Profumi governativi e balocchi partitici

C’è una simpatica e famosa barzelletta sulle promesse elettorali: vi daremo questo, vi concederemo quest’altro, vi offriremo ciò che vorrete… E l’afta epizootica? chiese timidamente un agricoltore della zona interessata. Vi daremo anche quella! rispose gagliardamente il comiziante di turno. Ce n’è un’altra che coinvolge sarcasticamente anche il rovescio della medaglia. “Lavorerete un mese all’anno!” “Sì, va bene, ma le ferie…”.

Sono storie vecchie in cui incespicano, più o meno, gli elettori di tutti i tempi. Alle ultime elezioni Silvio Berlusconi prometteva di piantare ogni anno almeno un milione di alberi su tutto il territorio nazionale nonché di concedere un minimo di mille euro al mese per tutti i pensionati. Enrico Letta ha ventilato l’ipotesi di una quattordicesima mensilità di stipendio a fine anno per tutti i lavoratori tramite il taglio del cosiddetto cuneo fiscale.

A giudicare dai risultati del voto avrebbe vinto la destra che sul piano fiscale ha sciorinato addirittura un taglio progressivo generalizzato delle tasse, la flat tax.  Tutte fuorvianti promesse da marinaio, che tuttavia hanno il loro effetto in consultazioni elettorali che si svolgono “alle grida”?

C’è una bella differenza tra l’assurdo capovolgimento costituzionale impresso da un’eventuale tassa piatta e il sacrosanto alleggerimento fiscal-contributivo del peso gravante sugli stipendi. Purtroppo però nel frastuono propagandistico tutte le promesse rischiano di diventare grige e l’elettore, non sapendo che pesci pigliare, si orienta verso quelli più grossi e improbabili.

Il nodo inestricabile è quello tra gli interessi di partito e quelli generali: la mission fondamentale della politica dovrebbe essere proprio quella di rendere compatibili gli uni con gli altri. Faccio un esempio che mi sta molto a cuore.

Il partito democratico, a mio giudizio, si è troppo appiattito sull’oltranzistico e aprioristico appoggio al governo Draghi, sacrificando certe battaglie identitarie quali la pace, l’equità fiscale, l’attenzione ai soggetti poveri e fragili, ripiegando sul pur importante discorso della difesa dei diritti civili e finendo nel tritacarne dell’indifferenziata sfiducia dei cittadini nella politica. Recentemente, nell’ambito del complesso discorso critico apertosi sul futuro del Pd, il personaggio a mio avviso più serio e coerente di questo partito, vale a dire Graziano Del Rio, in una delle sue poche apparizioni mediatiche (una fugace intervista all’uscita dal Nazareno), ha fatto una dichiarazione che mi ha messo letteralmente in crisi. “Al Pd è stato autorevolmente chiesto di appoggiare il governo di emergenza presieduto da Mario Draghi e di partecipare ad esso: lo abbiamo fatto convintamente e coerentemente fino in fondo, anteponendo gli interessi del Paese a quelli del partito. Non si è trattato di un errore, ma di una scelta per il bene dell’Italia, anche se forse la stiamo pagando in termini elettorali”. Non ha una, ma mille ragioni! Però l’abilità politica del Pd avrebbe dovuto consentire un minimo di capacità critica nei confronti del governo di (quasi anche se finta) unità nazionale.

Cosa è successo infatti? Appiattirsi sugli Usa e sulla Nato non solo ha tradito la storica capacità italiana di stare nelle alleanze con spirito criticamente costruttivo, ma ha fatto perdere i voti dei pacifisti e di tutti coloro che avevano e hanno un pensiero di perplessità critica sulla guerra russo-ucraina (tra questi anche il sottoscritto). Appiattirsi sull’obbligo vaccinale quale miracolistica ed unica arma difensiva contro la pandemia non solo ha messo in secondo piano tutta una serie di misure socio-sanitarie atte a combattere veramente e nel tempo gli effetti devastanti del virus, ma ha fatto perdere tutti i consensi di quanti avevano ed hanno perplessità sull’efficacia e la innocuità del vaccino anti-covid (tra questi anche il sottoscritto nonostante si sia piegato alla realpolitik vaccinale). Il dare assoluta priorità al macro-progetto del Pnrr rispetto alla micro-povertà dilagante non solo ha ridotto il governo a pur autorevolissimo gestore della finanza pubblica, ma ha lasciato al M5S la prateria dei poveri su cui imperversare elettoralmente.

Pur nel massimo rispetto all’inoppugnabile ragionamento di Graziano Del Rio, resto convito che un partito non debba mai identificarsi totalmente anche con il più amico dei governi, per mantenere un ambito di autonomia, di iniziativa politica e di respiro culturale. I governi infatti passano, ma la politica rimane con i suoi strumenti partitici di elaborazione e partecipazione.

Quando durante la mia infanzia esprimevo desideri impossibile per le modeste finanze della mia famiglia, magari passando davanti a qualche vetrina di negozi di giocattoli stracolma di balocchi, mio padre mi rispondeva con una bugia pietosa: “Sì, domani…”. Io mi fidavo, non facevo capricci e rispondevo laconicamente: “Va bene, domani…”. Quel domani non arrivava o arrivava con enorme ritardo, ma io sapevo comunque di essere in buone mani e mi fidavo. I partiti non sanno essere buoni padri di famiglia e gli elettori di conseguenza non possono essere figli di buoni padri, ma rischiano di comportarsi da “figli di buona donna”.