Le crisi disturbano la religione, ma aiutano la fede

Il campanile non chiama più come accadeva fino a pochi anni fa. Invece di un popolo intorno alla mensa eucaristica, c’è un “gregge disperso” che frequenta sempre meno le Messe nelle parrocchie italiane. E qualcuno parla di «chiese vuote». Sintesi semplicistica, a dire il vero, per raccontare il calo della partecipazione alle celebrazioni. Come ha mostrato di recente la testata online dei dehoniani. Chi prende parte a un rito religioso almeno una volta alla settimana è circa il 19% della popolazione. Una cifra che si è ridotta di un terzo in diciotto anni. È evidente la diminuzione della pratica della fede. 

«Chiesa chiusa per mancanza di prete». E anche della comunità. Nessuno vorrebbe che questo ipotetico cartello compaia davanti alle piccole parrocchie. Quelle in cui non c’è più il parroco residente e dove magari si assottiglia anche il computo degli abitanti. Comunità esigue, ma non minori. 

Per dare il mio critico personale saluto all’Assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi che si è aperta, ho ripreso testualmente l’incipit di due articoli apparsi recentemente sul quotidiano “Avvenire” a firma di Giacomo Gambassi, che mettono il dito nelle due presunte piaghe della crisi religiosa degli italiani. Ho detto presunte non tanto perché intenda mettere in dubbio dati oggettivi e indiscutibili, ma perché non sono così sicuro che ad essi corrisponda un’effettiva assenza di fede o una conclamata indifferenza al Vangelo.

Il non partecipare all’eucaristia non è sicuramente una scelta di fede, ma non è detto necessariamente che chi non partecipa alle messe che si celebrano nelle nostre chiese non abbia fede in Dio e in Gesù Cristo. Così come la diminuzione, al limite dell’assenza, di vocazioni religiose non è certo un dato confortante, ma potrebbe essere un segno della necessità di rivedere l’impostazione clericale della Chiesa.

Per quanto concerne il discorso liturgico torno all’affascinante originalità del caro ed indimenticabile amico don Scaccaglia. Innanzitutto riusciva a creare un palpabile clima di familiarità fatto di piccoli atteggiamenti capaci però di integrare tutti nella comunità: il saluto ad personam dell’accoglienza e del congedo, il buongiorno iniziale (ne ha tutto intero il diritto d’autore, il papa lo ha adottato anni e anni dopo), l’applauso alla Parola di Dio, il Padre Nostro recitato mano nella mano e motivato dalle ansie ecclesiali, mondiali e locali, i ragazzi stretti intorno all’altare a leggere con lui una parte del canone e ad innalzare assieme a lui il pane ed il vino dopo la consacrazione, l’omelia intensa e calata nella vita, il chiamare per nome le persone per farle partecipare e coinvolgerle, il chiedere continuamente adesione e condivisione, invitare l’assemblea a ripetere, anche più volte e ad alta voce, le frasi evangeliche più significative, la presenza attiva come ministranti degli immigrati ospiti della casa di accoglienza,  la forte connotazione femminile dell’assemblea (mancava solo la ciliegina sulla torta, l’atto finale del sacerdozio per le donne, che non dimenticava mai di auspicare). Tutto serviva a sgelare, a “sgessare” la ritualità, riconducendola a spontaneità:  si trattava del coraggio di fondere il sacro con la vita (non con il profano come qualcuno malignamente pensava…).

Tutti assistiamo in televisione ai riti celebrati in Vaticano, in S. Pietro a Roma, e nelle sedi e occasioni ufficiali e ne cogliamo la pesante spettacolarizzazione, abbiamo la sensazione di assistere ad assurde messe in scena degne del miglior Franco Zeffirelli.  Poi entriamo in certe chiese periferiche e torniamo a terra, per constatare la routinaria pochezza di liturgie sbrigativamente ed anonimamente finalizzate solo al tagliando di adempimento del precetto festivo. Da una estremità all’altra: dalla vuota enfasi rituale alla banalizzazione precettistica.

I gesti erano genialmente ed immediatamente allargati dal loro religioso simbolismo all’impatto esistenziale. Le omelie, preparate con grande cura, riuscivano a saldare cielo e terra. In esse si scatenava tutta la sua preparazione biblica, tutta la sua verve teologica, tutto il suo carattere di prete impegnato contro l’ingiustizia, tutta la sua spinta a combattere per una Chiesa aperta ai poveri, agli ultimi, ai diversi, tutto il suo coraggio di critica ad una gerarchia ecclesiastica avulsa dalla realtà, prigioniera di schemi dottrinali, attaccata ai privilegi. Purtroppo la concezione liturgica di don Scaccaglia fu tenuta sempre, più o meno, nel mirino episcopale, clericale e bigotto. Se le messe assomigliassero a quelle celebrate da lui probabilmente avremmo un po’ più di partecipazione.

Ma vengo all’altro corno della problematica: la crisi vocazionale. Siamo sicuri che la funzione sacerdotale, che peraltro appartiene a tutto il popolo di Dio, non debba essere ripensata, rivista e allargata alle donne e ai soggetti sposati? Siamo sicuri che tutto ciò che oggi fa capo ai preti debba rimanere un loro monopolio carismatico e non possa, almeno in parte, essere delegato ai laici in un contesto comunitario responsabilizzato, attivo e coinvolgente? Siamo sicuri che l’assetto parrocchiale tradizionale sia ancora valido dal punto di vista ecclesiale e non debba essere sostituito da aggregazioni non vincolate al territorio, ma aperte e impegnate nella carità a trecentosessanta gradi? Siamo sicuri che la comunità cristiana debba rimanere inchiodata a schemi burocraticamente predeterminati e applicati? Noi continuiamo a pregare che il padrone della messe mandi operai, ma non sarà il caso di organizzare meglio il lavoro di tutti gli operai già presenti in azienda?

Punture di spillo. Ma siamo sicuri che anche un po’ di provocazione e di polemica non faccia bene per dare una scrollata evangelica alla Chiesa istituzione, ma anche alla Chiesa comunità? Non dimentichiamo che la provocazione è l’arte evangelica per eccellenza.

Recentemente, riferendomi ad una persona esuberante e simpatica, mi è venuto spontaneo complimentarmi con lei per la sua coinvolgente vis provocatoria. Le ho posto però una domanda a bruciapelo: “Lei sa chi è il più grande provocatore di tutti i tempi?”. Eravamo in un negozio e si è fatto silenzio: forse qualcuno avrà pensato che fossi in vena di scherzare anche se ho colto nelle poche persone presenti un certo interessamento. Ho ripetuto la domanda per attirare ancor più l’attenzione. A quel punto ho dovuto sciogliere l’enigma affermando risolutamente e convintamente: “Il più grande provocatore della storia è Gesù Cristo”. Poi me ne sono uscito senza aggiungere ulteriori ed inutili parole. Non so se quelle persone avranno riflettuto, io sì e lo faccio anche in questa sede.

D’altra parte Gesù non ha forse detto: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio». Più provocazione di così, anche se dobbiamo prendere atto che finì in croce. Forse per rendere più appetibile la Chiesa bisogna guardarsi meno l’ombelico liturgico e sacerdotale e spostare lo sguardo sulla croce, lasciando perdere la statistica e la sociologia.