L’europeismo non è bello se non è litigarello

Il nostro (?) governo di destra ha scelto di improntare i rapporti con l’Unione europea ad una costante anche se contraddittoria conflittualità. Messosi abbondantemente al riparo sotto l’ombrello atlantico – anche a costo di sprecare risorse in armamenti che finanziano una sorta di “bellicismo costituzionale” (un ossimoro bello e buono) – si sente libero di guerreggiare pacificamente con la Ue e i partner europei.

Non c’è questione su cui non si apra sistematicamente un contenzioso, dal Mes al Pnrr, dai diritti civili alle riforme, per non parlare dei migranti: sembra che la filosofia sia quella di litigare per poi portare a casa qualche risultato in sede di riconciliazione. Una concezione “penelopica” della tela dei rapporti europei. Si vuol far credere che per conquistare rispetto e considerazione occorra rompere i coglioni. Posso sbagliarmi, ma io resto dell’idea che ai rompicoglioni si conceda assai poco, quel minimo che possa bastare a toglierseli di torno.

È innegabile come certi atteggiamenti dei partner europei e della commissione europea possano innervosire e infastidire, ma, aprendo in continuazione momenti di frizione o addirittura fronti di conflitto, non vorrei che finissimo per tirare la corda fino a spezzarla. Abbiamo un debito pubblico enorme e quindi non possiamo fare la voce grossa. Non abbiamo i conti in ordine e quindi dobbiamo accettare reprimende e raccomandazioni anche se il tono da primi della classe usato nei nostri confronti può irritare. Siamo indietro sulla strada delle riforme: abbiamo un’evasione fiscale pazzesca, una burocrazia inefficiente, una delinquenza organizzata che ci condiziona. Siamo obiettivamente e costantemente in ritardo nel recepimento delle direttive comunitarie e questo dato ci rende poco credibili e poco affidabili. Non siamo stati capaci di spendere bene i fondi che negli anni la Ue ci ha concesso e quindi suscitiamo scetticismo sulla capacità di utilizzare correttamente e speditamente le risorse che ci vengono messe a disposizione. Siamo sempre alla porta di Bruxelles con il cappello in mano (ne abbiamo veramente bisogno), ma stentiamo a presentarci nei dovuti modi e soprattutto con la dovuta umiltà, finendo spesso col parlar male di chi ci dovrebbe aiutare.

Se poi i nostri partner europei vanno a scorrere la vita politica degli attuali governanti italiani, c’è da tremare: la coerenza non è certo una nostra virtù. Abbiamo avuto l’ardire di gridare che per l’Europa sarebbe finita la pacchia senza accorgerci di fare la fine del marito di quella barzelletta che tutti ricorderanno, il quale per schivare gli improperi e le bastonate della moglie, si rifugia sotto il letto. Al reiterato e autoritario invito della moglie ad uscire dal penoso nascondiglio, egli, con un rigurgito di machismo, risponde: «Mi fagh cme no vôja e stag chi!».

La partita però si è fatta molto grossa, mi riferisco al PNRR. Fin dall’inizio si potevano intravedere le difficoltà che avrebbe avuto l’Italia a varare e concretizzare questo gigantesco piano di investimenti con utilizzo di risorse comunitarie. Ora i nodi stanno venendo al pettine. Di fronte ai rischi di infiltrazioni più o meno mafiose, di ritardi più o meno burocratici, di incertezze più o meno ammissibili, ci chiudiamo sdegnosamente a riccio per evitare i controlli all’interno e spargere improbabili garanzie all’esterno. Rischiamo di essere patetici.

Dal momento che non siamo capaci di padroneggiare la situazione sul piano politico, finiremo schiacciati tra due burocrazie, quella italiana e quella europea. Non so chi la potrà spuntare, ma siccome queste vertenze generalmente le vince chi ha i quattrini in mano e manovra i cordoni della borsa… Per vincere dovremmo convincere e allo stato attale dobbiamo ammettere di essere assai poco convincenti.