle, sarebbe un problema. Poi c’è il calendario, già definito. Si voterà nella tarda primavera del 2027, probabilmente maggio. Manca un anno e mezzo. Un’era geologica per la politica. Ma al Colle — è questo il punto — non sembrano così convinti che il tempo basti a cambiare gli equilibri, se non interviene qualche provvidenziale scossone. Non a caso Garofani si lascia scappare un commento che racconta un mondo: «Speriamo che cambi qualcosa prima delle prossime elezioni, io credo nella provvidenza. Basterebbe una grande lista civica nazionale». Non proprio una dichiarazione di neutralità istituzionale. E ancora. Per la costruzione di un nuovo centrosinistra, un “nuovo Ulivo”, Garofani vede in Ernesto Ruffini — ex grande capo dell’agenzia delle Entrate, da qualche mese in campo — una pedina utile. Ma non sufficiente. «Serve un intervento ancora più incisivo di Romano Prodi» dice. L’ex Professore, che evidentemente per il Quirinale non è solo una reliquia, ma ancora un potenziale regista politico in grado di rimettere insieme i cocci di un’opposizione incapace di alzare lo sguardo oltre i propri litigi.

Il consigliere arriva anche a toccare il terreno delle previsioni impossibili. Esagera perfino per gli standard dei retroscena: «Se non fosse morto, oggi il premier sarebbe David Sassoli o lo sarebbe dalla prossima legislatura». Una frase che peraltro è un’ammissione di debolezza degli attuale leader del centro sinistra: senza un leader moderato, europeo, rassicurante per l’establishment, l’Italia ha preso un’altra direzione. Indovinate quale. Il tutto, ripetiamolo, non in un’intervista né in una sede ufficiale. Ma in quella zona grigia dove i consiglieri parlano “a titolo personale” e intanto, però, mandano messaggi in bottiglia destinati a chi li deve capire.

Il punto politico, infatti, è questo: Garofani non è un opinionista qualsiasi, ma un consigliere di Mattarella, peraltro su dossier delicatissimi. E quando uno così arriva a prefigurare Meloni al Quirinale come un incubo istituzionale e a invocare «provvidenze» politiche contro il governo in carica, qualche domanda bisognerebbe porsela. Il Colle, insomma, non appare affatto indifferente al risiko politico che porterà al nuovo Capo dello Stato. E sta osservando, valutando, probabilmente orientando». (dal testo dell’anonima mail/articolo giunta alle redazioni di alcuni giornali)

L’analisi emergente da queste confidenze rubate al funzionario quirinalizio Francesco Saverio Garofani, a prescindere dalla sua inopportunità, dall’equivoco scatenato ai danni del Presidente Mattarella e dalla strumentalizzazione fattane dalla stampa di orientamento filogovernativo, è (quasi) lapalissiana.

Che Giorgia Meloni punti al Quirinale, passando attraverso una vittoria elettorale nel 2027 e rilevando Sergio Mattarella alla scadenza del suo mandato bis che scade nel febbraio 2029 salvo rinuncia da parte del Presidente stesso, è cosa nota a tutti coloro che abbiano un minimo di dimestichezza con le matasse politiche.

Che la candidata non possa essere che lei in rappresentanza del centro-destra è altrettanto evidente dal momento che non esistono candidature forti provenienti da quell’area, a meno che non si voglia fare sessantuno con Ignazio La Russa facendogli fare le pulizie di casa.

Che la riforma costituzionale, approvata dal Parlamento e in bilico referendario, punti a legalizzare la prospettiva di cui sopra è sotto gli occhi di tutti: per Giorgia Meloni è pronto un Palazzo Chigi populisticamente rinforzato in attesa di un Quirinale istituzionalmente depotenziato e occupato dalla madre della Patria.

Le prospettive di conferma del centro-destra nella primavera del 2027 sono abbastanza sicure. Due sono le eventualità che potrebbero mettere in discussione questa che sembra essere una vittoria più che annunciata: un rigurgito di vitalità del centro-sinistra e/o un qualche disastro provocato dall’attuale governo o subito comunque dal Paese.

Sulla ripresa politica del centro-sinistra gravano l’assenza di leadership credibile e una grave debolezza programmatica: mi sembrano piuttosto fantasiose le ipotesi di una discesa in campo di Ernesto Ruffini patrocinata da Romano Prodi. Non è più tempo di esperimenti…

In conclusione Garofani non fa che mettere in fila gli elementi sul tavolo: non ci vedo nulla di strano e di sconvolgente, salvo forse il fatto che gridare al lupo non serve a conquistare consensi e voti. Tuttavia sono fra quanti pensano che la legittimazione strisciante di un centro-destra fascisteggiante vada denunciata con etica indignazione e politica preoccupazione.

Garofani però, seppure in buona fede, esprime le sue preoccupazioni incautamente e in pubblico: sta tutto qui il punto dolente. Non vedo niente di golpista nel fatto che un consigliere del Presidente della Repubblica dia a Mattarella consigli (non è forse il suo mestiere?) basati su un certo tipo di analisi politica. Starà al Presidente farne l’uso che riterrà a sua discrezione e valutazione. Se questi consigli riservati vengono sgangheratamente resi pubblici è responsabilità di colui che lo rende possibile, il quale, a mio giudizio, dovrebbe trarne semmai le conseguenze.

Non sono oltre tutto affezionato all’immagine del Presidente della Repubblica quale mero arbitro istituzionale: non è questo il ruolo che gli affida la Costituzione. Non è un notaio che registra gli andamenti sociali, economici e politici; è un personaggio al di sopra delle parti che però osserva cosa combinano le parti; un garante degli interessi del popolo italiano a cui è chiesto di concretizzare queste garanzie non lasciandole nel limbo delle buone parole.

Su questo piano Mattarella è ineccepibile e inattaccabile, non c’è Belpietro che tenga, non c’è sgrammaticatura protocollare che possa (dis)turbarlo. I Garofani non inquinano i giardini del Quirinale. I veleni, sparsi a piene mani da un centro-destra che basa le sue fortune sulla continua invenzione di attacchi, sulla fantomatica presenza di nemici, hanno raggiunto il Quirinale senza peraltro che nessuno se ne assuma la responsabilità: hanno gettato un sasso e poi si sono preoccupati di nascondere la mano. È rimasto Belpietro a fare la figura del coglione: non fa fatica a ricoprire questo ruolo.

Se Mattarella riuscisse, dall’alto della sua moral suasion, del suo prestigio internazionale, del suo consenso popolare, della sua fulgida storia personale, a dare una benefica scossa alla politica a tutti i livelli, sarebbe un fatto più che auspicabile. In fin dei conti è quel che sta facendo dal 2015 in poi. Non si può che ringraziarlo accogliendo i suoi inviti.

 

 

 

 

Il bunga bunga di Trump

Un autorevole esponente parmense del cattolicesimo democratico, diverso tempo fa mi sconvolse facendomi presente come la storia della Chiesa sia piena di personaggi e movimenti caritatevolmente ineccepibili ed evangelicamente fulgidi, ma politicamente conservatori o addirittura reazionari. Non sono in grado di valutare se la suddetta analisi storica sia attendibile, ma una cosa è probabile: Donald Trump rischia di essere vittima (?) della contraddizione ideologica dei cattolici statunitensi che lo hanno sostenuto quale paladino dei principi dogmatici (vedi aborto etc.) alla faccia di quelli sociali (vedi immigrati etc.).

Lo strisciante scandalo dei festini a base di sesso con minorenni organizzati da Epstein, il noto finanziere accusato di aver sfruttato sessualmente decine di ragazze minorenni, che si suicidò in prigione nel 2019, sta mettendo in gravissime difficoltà il presidente americano ed incrinando i rapporti con la sua base elettorale, vale a dire il mondo cattolico e il movimento Maga.

Per i cattolici scoppia la contraddizione tra bigottismo dogmatico e lassismo sessuale, per i Maga quella tra populismo di facciata e tradimento delle promesse elettorali. Fatto sta che Trump sta rischiando di essere tagliato dalla forbice degli scontenti cattolici e Maga, da coloro cioè che ne hanno comportato in modo determinante il successo elettorale.

Prima o poi doveva capitare, i nodi vengono al pettine. Più o meno fu anche la parabola discendente di Silvio Berlusconi: finché garantì privilegi e fondi alla Chiesa cattolica e finché ingannò i poveri con l’illusione di diventare ricchi come lui, finché cioè tenne l’ignobile connubio tra bigottismo religioso e populismo socio-economico il cavaliere rimase in sella, poi lo scandalo dei “bunga-bunga” fece scoppiare le contraddizioni. È sempre così: basta relativamente poco per far traboccare il vaso.

È presto per dire che per Trump si tratti dell’inizio della fine: paradossalmente tanti clamorosi successi (?) internazionali si scontrano con tante porcherie a livello nazionale. Siamo alla glocalizzazione dei vomitevoli vizi sessuali che batte la globalizzazione delle fasulle virtù politiche.

La politica in tutto questo non c’entra nulla, a così poco si è ridotta, mentre il mondo viaggia a ruota libera verso il baratro. Nello scenario internazionale, europeo ed italiano, per il momento, non si vede niente di buono all’orizzonte…come nuova progettualità. Solo a destra c’è un disegno pericolosissimo che coinvolge America, Russia, Germania, Francia, Italia, Ungheria. Stiamo aspettando una progettazione dalla sinistra in crisi di identità: democratici americani, pd in Italia, casino francese, spagnoli ininfluenti come gli inglesi…Anziché riscoprire i valori e i principi storici, si vuol fare la velleitaria e goffa imitazione della destra, copiandone il tratto distintivo più marcato, vale a dire la sicurezza dei cittadini, che significa tutto e niente se non una corsa a chiudere le stalle ben sapendo che i buoi siamo noi. Per questo in attesa di Godot ci teniamo ben stretti i nostri migliori riferimenti politici ed ecclesiali.

Il caro ed indimenticabile amico don Luciano Scaccaglia, durante la celebrazione del Battesimo collocava sull’altare due libri essenziali: la Bibbia e la Costituzione italiana. L’una chiedeva al cristiano la fedeltà alla Parola di Dio, l’altra al cittadino l’attivo rispetto dei principi democratici posti a base del vivere civile. Questo, secondo i detrattori del c…o, anche altolocati, voleva dire fare politica in chiesa… Che ottusità mentale e culturale! Erano stupende e geniali provocazioni esistenziali, che contenevano autentici trattati di teologia coniugata con la laicità dello Stato. Discorsi sempre attuali di fronte al sottosuolo integralistico del cattolicesimo (negli Usa più che mai), da cui emergono contingenti tentazioni allo scontro (di potere) che si camuffano e si sfogano soprattutto sui cosiddetti valori non negoziabili. Se, pertanto, fare politica in chiesa vuol dire affermarne la laicità ed auspicarne l’ancoraggio ai valori di giustizia, uguaglianza e solidarietà, don Scaccaglia faceva politica: egli, tra l’altro alla duplice appartenenza del cittadino credente alla Chiesa e allo Stato rispondeva con la duplice fedeltà al Vangelo e alla Costituzione, conciliando Chiesa e Stato nell’impegno concreto degli uomini e non sui principi astratti e sui compromessi giuridici o, peggio ancora, di potere.

Non resta che ripartire di lì, lasciando al proprio destino le sconfortanti kermesse trumpiane e auspicando il risveglio dei sensi di una sinistra, che, anziché al precario “viagra” dei momenti elettorali punti al recupero sistematico e fisiologico delle proprie potenziali capacità.

 

 

 

Un maestoso Presidente e i suoi meschini denigratori

La (mala)lingua del governo di centro-destra (il quotidiano “La Verità”) batte dove il dente istituzionale duole (rapporti col Presidente della Repubblica).

Galeazzo Bignami, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, chiede alla Presidenza della Repubblica di smentire la notizia pubblicata da La Verità in un articolo titolato “Il piano del Quirinale per fermare la Meloni”, secondo la quale consiglieri del Capo dello Stato, afferma, “auspicherebbero iniziative contro il presidente Giorgia Meloni e il centrodestra, esprimendo altresì giudizi di inadeguatezza nei confronti dell’attuale maggioranza di governo”.

«C’è chi è arrivato a immaginare un candidato moderato di centrosinistra per tentare di ripetere il successo del 1996 con Prodi – scrive Belpietro –. L’operazione, a prescindere da chi la debba guidare, passerebbe però dalla rottura della coalizione di centrodestra per portare una parte centrista in braccio ai compagni».

«A quanto pare – prosegue Belpietro – si ragiona di “una grande lista civica nazionale», una riedizione dell’Ulivo. Ma questo potrebbe non essere sufficiente e allora il consigliere di Mattarella, Francesco Saverio Garofani, invoca la provvidenza: «Un anno e mezzo non basta per trovare qualcuno che batta il centrodestra, ci vorrebbe un “provvidenziale scossone”, sussurra l’uomo del Colle», conclude Belpietro.

Al Quirinale si registra «stupore per la dichiarazione del capogruppo alla Camera del partito di maggioranza relativa che sembra dar credito a un ennesimo attacco alla Presidenza della Repubblica, costruito sconfinando nel ridicolo». È quanto si legge in una nota diffusa dall’Ufficio stampa del Quirinale. (da “La Stampa”)

Non so cosa ci sia di vero in queste notizie. Non mi interessano per niente le indiscrezioni da osteria raccolte da un giornale fazioso e rese possibili, magari in buona fede, da un incauto burocrate in vena di protagonismo.

Mi interessa il nocciolo della questione. È fuori discussione che al centro-destra facciano ombra e paura Sergio Mattarella per l’enorme superiorità etica e politica che dimostra in continuazione, per il consenso di cui gode a livello di pubblica opinione, per il prestigio internazionale che gli viene riconosciuto. Mattarella in un mondo di nani si erge quale autentico gigante; in una situazione di vuoto etico pneumatico globale si presenta come coscienza morale: c’è di che essere fieri di un italiano che onora veramente il nostro Paese.

Anziché tenere un atteggiamento collaborativo evidentemente il governo e le forze politiche che lo sostengono fanno di tutto per screditarne la figura e l’azione. Ciò sta avvenendo a livello istituzionale con la riforma pattumiera che ha nel mirino anche e soprattutto il ruolo del Presidente della Repubblica così come previsto dalla Costituzione e interpretato da Mattarella, ma anche a livello politico con subdoli e denigratori attacchi e atteggiamenti a dir poco equivoci.

Il vero contraltare a Giorgia Meloni non è Elly Schlein, la vera opposizione a questo governo non viene dal centro-sinistra, la vera alternativa etico-politica al centro-destra nei modi e nei contenuti non è costituita dai partiti di minoranza a livello parlamentare, ma è, suo malgrado, tutto nelle mani di Sergio Mattarella quale rappresentante dell’altra politica, che viene da lontano e sa guardare lontano.  La sua storia personale è cristallina, tutte le sue iniziative sono perfettamente ineccepibili dal punto di vista istituzionale, corrette sul piano politico, opportune dal punto di vista sociale e importanti a livello internazionale: non è certo colpa sua se mettono oggettivamente in secondo piano (meno male!) un governo che farnetica e arranca e che dovrebbe solo ringraziare il Quirinale per le sponde che gli offre nell’interesse del Paese.

Invece la levatura morale e politica di Meloni e c. è talmente bassa, rabbiosa, rancorosa e penosa da mettere i brividi. Dovranno però stare molto attenti ad aprire un contenzioso con Mattarella, se ne potrebbero pentire amaramente. Non lo trascinino in un conflitto da cui lui uscirebbe alla grande e loro con le ossa rotte. Gli italiani capiscono e continueranno a capire la lingua di Sergio Mattarella? Penso di sì! Il giorno in cui dovesse accorgersi di non rappresentare più l’unità nazionale sarebbe il primo ad andarsene. In fin dei conti hanno insistito tutti perché rimanesse al suo posto, sarebbe veramente curioso che si facessero condizionare e fuorviare da Giorgia Meloni e dai suoi pretoriani prezzolati. Anche se purtroppo alla ignoranza e stupidità non c’è limite…

 

 

Batte la Davis, non rispondono i soldi

Da qualche tempo ho decisamente accantonato la passione calcistica per sostituirla con quella tennistica: la scelta è dovuta a motivi spettacolari (molto più accattivanti le sfide tennistiche di quelle calcistiche) ed etici (più equilibrato e accettabile, anche se un po’ snob, il tifo per le palline rispetto a quello per il pallone).

Ci sono però due caratteristiche in campo tennistico che mi creano perplessità: i compensi da nababbo al vertice di un triangolo che vede alla base uno sfacciato movimentismo economico internazionale e in altezza un opportunistico sottobosco di personaggi prezzolati che mangiano alla mensa dei campioni; l’individualismo affaristico spinto che va oltre le competizioni tradizionali a squadre nazionali (vedi coppa Davis).

È di questi giorni la rinuncia dei due migliori fichi del bigoncio tennistico italiano (Sinner e Musetti) a partecipare alla fase finale della Coppa Davis in programma a Bologna. Non ho trovato giustificazioni plausibili a questi forfait, se non quelle rientranti nella logica di “mammona”, dovuti sostanzialmente ad un professionismo senza limiti, che mette in secondo piano i residui valori sportivi riconducibili alle storiche competizioni internazionali.

L’individualismo, abbinato a sacrale divismo e sfrenata avidità, trionfa anche nello sport: non si distingue il tennis. A tutto però dovrebbe esserci un limite: è questione di decenza. C’è quasi paura di dire la verità e di smontare l’immagine costruita intorno a questi super-tennisti. Io non ho di queste paure, anzi mi diverto a dissacrare anche i padreterni della racchetta.

Nonostante che il mondo vada in questa triste direzione affaristica di cui è vittima anche lo sport, si vergognino! Tutto sommato meglio fare senza questi padroncini: la vittoria o la sconfitta saranno ancor più dignitose e soddisfacenti. In parole povere dico a Sinner e Musetti di andare a quel paese! Della loro ingiustificata assenza ci faremo una ragione!

 

Parma, paure enfatizzate e povertà ignorate

A Parma la povertà trascina ai margini sempre più persone. Tra chi vive in strada, chi passa a notte nei dormitori, chi ha una casa ma rischia di perderla da un giorno all’altro e chi è in una struttura per richiedenti asilo, sono 1253 le persone che si trovano in una condizione di disagio estremo, stando ai numeri diffusi in Regione, durante la commissione Politiche per la salute e politiche sociali. Stando alle cifre illustrate in commissione, Parma conta 150 persone che vivono in strada o in alloggi di fortuna, 294 persone che si rivolgono ai dormitori o a strutture di accoglienza notturna, 134 ospiti in dormitori e centri di accoglienza per donne, 450 persone che vivono nelle strutture per immigrati, richiedenti asilo o rifugiati, 200 persone che rischiano di perdere la casa e 25 persone in attesa di essere dimesse dalle istituzioni.  (“Gazzetta di Parma” – Pierluigi Dallapina)

Non sono certo cifre da giustificare il consenso record per il sindaco Guerra. Un sindaco di sinistra, come lui dice di essere, non si dovrebbe qualificare per le battaglie contro la povertà piuttosto che per le sbrodolate pseudo-culturali sparse a piena bocca?

«Voi avete nei miei confronti un solo diritto: quello di negarmi la fiducia! Ma non avete il diritto di dirmi: Signor Sindaco, non si interessi delle creature senza lavoro (licenziati o disoccupati), senza casa (sfrattati), senza assistenza (vecchi, malati, bambini) … É mio dovere fondamentale. Se c’è uno che soffre, io ho un dovere preciso: intervenire in tutti i modi, con tutti gli accorgimenti che l’amore suggerisce e che la legge fornisce, perché quella sofferenza sia o diminuita o lenita. Altra norma di condotta, per un sindaco in genere e per un sindaco cristiano in specie, non c’è». (Giorgio La Pira, sindaco di Firenze)

Non ho avuto il “coraggio” di votare Guerra alle ultime elezioni amministrative proprio per il motivo che non trovavo nei suoi programmi e ancor meno nella sua sensibilità la giusta attenzione ai problemi della “povera gente”. Le succitate cifre mi danno amara ragione.

Ma non è solo colpa e responsabilità del sindaco e della sua amministrazione comunale. È tutta la città che fa letteralmente schifo: siamo col culo al caldo, siamo delle fighette, soprattutto se ci confrontiamo con le testimonianze provenienti da Mario Tommasini e don Luciano Scaccaglia (tanto per non fare nomi), con l’eredità che ci ha lasciato in dote padre Lino, con una certa tradizione di sensibilità e coerenza insita in un glorioso passato storico.

Ed è un problema che riguarda anche la Chiesa addormentata e incartapecorita. Non c’è ambiente cittadino esente dal virus dell’indifferenza verso le nuove e vecchie povertà: un avvolgente ed elegante manto di menefreghismo ben fotografato ed alimentato dai media cittadini, che tempestano i cittadini di paura per l’insicurezza dovuta alla delinquenza e al degrado. Un modo scientifico per distrarre la gente deviandola dai veri problemi della gente povera, arrivando addirittura ad accostare subdolamente la povertà, soprattutto quella di immigrati e rifugiati, alla delinquenza. Anche il dibattito politico è monopolizzato da questa diatriba sulla sicurezza e sulle misure tampone per garantirla (?).

Una città nazista ebbe a dire molto tempo fa Alberto Bevilacqua (se non ricordo male): razzista, chiusa, sazia e disperata.

Ho vissuto, direttamente o indirettamente, una Parma diversa, fatta di impegno nel volontariato e nella cooperazione sociale. C’è rimasto qualcosa? Penso e spero di sì, anche se si fa fatica a vederlo e soprattutto a trovare spazi per riviverlo concretamente.

È stata inaugurata a Parma la lavanderia “San Francesco d’Assisi”, un progetto promosso dall’Elemosineria apostolica e reso possibile da una sinergia feconda tra aziende, in particolare tra Procter&Gamble, che rifornisce i detergenti per il bucato, e Haier Europe, donatrice di due lavatrici e due asciugatrici, assieme alla Caritas diocesana, che gestisce questa nuovo servizio per le persone in difficoltà. «Un giorno importante – ha aggiunto il sindaco Michele Guerra, tra le autorità presenti insieme con l’assessore ai servizi sociali, il prefetto e il maresciallo dei carabinieri – per la Caritas, per Parma, per tutti». «L’iniziativa – ha proseguito il sindaco – si iscrive all’interno delle azioni che Caritas mette in campo per stare vicino a chi è in difficoltà», aiutando con un ancora più forte slancio, a rafforzare il contrasto alla povertà, in aumento anche a Parma. (Gazzetta di Parma – Cecilia Scaffardi)

Non so se si tratti di una goccia caritativa nel mare dell’indifferenza parmense. Una cosa è certa: per il presenzialista sindaco Guerra sarebbe ora di passare dalle parole ai fatti, dagli elogi alle iniziative altrui agli impegni concreti dell’amministrazione comunale; è facile e comodo mettere il cappello sugli eventi per gettare fumo negli occhi alla gente.

Giorgio La Pira non riusciva a dormire nel suo letto, sapendo che c’erano a Firenze persone che dormivano sotto i ponti. Non so se Michele Guerra soffra di questa insonnia o la combatta contando le pecore del gregge della povertà, ma, come già detto, non è solo un problema di sonno sindacale, ma purtroppo di sonno cittadino. Anche del mio sonno…

La protesta è il sale della democrazia

Gli studenti di tutta Italia ieri mattina si sono fermati. I motivi dello sciopero – a sentire le loro voci e a leggere i manifesti delle sigle che hanno proclamato lo sciopero (Unione degli studenti e Fridays for future) – erano molti e distanti tra loro: «Investimenti nell’istruzione pubblica», «riforma della scuola-lavoro per la sicurezza degli studenti», «blocco del riarmo europeo», «riconoscimento italiano della Palestina» e «maggiore attenzione della politica alla crisi climatica». Il filo rosso che ha unito le cinquanta piazze animate da cortei in tutto il Paese, secondo lo slogan che ha infiammato anche le mobilitazioni online, è l’opposizione al Governo: #Nomeloniday è l’hashtag rimbalzato in rete. E non sono mancate, per questo, tensioni tra le forze dell’ordine e i gruppi più ostili all’Esecutivo: a Bologna la Polizia ha bloccato con cariche un corteo che tentava di cambiare percorso per contestare alcuni membri del Governo presenti in città, mentre a Torino altri manifestanti hanno ferito otto agenti scagliando un tombino contro il cordone che tentava di impedire il blocco dei binari nella stazione di Porta Nuova. Ad ascoltare i circa 20mila studenti in piazza, invece, le rivendicazioni erano tutte connesse e prioritarie per la cosiddetta Generazione Z (i nativi digitali, nati tra il 1997 e il 2012): «Crediamo nell’intersezionalità – commenta Micol, 17 anni, scesa in piazza a Milano –. Significa che in ogni manifestazione dobbiamo parlare di tutti questi argomenti per noi importanti: dalla Palestina ai crimini ecologici. Anche perché a scuola non lo facciamo». Al suo fianco Ginevra Torti, 20 anni, riassume tutto con un cartello scritto in inglese: «La Generazione Z lotta per il proprio futuro». (da “Avvenire” – Andrea Ceredani)

Così come la Chiesa comunità non si identifica e non si esaurisce nelle figure del papa, dei cardinale, dei vescovi, e nelle strutture vaticane e periferiche, la comunità politica non si risolve nella vita delle istituzioni democratiche: in democrazia esiste l’humus della società civile, è lì che risiede la forza d’urto popolare, è lì che la democrazia trova il suo nutrimento in funzione di dar vita alle istituzioni rappresentative.

Mai forse come in questo momento storico si è vissuta questa mancanza di collegamento tra politica e società civile. La crisi dei partiti politici e finanche dei sindacati, l’astensionismo elettorale sempre più marcato, la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni sono tutti precisi, gravi e concordanti indizi che fanno la prova dei rischi che sta correndo la democrazia.

Di fronte a questa inquietante situazione il ceto politico governante tende squallidamente a dribblare nella migliore delle ipotesi, se non a criminalizzare nella peggiore delle ipotesi, ogni e qualsiasi anelito di protesta proveniente dalla società civile, si chiami sciopero generale, si chiami occupazione delle università, si chiami manifestazione contro il governo, si chiami insofferenza verso la falsa narrazione mediatica.

Il tutto deve essere ricondotto in una sorta di deriva plebiscitaria pro o contro il governo. I media aggiungono un pizzico di insana verifica politica: ogni volta che si assiste ad una forte protesta popolare immediatamente vengono diramati i dati dei test che segnano l’aumento del consenso al premier, al governo e ai partiti di maggioranza. Come a dire: è perfettamente inutile protestare… Piazze piene e urne sempre più vuote…

Così si devitalizza la vita civile di un Paese, riducendola a mera e sbrigativa espressione di giudizio verso i governanti. Non solo, ma si punta addirittura a istituzionalizzare questa deriva plebiscitaria trasfondendola in presidenzialismo o premierato.

Ormai si è insinuata nella mentalità popolare la convinzione che discutere, protestare, manifestare siano cose inutili: prendere o lasciare, caso mai se ne riparlerà alla prossima scadenza elettorale con percentuali di votanti ridotte al lumicino.

Il discorso vale a livello nazionale, ma anche internazionale. Protestare contro i crimini di guerra è tempo perso, tanto vale alzare le spalle e cercare di vivacchiare politicamente alla meno peggio.

Purtroppo, se aspettiamo che la pace la costruiscano i facitori di guerre, ci candidiamo a vivere in un modo dominato dagli egoismi e dalle ingiustizie.

Arrivo ad esagerare, ma sempre meglio qualche vetrina spaccata ad opera dei soliti marginali violenti, che l’assordante generale silenzio. Meglio la pace dei sepolcri o qualche scaramuccia a latere delle proteste?

La vivacità civile può avere il prezzo degli sfoghi violenti, ma non per questo bisogna silenziare tutto e tutti nell’ordine costituito, spacciandolo magari come difesa del quieto vivere per i deboli.

Stiamo bene attenti: se la pubblicità è l’anima del commercio, la protesta, forse prima, dopo e più del voto, è il sale della democrazia.

Ogni manifestazione di protesta viene immancabilmente inquinata dai soliti cretini che creano l’alibi per squalificare tutto: non è giusto ed è una comoda semplificazione da rifiutare categoricamente. Però se uno esprime simili idee viene immediatamente considerato un seminatore di zizzania, un fomentatore di odio, un terrorista.

Ormai i governanti di turno non tentano nemmeno più di cavalcare la protesta, la criminalizzano o la consegnano all’ipotetica strumentalizzazione da parte delle opposizioni: due piccioni con una fava, la neutralizzazione delle piazze e la decantazione delle minoranze di ogni genere.

Questo è purtroppo il circolo vizioso in cui stiamo stringendo la vita democratica: stringi oggi, stringi domani, la democrazia rischia di diventare insipida, di morire asfissiata o di trasformarsi in autocrazia, il che se non è zuppa e pan bagnato.