Extra profitti ed extra povertà

Fino a poco tempo fa si diceva giustamente che le difficoltà economiche riguardavano le persone che non avevano un lavoro: il primo discrimine socio-economico era il lavoro. Se una persona aveva un lavoro, seppure precario o mal retribuito, riusciva a cavarsela non senza sacrifici, ma sbarcando il lunario.

Il discorso, eloquente nella sua semplicistica sociologia, si è aggravato, oserei dire drammatizzato. Oggi non ce le fanno più anche molte persone che lavorano: il costo della vita è aumentato al punto tale da mettere a repentaglio i salari di molti lavoratori. Si è allargata la fascia della povertà coinvolgente buona parte di chi era catalogabile nel ceto medio, che, a sua volta, si è ristretto col passaggio all’ingiù, ma anche con il passaggio all’insù, vale a dire coi nuovi poveri e coi nuovi ricchi. Brutalmente parlando i poveri stanno sempre peggio e i ricchi stanno sempre meglio.

Il nostro sistema economico, complici le crisi cicliche e quelle straordinarie dovute a pandemia, guerra, ristrettezze energetiche, crea diseguaglianze e il sistema politico-sindacale non è in grado di correggerle. Si fa un gran parlare di extra-profitti, vale a dire di imprese che lucrano sulle disgrazie e fanno affari d’oro: capitalismo vuol dire anche questo. Il grave però non è tanto questa anomalia sistemica, oserei dire connaturale al capitalismo, ma la incapacità a correggerne gli effetti a livello di regolamentazione dei mercati e di redistribuzione dei redditi.

La sinistra politica e per certi versi anche quella sindacale (portata più a difendere i privilegi che a combatterli) non riescono a prendere il toro per le corna e si rifugiano nell’assistenzialismo o nella comoda accettazione degli intoccabili meccanismi economici.

Mio padre non era un economista, non era un sociologo, non era un uomo erudito e colto. Politicamente parlando aderiva al partito del buon senso, rifuggiva da ogni e qualsiasi faziosità, amava ragionare con la propria testa, sapeva ascoltare, ma non rinunciava alle proprie profonde convinzioni mentre rispettava quelle altrui. Volete una estrema sintesi di tutto ciò? Eccola! Rifletteva ad alta voce di fronte alle storture del sistema economico latu sensu: «Se tutti i paghison il tasi, as podriss där d’al polastor aj gat…».

Mentre sarebbe necessario, fiscalmente parlando, picchiare duro sugli extra-profitti per ottenere risorse da impiegare a sostegno degli anelli deboli della catena, c’è addirittura chi promette di abbassare le tasse ai ricchi (flat tax) perché così i poveri possano sfamarsi delle briciole che cadono dalle tavole dei ricchi. In Gran Bretagna, dopo avere varato una diminuzione del carico fiscale in tal senso, hanno dovuto precipitosamente fare marcia indietro accorgendosi dell’ulteriore disastro innescato da simili misure.

In Italia, la destra ha inserito nel programma elettorale questa autentica fandonia e, stando ai risultati emergenti dalle urne, molti italiani l’hanno creduta plausibile. Della serie: proviamo a fare ridere i ricchi e chissà che anche i poveri possano smettere di piangere.

A sinistra è stato premiato, entro certi limiti e più con la forza della disperazione che con quella della convinzione, chi pensa di risolvere il problema della povertà con i sussidi, mentre chi avrebbe dovuto proporre qualcosa di più ha parlato di pannicelli caldi (vedi salario minimo) o di fantasiose mensilità aggiuntive.

Il sindacato va in piazza. Se il partito democratico deve leccarsi le ferite, anche il sindacato non è esente da esami di coscienza, così come l’intera area della sinistra, fatta di mondi, persone e movimenti e che, come dice Massimo Cacciari, si sta divorando tutto il patrimonio culturale e storico accumulato, mentre i poveri stanno a guardare o per dirla in dialetto parmigiano finiscono col magnär dal pèss ociàlón.