Ho recentemente conversato con un carissimo amico, il quale mi invitava a riflettere sul momento storico che stiamo vivendo: una impressionante e infinita sequela di cataclismi di carattere ecologico si sta abbattendo su di noi, che fatichiamo a renderci conto dell’enormità delle cause e delle conseguenze. L’aria e l’acqua, vale a dire gli elementi fondamentali della nostra esistenza materiale sono messi in discussione da un progressivo inarrestabile inquinamento che, a sua volta, provoca sovvertimento degli equilibri naturali e cambiamenti climatici. Alla siccità sta facendo seguito lo scioglimento dei ghiacciai: una perversa spirale che ci sta investendo.
In parallelo, ma non senza collegamenti strutturali, le epidemie mettono a soqquadro il nostro modo di vivere e precarizzano ulteriormente la nostra già fragile vita. La guerra aggiunge la ciliegiona sulla torta, che ci viene servita sul piatto d’argento della contemporaneità.
La morale della favola è che abbiamo costruito un mondo che non regge e viene messo in discussione da questi eventi catastrofici, che abbiamo volutamente esorcizzato fino al momento in cui hanno inesorabilmente dilagato.
Purtroppo a fronte di queste sconvolgenti novità (?) non riusciamo a elaborare nemmeno uno straccio di seria reazione: l’unica preoccupazione è quella di difendere il nostro sistema economico dai contraccolpi, senza capire che, così facendo, perpetuiamo le cause dei fenomeni apocalittici che si ripresenteranno a irregolare ma breve scadenza.
Faccio un esempio: come abbiamo governato la pandemia da covid 19? Facendo finta che fosse in via di rapida estinzione per lasciare spazio alla ripresa economica innescata dall’industria delle vacanze, sfruttando peraltro l’ansia psicologica del ritorno alla più fasulla delle normalità. E il virus si ripresenta “più bello e più superbo che pria”, mentre noi rimaniamo con un palmo di naso a pensare scriteriatamente a consumare le vacanze.
I governanti di tutte le specie e di tutti i livelli non sono in grado di mutare i meccanismi della società, perché il farlo richiederebbe la proposizione ai governati di enormi ed immediati sacrifici a fronte di benefici lontani ed incerti nel tempo. Bisognerebbe avere il coraggio di riprogrammare il mondo!
Volete un altro esempio? Introdurre schemi di pace nella consolidata economia di guerra comporterebbe autentiche rivoluzioni i cui effetti sono facilmente immaginabili: riconversioni produttive a non finire creerebbero distruzioni e macerie aggiuntive rispetto a quelle causate dai conflitti armati.
E chi potrebbe mai affrontare queste emergenze che stanno diventando vera e propria normalità? Coloro che il “sistema” ha messo a capo delle nazioni? Quanti sono insediati a difesa dello status quo? I gendarmi del mondo presente? Domande drammaticamente retoriche.
L’unica via di salvezza è un coraggioso e lento avvio di una macchina completamente nuova, che nessuno sa costruire e nessuno sa guidare. Quindi ci limitiamo a contare i danni ed a sperare che il futuro non sia così brutto come si può facilmente immaginare. Non so se i cambiamenti debbano partire dall’alto o dal basso, so che non si può rimanere a guardare imprecando alla malasorte. Chi governa deve avere il coraggio di prospettare i sacrifici impegnandosi almeno a renderli compatibili con la sopravvivenza. Chi è governato deve accettarli (quasi) a scatola chiusa per provare a verificare sulla propria pelle che un altro mondo sia possibile.
A ben pensarci si tratta di innescare un virtuoso meccanismo educativo come quello introdotto dal Vangelo e mirabilmente illustrato da Gianfranco Ravasi: “l’amore di Dio modellato su quello di un padre nei confronti del proprio figlio. Il ragazzo spesso non riesce a capire il comportamento del genitore che gli nega ciò che egli ritiene un bene immediato. In realtà il padre vede più avanti rispetto al figlio e non gli può mai fare del male, anche a costo di opporgli un diniego che il giovane non comprende e accoglie con amarezza”. Nella fase storica in cui viviamo al padre manca però il carisma per rendersi credibile e al figlio manca il senso critico dell’ubbidienza per diventare protagonista positivo. Dove andremo a finire?