Di minimo c’è solo la politica

Sul salario minimo tanto tuonò che non piovve. Dall’incontro tra governo e opposizione ci si aspettava qualcosa: o una rottura insanabile oppure l’apertura di un dialogo costruttivo. Invece ne è uscito un “compromessino antistorico” tanto per tirare avanti. Persino il Cnel sono andati a riscoprire pur di buttare la palla in tribuna, prendere tempo e girare vergognosamente intorno al problema.

Durante le animate ed approfondite discussioni con l’indimenticabile amico Walter Torelli, comunista doc, ex-partigiano e uomo di rara coerenza etica e politica, agli inizi degli anni novanta constatavamo, da incalliti vedovi del compromesso storico, come alla politica stesse sfuggendo l’anima: se ne stavano andando i valori e rischiava di rimanerci solo la “bottega” ed al cittadino non restava che scegliere il “negozio” in cui acquistare il prodotto adatto alla propria “pancia”. Fummo facili profeti: dopo il craxismo, che aveva intaccato le radici etiche della democrazia, venne il berlusconismo a rivoltare il sistema, creando un vero e proprio regime, in cui, a babbo morto, siamo sostanzialmente ancora invischiati ed immersi fino al collo.

Di questa deriva “avaloriale” è certamente responsabile la sinistra, il PD soprattutto, che dovrebbe ricominciare a fare politica dal basso della povera gente e dall’alto delle idealità della sua ricca storia. Invece, come sostiene autorevolmente Massimo Cacciari si gioca al leaderismo senza leader, alla strategia senza strateghi, alla opposizione senza programmi alternativi, alla politica senza preparazione e professionalità, alle nozze del dialogo coi fichi secchi della polemica.

La sinistra, in questa fase rappresentata dal PD e dal M5S (il convento passa la minestra che ha), ha fatto del salario minimo una bandiera (sempre meglio dei soprammobili da salotto) e del reddito di cittadinanza uno stendardo (sempre meglio del riformismo politicamente corretto). Le bandiere e gli stendardi vanno sventolati, ma, se dietro non c’è un’elaborazione culturale complessiva, una mobilitazione popolare, una capacità di proposta di governo, tutto rimane in balia delle onde politicanti e i problemi del lavoro e del sostentamento ai poveri retano un terreno di scontro polemico fine a sé stesso. Soprattutto se dietro non c’è un aggancio a dei valori irrinunciabili si rischia di (s)cadere nel tatticismo, laddove vince la politica della “bottega”, di cui ai miei dialoghi con l’amico Torelli.

La politica è un’arte e quindi espressione di valori a cui fare riferimento critico ma positivo e creativo, dall’altra parte è una professione basata sulla qualità dell’esperienza e della preparazione e non sulle capacità di mestieranti più o meno improvvisati.

Giorgia Meloni ha avuto buon gioco nell’eludere il problema del salario minimo: ha rimandato tutti ad un approfondimento teorico della questione (Cnel), ha preso tempo per elaborare uno straccio di accordo che salvi capre e cavoli, ha celebrato una messa minimale invischiando tutti in una vuota ritualità istituzionale. Carlo Calenda c’è caduto dentro alla grande (gli hanno però rubato il mestiere di pontiere), Giuseppe Conte ha rifiatato nel suo populismo di maniera, Elly Schlein è rimasta col cerino in mano non sapendo a cosa dare fuoco.

Tutto da rifare, diceva Gino Bartali. Nel frattempo però i lavoratori sfruttati continuano a soffrire e i poveri restano senza sussidio. A quando una sinistra che sappia fare il suo mestiere? A quando una politica accettabile (accontentiamoci!) che sappia affrontare la realtà? A quando la riscoperta dei valori da cui ripartire e con cui ridare senso ad una sinistra fatta di lotta (intesa come coinvolgente protesta e proposta) e di governo (al momento “ombra” in attesa di tornare luce).