Il campionato delle scimmiette

Il mondo del calcio italiano è sempre più in subbuglio, nuvole minacciose incombono e lasciano intravedere una crisi profonda negli assetti societari, negli aspetti finanziari e nei rapporti commerciali. Il castello non regge più ed i terremoti sono in corso o dietro l’angolo.

Ebbene in questa situazione cosa fanno i protagonisti? Continuano imperterriti a svolgere il loro compitino. I giornalisti si occupano delle traballanti difese delle grandi squadre. I moviolisti discutono di fuorigioco semi-automatico. I giocatori fanno le bizze ( ultimo Zaniolo per tutti). I tifosi a Napoli esultano per l’imminente scudetto, nelle altre piazze protestano ora contro le società, ora contro i calciatori, ora contro la giustizia sportiva, ora contro la Federazione. I manager delle società calcistiche fanno finta di concludere affari senza avere il becco d’un quattrino e scambiandosi giocatori tanto per dare un po’ di fumo negli occhi alle tifoserie sempre più disincantate e camuffare i bilanci sempre più disastrosi.

Delle suddette proteste l’unica che ammetto, nella sostanza e non nella forma violenta (per questa ci vorrebbe il pugno durissimo così come per le società che vivono di espedienti amministrativi), è quella contro i calciatori superpagati che fanno i loro porci comodi, minacciando fughe verso lidi più remunerativi (vergogna!!!).

Tutti fanno come le tre scimmiette che non vedono, non sentono, non parlano. Il redde rationem si sta avvicinando a meno che…il capitalismo non abbia nel cassetto una qualche soluzione di riserva: forse in tutti c’è la (quasi) certezza che il calcio non possa finire, un retropensiero duro a morire. Il mio divorzio con questo assurdo mondo avvenne proprio nel momento in cui la squadra di Parma era in auge: mi chiesi il perché io dovessi soffrire o gioire per gli interessi economici di Calisto Tanzi, il patron della Parmalat e del Parma Calcio. Ebbi ragione da vendere, il tempo dimostrò che non ne valeva la pena.

Forse qualcuno sta cominciando ad aprire gli occhi, anche se tutto continua ad essere più o meno mediaticamente coperto. A volte, seguendo qualche partita di calcio, mi sento persino in colpa nella mia radicalità anti-sistema.

Poi vado a rileggere il libro di ricordi sulla vita di mio padre. Cosa direbbe lui oggi di calciopoli, Moggiopoli e via dicendo. Forse riprenderebbe le ingenue esclamazioni di mia madre di fronte alla sarabanda degli uomini che ruotano attorno al calcio: “Co’ farisla tutta ch’la génta lì s’a ne gh’ fìss miga al balón?”. Non avrebbero più pane per i loro denti, il castello crollerebbe rovinosamente ed in effetti qualche serio cedimento ha cominciato a verificarsi.

Il concetto, che aveva mio padre del fenomeno calcio, tagliava alla radice il marcio; viveva con il setaccio in mano e buttava via le scorie, era un “talebano” del pallone. Per evitarle accuratamente pretendeva che il dopo partita durasse i pochi minuti utili per uscire dallo stadio, scambiare le ultime impressioni, sgranocchiare le noccioline, guadagnare la strada di casa e poi…. Poi basta. “Adésa n’in parlèmma pu fìnna a domenica ch’ vén”. Si chiudeva drasticamente e precipitosamente l’avventura calcistica in modo da non lasciare spazio a code pericolose ed alienanti, a rimasticature assurde e penose. Altri bei tempi.

Si badi bene che mio padre non era un soggetto che seguiva la partita in modo distaccato; era molto coinvolto, amava il calcio, (lo considerava lo sport più bello del mondo perché semplice, giocabile da tutti, per tutti molto comprensibile, affascinante e trascinante nella sua essenzialità, spettacolare nella sua variabilità ed imprevedibilità), sentiva fortemente l’attaccamento alla squadra (soprattutto nelle partite stracittadine con la Reggiana soffriva fino in fondo) e non sottovalutava il fenomeno “calcio” (fotball come amava definirlo in una sorta di inglese parmigianizzato).

Resta la nostalgia, restano i ricordi e la sempre più dimostrata verità secondo la quale si vive anche di ricordi.  Vale per tante questioni, calcio compreso. L’importante è non fare finta di niente, come se niente fosse. Sicuri solo di una cosa: non sarà mai possibile, come auspicava un mio zio, più contestatore che bastian contrario, che il calcio diventi un gioco in cui ventidue palloni rincorrono un uomo (o una donna). Sarebbe troppo bello!