La cotta per Draghi non è passeggera

La politica italiana (e non solo italiana) è talmente irresponsabile e inqualificabile da indurre i commentatori politici a previsioni più o meno stravaganti in vista delle prossime elezioni di livello nazionale (primavera avanzata del 2023).

La più politicamente fondata è quella di Massimo Cacciari che vede un partito democratico, schiacciato irrevocabilmente su Mario Draghi, asse di un rassemblement, che dovrebbe imbarcare i partitini di Renzi, Calenda e Di Maio e strizzare l’occhio ad un redivivo e rafforzato Berlusconi, sdoganato finalmente dai suoi tremendi e impossibili alleati di destra (Lega in calo di consensi e FdI in freezer europeo) a cui potrebbe rubare voti e seggi in Parlamento.  I numeri attuali non danno la maggioranza a questo coacervo di forze, ma al resto ci penserebbe Draghi con il suo crescente consenso popolare, europeo e mondiale (piace a tutti, non ha alternative, quindi…). In questa ipotesi resterebbero all’opposizione un M5S ridotto all’osso dell’antipolitica e costretto a succhiarlo in mancanza di carne elettorale, i rimasugli dell’estrema sinistra falcidiati dal ridimensionamento delle Camere e dal rientro nel Pd, FdI e Lega costretti a digrignare i denti e cavalcare la piazza (la Meloni metterebbe i voti nel materasso e Salvini tornerebbe solo soletto a coltivare l’orto di una sfuggente e imbronciata Padania).

Poi vengono i due scenari più fantasiosi, quello configurato da Angelo Panebianco e quello intravisto da Paolo Mieli. Il primo prefigura un orribile compromesso antistorico fra Partito Democratico e Fratelli d’Italia, accomunati da una politica occidentalista come più non si può e dalla volontà di contrastare i “putiniani de noantri” (Lega, M5S e persino un nostalgico Berlusconi) e di evitare di essere coinvolti nelle macerie europee a cui potremmo andare incontro malgrado Draghi.

Mieli si diverte a prefigurare a contrariis “un nuovo Grande Centro del quale faranno parte Lega, Forza Italia e Movimento Cinque Stelle. Schieramento al quale Berlusconi porterà in dote l’ancoraggio al Partito popolare europeo. E che costituirà una sorta di approdo naturale per tre partiti anomali che hanno fatto la storia di questi trent’anni (Berlusconi più degli altri, quasi venti). M5S, Lega e Fi hanno all’attivo d’aver ottenuto, in fasi diverse del trentennio, alcuni ragguardevoli record di voti. Favorite (talvolta danneggiate) dalla presenza di leader impegnativi.

Tre formazioni che non hanno un’autentica parentela con la storia della Prima Repubblica. Né — eccezion fatta (forse) per Forza Italia — con i filoni tradizionali della politica europea. Tre partiti che nel corso della loro vita hanno dato prova di non essere refrattari ai cambiamenti di orizzonte, di strategia e di alleanze. Anche repentini. E che, per il motivo di cui si è appena detto, hanno come tallone d’Achille il non potersi fidare l’uno dell’altro. Li accomuna, però, l’esibita devozione (intermittente nel caso di Salvini) nei confronti di Papa Francesco. Oltre a un’autentica passione per lo scostamento di bilancio, al non essere ossessionati dal rispetto delle regole europee (compresi gli impegni assunti con il Piano nazionale di ripresa e resilienza). In politica estera, sono uniti da un’ostinata ricerca di orizzonti sempre nuovi. Ad est, s’intende.

Questo Grande Centro è già oggi largamente maggioritario in Parlamento. E, se rimarrà intatta la legge elettorale, al momento della composizione delle liste sarà determinante per entrambi gli schieramenti, centrodestra e centrosinistra. Ma, anche se si adottasse un sistema proporzionale, questo insieme di partiti, nelle nuove Camere, avrà quasi certamente i numeri per condizionare ogni possibile maggioranza.

In attesa delle elezioni del 2023, si può notare che il minimo comun denominatore di questo Grande Centro, oltre alla quasi esibita antipatia per la causa di Kiev, è una ben individuabile avversione nei confronti di Mario Draghi nonché dell’attuale governo”.

Ho fatto riferimento a tre autorevoli politologi, costretti peraltro a fare le nozze coi fichi secchi. In una politica letteralmente impazzita ci può stare di tutto. C’è però un piccolo particolare: i cittadini, un po’ per la necessità di concentrarsi sugli enormi problemi che tendono più a crescere che diminuire e un po’ per la virtù di averne piene le tasche dei cialtroni e dei Dulcamara che vogliono loro appioppare degli elisir di breve vita, si stanno affezionando a due personaggi diversi ma entrambi affidabili, vale a dire Sergio Mattarella e Mario Draghi. A giudicare dai comportamenti elettorali emergenti e dai sondaggi di opinione gli italiani hanno sfiducia nella politica e guardano al suo commissariamento mattarellian-draghiano come risposta quanto meno a medio termine: un ciambellone di lusso a cui attaccarsi per sopravvivere in attesa di tempi migliori. A mio giudizio quindi le ipotesi di cui sopra vanno vagliate tenendo conto di questo umore diffuso e passate al setaccio della continuazione dell’equilibrio politico “inventato” genialmente da Mattarella e pilotato “magistralmente” (?) da Draghi.

Mi sembra quindi che il gioco dell’oca vada bene fintanto che non si disturbi Draghi: in quel caso si ritorna alla casella iniziale e bisogna cambiare percorso. Ad occhio e croce lo scenario più rispondente a questo requisito filo-draghiano è quello che fa riferimento al pensiero tranchant di Massimo Cacciari: un Draghi (quasi) for ever. Per me, che continuo a credere nella politica, è un boccone duro da inghiottire. Mi sforzo di farlo e mi rifugio sotto l’ala protettiva di Mattarella.