Mancini se ne va e chissenefrega…

Mi sovviene di un aspetto che raccontava mio padre relativamente al periodo della seconda guerra mondiale, dopo l’occupazione tedesca del nostro territorio. Per tenere occupata la gente e distoglierla dalla resistenza al nazifascismo, facevano lavorare gli uomini “al canäl”, vale a dire nel greto del torrente per fingere opere utili che alla fine venivano regolarmente eliminate con le ruspe.

Di qui il detto “va’ al canäl” utilizzato per mandare qualcuno a quel paese in cui si fanno appunto cose inutili ed assurde. In quel triste periodo ritornò a cantare al teatro Regio il grande tenore Francesco Merli, che aveva mietuto allori negli anni precedenti a Parma e nel resto del mondo. Al riguardo è memorabile una sua esibizione in concerto assieme a Renata Tebaldi, accompagnati al pianoforte, al ridotto del Regio: alla fine l’entusiasmo raggiunse l’isteria e voglio credere a mio padre che rammentava come una parte del pubblico fosse in piedi sopra le poltroncine ad applaudire freneticamente dopo l’esecuzione del duetto finale di Andrea Chenier. Quando ritornò alla ribalta del Regio, però, Francesco Merli, piuttosto anziano, non era più in grande forma vocale e non venne trattato con i guanti. In modo pesante ed inaccettabile, dettato più da cattiveria che da inesorabile atteggiamento critico, il loggione nei confronti del grande tenore Francesco Merli, reo di essersi presentato sul palcoscenico del Regio, nei panni di Manrico nel Trovatore di Verdi, con voce ormai piuttosto traballante, usò la suddetta pesantissima espressione: “va’ al canäl”.

Mio padre raccontava questo disgustoso episodio per bollare l’esagerata ed esibizionistica verve loggionista, ma anche per significare come una persona, quando ha vissuto in qualsiasi campo una notevole carriera, dovrebbe essere in grado di scegliere i giusti tempi e modi per abbandonare il campo del tutto o in parte o per cambiare comunque aria.

L’arte delle dimissioni non è di tutti e certamente non di Roberto Mancini. Il tempo migliore per lui sarebbe stato all’indomani del trionfo della nazionale al campionato europeo. Forse era chiedergli troppo. Il passo indietro era certamente da fare dopo l’eliminazione nella fase eliminatoria del campionato mondiale. Invece è andato avanti per parecchio tempo alla disperata ricerca di un rilancio, inanellando una serie di sconfitte piuttosto indecenti e decidendosi a togliere le tende a pochi giorni dagli impegni della nazionale in sede di gare importanti in vista del futuro campionato europeo del 2024.

Per uno come il sottoscritto, affetto da “dimissionite” acuta, è sempre stato normale solidarizzare con chi rinuncia dignitosamente ai propri impegni. Ebbene, Mancini è riuscito a giocarsi la mia solidarietà. Sapete quanto gliene potrà fregare…

Tutti si interrogano sul perché e il percome di questa improvvisa fuga: motivi tecnici, motivi economici, motivi strettamente personali. Un argomento futile in più per le chiacchiere estive. Non ci casco e sapete cosa mi sento di dire a Roberto Mancini? Con un ossimorico pizzico di bonaria cattiveria e senza alcun presuntuoso intento accusatorio, gli sussurro a denti stretti: “Va’ al canäl o addirittura va’ a ca…”.  Ci sono problemi ben più grossi, ma, come credo sostenesse Dante Alighieri, è comodo concentrarsi a discutere su quelli più piccoli e insignificanti.

«È mòrt Buscaglione…» sussurrò un infermiere amico nell’orecchio di mio padre molto sofferente, l’indomani di un intervento chirurgico per l’asportazione di ben tre ulcere allo stomaco. «E chi s’ nin frega…» fu la bisbigliata risposta. Una miscela di cinico realismo e di quasi legittima difesa. L’infermiere ebbe però l’ardire di insistere: «Mora, cme t’si cativ!». Mio padre non lo mandò a quel paese, ne avrebbe avuto, tutto sommato, il diritto, ma ribatté a modo suo: «Se a Buscaglione i gh’ avisson ditt “è mort Mora” co’ gh’ arisol rispost second ti…». Buscaglione era un importante uomo di spettacolo, simpatico, intelligente, ma il problema non era questo. Ai miei pochi lettori riservo la fatica di adattare questa gag, riportandola dal macabro contesto “buscaglionesco” a quello goliardico “mancinesco” (e pensare che eri piccolo, ma piccolo, tanto piccolo, così!).